Tra gli #hashtag di Francesco

Maurizio Crippa

Sono convinto che a Papa Francesco non interessi molto il nostro fiume di parole su quello che lui dice, e su come lo dice. Non so se lo infastidisca, ma l’importante è che non si facciano “chiacchiere”. Da quando è diventato Papa, il 13 marzo 2013, e fino al 10 ottobre scorso (poi forse l’avrà ridetta ancora), la parola “chiacchiere” l’ha usata ben 42 volte. “Un cristiano prima di chiacchierare deve mordersi la lingua”, aveva detto in una delle prime udienze generali, e spesso è tornato sul concetto nelle omelie mattutine a Santa Marta, come il 2 settembre, tuonando contro “quelli che in una comunità fanno chiacchiere sui fratelli, sui membri della comunità, vogliono uccidere”.

    Sono convinto che a Papa Francesco non interessi molto il nostro fiume di parole su quello che lui dice, e su come lo dice. Non so se lo infastidisca, ma l’importante è che non si facciano “chiacchiere”. Da quando è diventato Papa, il 13 marzo 2013, e fino al 10 ottobre scorso (poi forse l’avrà ridetta ancora), la parola “chiacchiere” l’ha usata ben 42 volte. “Un cristiano prima di chiacchierare deve mordersi la lingua”, aveva detto in una delle prime udienze generali, e spesso è tornato sul concetto nelle omelie mattutine a Santa Marta, come il 2 settembre, tuonando contro “quelli che in una comunità fanno chiacchiere sui fratelli, sui membri della comunità, vogliono uccidere”.

    Sono altrettanto convinto che invece a Papa Francesco interessi molto essere ascoltato, possibilmente da tutti. Infatti parla molto, in modo semplice e diretto, e non la tira mai in lungo. Così, da quel 13 marzo al 10 ottobre, sulle 106 mila parole che ha pronunciato – esclusi i discorsi scritti ufficiali e l’enciclica firmata a quattro mani con Benedetto XVI – dopo “Gesù”, la parola che ha più usato è “tutto/tutti”. Le ricorrenze in questo caso sono 963. Gli interessa che le persone prendano sul serio quel che dice, che insomma le parole non siano flatus vocis, ma abbiano effetto. Per questo gli piace anche porre domande, e non sono mai retoriche. I punti di domanda sono 614. Un numero enorme, che forse sconvolgerà chi preferisce farsi dare le risposte. Nell’omelia di Santa Marta del 7 ottobre ne ha fatte a raffica: “Io mi domando, a me, e domando anche a voi: ci lasciamo scrivere la vita, la nostra vita, da Dio o vogliamo scriverla noi? E questo ci parla della docilità: siamo docili alla Parola di Dio? ‘Sì, io voglio essere docile!’. Ma tu, hai capacità di ascoltarla, di sentirla? Tu hai capacità di trovare la Parola di Dio nella storia di ogni giorno, o le tue idee sono quelle che ti reggono, e non lasci che la sorpresa del Signore ti parli?”.

    Non sto dando numeri a caso, alla fiera dal pallottoliere. Mi faccio aiutare, per provare a non chiacchierare a vanvera, da un articolo interessante scritto da Giuseppe Frangi per la copertina del nuovo numero del mensile Vita, in uscita venerdì 8 novembre. Forse, per il suo gustoso lavoro, Frangi è partito da una considerazione simile alla mia – prima di far chiacchiere, meglio provare a guardare e ascoltare – e si è preso la briga di analizzare le ricorrenze lessicali, insomma le parole più e meno usate dal Papa nei suoi discorsi non ufficiali. Prediche del mattino a Santa Marta comprese. Ovviamente, il punto di partenza di quell’articolo è l’omelia della prima messa celebrata da vescovo di Roma davanti ai cardinali, il giorno dopo l’elezione, breve e già piena del suo stile, imperniata su tre verbi – tre azioni, non tre concetti astratti: “Camminare”, “edificare”, “confessare”. Tre verbi del fare, che producono, hanno la pretesa di produrre, fatti nuovi. I linguisti la chiamerebbero la capacità “performativa” degli enunciati.

