
La parola all'avvocato dei diavoli
Fra le pagine di “Taking the Stand: My Life in the Law”, Alan Dershowitz ha lasciato un refuso. Forse lo ha fatto di proposito. Forse è stata una svista della Crown, la casa editrice. In ogni caso a un certo punto l’avvocato americano scrive che è stato definito “il penalista più vincente della storia”. In una nota il “fact checker”, ovvero il redattore che supervisiona il manoscritto, si domanda: “Alan, non trovo la fonte. Ti ricordi chi ti ha chiamato così?”. Nessuna risposta.
Fra le pagine di “Taking the Stand: My Life in the Law”, Alan Dershowitz ha lasciato un refuso. Forse lo ha fatto di proposito. Forse è stata una svista della Crown, la casa editrice. In ogni caso a un certo punto l’avvocato americano scrive che è stato definito “il penalista più vincente della storia”. In una nota il “fact checker”, ovvero il redattore che supervisiona il manoscritto, si domanda: “Alan, non trovo la fonte. Ti ricordi chi ti ha chiamato così?”. Nessuna risposta.
Eppure questo è stato Alan Dershowitz, il penalista più vincente della storia, lo zelig degli avvocati, presente in molti fra i casi più eclatanti della storia giuridica americana. Professore di Harvard, Dershowitz ha salvato il miliardario Claus von Bülow (con quel caso divenne il primo avvocato a spettacolarizzare in aula la scienza forense), ha difeso Mia Farrow contro Woody Allen e Leona Helmsley dal fisco, si è occupato di Mike Tyson e O. J. Simpson.
Nel libro “Taking the Stand”, la sua autobiografia, Dershowitz racconta la storia di un ragazzino ebreo che si doveva difendere con i guantoni nelle strade di Brooklyn, fino alla cattedra a Harvard ottenuta a soli ventotto anni. “Sono orgoglioso di essere un penalista che sfida il governo e difende le persone al di là della loro colpevolezza o innocenza”, scrive Dershowitz nel suo trentesimo libro, il più personale. Un libro dove parla di tutto, anche di aborto (Dershowitz, militante pro choice della prima ora, dice che “non c’è nulla nella Costituzione americana che garantisca il diritto ad abortire”).
Politicamente il saggio si concentra sul giudizio più controverso di Dershowitz, quello che gli ha attirato le critiche più dure dopo l’11 settembre, anche da parte degli amici. Ovvero come coniugare privacy e sicurezza. “Nessun terrorista mi porterà giù con un aereo”, scrive il principe del foro. Da qui l’idea che forme di tortura possano essere legalizzate in casi estremi, perché “la tortura in modo clandestino e illegale già esiste”, negarlo è da ipocriti, “può essere istituzionalizzata per renderla visibile e trasparente”.
Come? L’avvocato dreyfusardo, radical e liberal, nel libro difende i “torture warrant”, mandati concessi da un giudice. Vuole che gli Stati Uniti ritirino l’adesione al trattato internazionale che proibisce la tortura dal 1984, perché quel trattato è vecchio, al pari della Convenzione di Ginevra non affronta il cancro del terrorismo.
Anche sul conflitto israelo-palestinese Dershowitz ha ricette audaci, tragiche. Propone, in caso di rinnovato conflitto, la cessazione di rappresaglie israeliane in risposta agli attacchi terroristici per un periodo breve, “di quattro o cinque giorni”. Trascorsa questa moratoria, se c’è di nuovo un attacco Israele ha il diritto di “distruggere un piccolo villaggio usato come base dai terroristi. I residenti avrebbero ventiquattro ore di tempo per lasciarlo, dopo di che gli israeliani spianano gli edifici”.
Alla cerimonia di addio a Harvard, dove la scorsa settimana Dershowitz ha tenuto l’ultima lezione, c’erano anche due ex presidenti della Corte suprema israeliana, Aharon Barak e Dorit Beinisch. Barak ha criticato la teoria sulla tortura dell’insigne giurista americano, dicendo che lo stato non può condonare, solo l’essere umano può. “Mi oppongo sia alla censura sia alla tortura”, risponde Dershowitz con il libro. “Ma so che entrambe verranno ancora usate in casi estremi (in risposta all’uso della parola ‘negro’ oppure alla ‘bomba a orologeria’). Quindi preferisco esplicite limitazioni, visibilità e chiarezza”.
La lotta al terrorismo giustifica un “compromesso temporaneo” con le libertà civili, di cui Dershowitz è storico campione. “Ogni compromesso in materia dovrebbe essere accompagnato da una dichiarazione di impatto sulle libertà civili, così come da una scadenza precisa per le misure adottate”. Dershowitz parla di “responsabilità democratica della tortura”. “Il problema persiste. La tortura proseguirà. Non smettiamo di pensare e di discutere sul fatto se il male della tortura non sia in alcuni casi un male necessario”.
Prima di congedarsi, Dershowitz ne ha anche per Glenn Greenwald, il giornalista del Guardian che ha svelato al mondo i programmi americani di sorveglianza: “Odia l’America e ama i regimi tirannici. E’ colpevole di tradimento”. Parola dell’avvocato che si appassionò alla legge difendendo i coniugi Rosenberg e finì per giustificare il waterboarding su Khalid Sheikh Mohammed.


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