    La Libreria Editrice Vaticana ha appena pubblicato il volume “Omelie del mattino. Nella cappella della Domus Sanctae Marthae” (364 pp., 14 euro) che raccoglie le prediche delle messe mattutine di Papa Bergoglio tra il 22 marzo e il 6 luglio, così come sono apparse trascritte sull’Osservatore Romano. Bel caso di instant book necessariamente in progress e limitato, che però testimonia quanto la novità delle omelie a braccio del Papa (ma poi saranno a braccio? O non a lungo preparate, meditate, come il breviario quotidiano?) abbiano colpito, colpiscano, ben al di là di una certa spasmodica attenzione dei media. Attenzione, va detto, che taluni critici trovano fuori luogo, preferirebbero che sull’Osservatore Romano si limitassero a scrivere, in fondo alle “Nostre informazioni”, che “anche questa mattina il Romano Pontefice ha celebrato la Santa Eucaristia; la Transustanziazione è regolarmente avvenuta”.
    Ma non è così. Nell’introduzione al libro, il teologo Inos Biffi, dopo aver spiegato che le omelie “sono un genere letterario tipicamente cristiano”, preleva dal teologo benedettino Jean Leclercq una bellissima definizione: le omelie sono “una conversazione familiare di un pastore d’anime con il suo popolo durante un atto liturgico su di un testo biblico suggerito dalla liturgia”. Prosegue poi Biffi sottolineando che “a importare è senza dubbio il sugoso contenuto di queste ‘conversazioni familiari’ di Papa Francesco”, “ma a risaltare subito e a impressionare è già l’originalità del loro stile, col suo linguaggio facile e insieme vivace, ricco di metafore, immagini plastiche, capace di coinvolgere quanti ascoltano, di interloquire con loro”. Insomma “un prezioso Direttorio di vita spirituale”.

    Cosa c’è dunque che attrae così, nelle omelie del Papa, tanto da aspettarle come una novità, un buon inizio di giornata? Credo che ciò che colpisce, o almeno attrae me, per quanto possa valere da campione statistico, sia la freschezza (mattutina, appunto) di un uomo che riflette e comunica la sua esperienza viva di quel mattino, della sua fede presente in quel momento. Scavalcando per un attimo l’arco temporale dell’instant book, giusto per andare a memoria a un’omelia che mi ha colpito, il 30 ottobre Papa Francesco ha detto: “La speranza non è un ottimismo, non è quella capacità di guardare le cose con buon animo e andare avanti. No, quello è ottimismo, non è speranza… Questo è buono, eh! Ma non è la speranza. Non è facile capire cosa sia la speranza. Si dice che è la più umile delle tre virtù, perché si nasconde nella vita… Possiamo dire in primo che la speranza è un rischio, è una virtù rischiosa, è una virtù, come dice san Paolo ‘di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio’. Non è un’illusione”. Il 29 giugno, invece, aveva detto: “Quando il Signore viene, non sempre lo fa alla stessa maniera. Non esiste un protocollo dell’azione di Dio sulla nostra vita”. Ecco, l’impressione che fanno le prediche del Papa è per prima cosa quella di una comunicazione diretta, senza fronzoli, di una (auto)coscienza che è innanzitutto sua, è la sua fede e la sua speranza di uomo che si sveglia al mattino: non la riproposizione di una devota dottrina ma la fede in Gesù vivo come un fatto che accade di nuovo, che fa camminare. Ecco, quell’istante di presa di coscienza così decisivo per ognuno, “nel breve spazio tra il letto e il bagno”, per usare una bellissima espressione che ricordo di don Giussani, e che passando gli anni diventa per tutti più impegnativo. E sempre meno beata, l’incoscienza. Ecco, andarsi a cercare al mattino le parole di quell’uomo, aiuta la fede. Va da sé che, essendo quel vivace predicatore – a volte carezzevole e a volte duro, con parole che hanno lo schiocco dei ceffoni – il Papa, il vescovo di Roma, con quell’aiuto mattutino attrae e spinge, idealmente, tutta la chiesa.

    Concretezza della vita. Come quando, 5 giugno, disse che “lamentarsi davanti a Dio non è peccato”. Ma senza infingimenti, anzi i richiami alla semplicità della dottrina e della pratica cristiana sono tutt’altro che generici, buonisti: “Tante volte pensiamo che andare a confessarci è come andare in tintoria. Ma Gesù nel confessionale non è una tintoria”. “Ci fa vergogna dire la verità: ho fatto questo, ho pensato questo. Ma la vergogna è una vera virtù cristiana e anche umana. La capacità di vergognarsi: non so se in italiano si dice così, ma nella nostra terra a quelli che non possono vergognarsi gli dicono sinvergüenza” (29 aprile).

    Ma che ci sia in quelle mattine poca dottrina, per via del parlar facile, non è vero affatto. Come quando gli è capitato di condensare in un’immagine autoevidente la virtù “performativa” della fede, spiegando san Paolo dentro una concretissima “logica del prima e del dopo: prima di Gesù e dopo Gesù”… “Paolo ha abbandonato l’uomo ‘di prima’” ed è diventato l’uomo “di dopo” il cui obiettivo è “guadagnare Cristo”. La fede, un moto a luogo.

    Non c’è, nel libro, la predica del 18 ottobre, quella che ha causato tanti ahimè e ohibò, e una severa critica qui su queste colonne, ma che andava a un nocciolo duro dell’idea di cristianesimo (“Quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede  e non è più discepolo di Gesù”). Ma il 27 giugno aveva già detto quel che doveva, in materia: “Nella storia della chiesa ci sono state due classi di cristiani: i cristiani di parole – quelli ‘Signore, Signore, Signore’ – e i cristiani di azione, in verità”. E aveva contrapposto i “cristiani di parole”,  di tipo “gnostico” a quelli che aveva chiamato di tipo “pelagiano”, serioso e inamidato. Cristiani che “guardano il pavimento”. “Cristiani superficiali che credono, sì Dio, Cristo, ma troppo ‘diffuso’: non è Gesù Cristo quello che ti dà fondamento. Sono gli gnostici moderni. La tentazione dello gnosticismo. Un cristianesimo ‘liquido’. D’altra parte, sono quelli che credono che la vita cristiana si debba prendere tanto sul serio che finiscono per confondere solidità, fermezza, con rigidità. Sono i rigidi! Questi pensano che per essere cristiani sia necessario mettersi in lutto, sempre”.

    Non è ovviamente per far categorie. Ma solo per constatare che quando parla, predica, Bergoglio è sempre un Papa del “camminare”, per il quale anche i sacramenti non sono “riti magici”, ma qualcosa che fa muovere. Omelia del 24 settembre (anche questa non è nel libro): “Il Signore Gesù anche nella nostra vita personale ci accompagna con i sacramenti. Il sacramento non è un rito magico, è un incontro con Gesù Cristo”… “Incontriamo il Signore. E’ lui accanto a noi e ci accompagna: compagno di cammino”. C’è insomma un modo di dare freschezza evangelica alle realtà della dottrina, e farle rimbalzare nella vita. Forse una delle più belle omelie, il 4 luglio, è quella che prende spunto dalla guarigione del paralitico. Basterebbe a tagliare la testa a tante dispute interpretative sulla natura dell’ospedale da campo. “Quella è la radice del nostro coraggio. Sono libero, sono figlio… Mi ama il Padre e io amo il Padre! Chiediamo al Signore la grazia di capire bene questa opera sua, questo che Dio ha fatto in Lui: Dio ha riconciliato con sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione e la grazia di portare avanti con forza, con la libertà dei figli, questa parola di riconciliazione. Noi siamo salvati in Gesù Cristo! E nessuno ci può rubare questa carta di identità. Mi chiamo così: figlio di Dio! Che bella carta di identità! Stato civile: libero! Così sia”.

    Poco da chiacchierare e molto da ascoltare. Le parole di Francesco non sono generiche, vanno al succo delle cose e pretendono di essere capite per quel che contengono. O meglio, per stare al suo lessico fatto di mobilità e mobilitazione, più propriamente “portano”. Parole che comunicano, che non si limitano a “commentare” (“camminare”, “andare”, “uscire”).

    Viene voglia di fare un salto indietro, a quel tanto che è rimasto di vecchi studi di linguistica. E scoprire che invece che alla semantica, e al suo bilancino di sfumature dogmatiche e contenutistiche, pur sempre cose statiche, per capire qualcosa delle prediche di Papa Francesco, dell’effetto che producono, bisogna andare alla dinamicità di un pensiero tutto in azione. Mi tornano in mente le teorie della cosiddetta linguistica pragmatica. Secondo cui è “performativo” (brr, che parolacce ci facevano studiare, all’università) un enunciato pronunciando il quale si “compie un atto”. In altre parole, trattasi di enunciati che non descrivono né prescrivono un’azione, ma la realizzano effettivamente. Di solito, gli esempi dei manuali vanno a espressioni come “ti nomino mio erede”, oppure “lo giuro”. Ed è straordinario, a pensarci, che siano così simili al grandissimo incipit (performativo) del Vangelo di Giovanni: “Quel che abbiamo visto e udito, e le nostre mani hanno toccato, lo annunciamo anche a voi”. Forse per questo non disdegna di utilizzare Twitter. Mettersi in contatto, (la funzione fàtica, direbbe il vecchio Jakobson) è una delle sue priorità. Quella di Francesco, con tutta evidenza, non è nemmeno una retorica, l’arte di farsi dare ragione. Semplicemente, nelle prediche di Papa Francesco (e l’effetto lo si nota ancora di più, scorrendole in fila) c’è un’immediatezza della fede come esperienza personale, che mette contentezza, non fa stare fermi. Del resto, la più “performativa” delle parole non è proprio quella di Dio, secondo Isaia (55, 11)? “Così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. E proprio Bergoglio, il 9 giugno, nell’omelia di Santa Marta spiegava che il primo effetto della Parola di Dio è proprio quello di stupire, poiché in essa ritroviamo il senso del divino: “E poi ci dà gioia. Ma lo stupore è più che la gioia. E’ un momento nel quale la Parola di Dio viene seminata nel nostro cuore”.

    • Maurizio Crippa
    • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

      E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"