Gesuiti adorabili fedeli

Umberto Silva

Adoro le guerre di religione, della religione la guerra è l’essenza e la gioia profonda. Parlando di guerre di religione non intendo quelle tra islam e cristianesimo e induismo, anche se indubbiamente vi furono momenti di eccelso charme, le Crociate, con re cristiani che armati di commovente ferocia attraversavano i mari per conquistare il Santo Sepolcro finendo titillati da eunuchi siriani.

Matzuzzi La nuova strigliata di Bergoglio contro la “fede da museo”

    Adoro le guerre di religione, della religione la guerra è l’essenza e la gioia profonda. Parlando di guerre di religione non intendo quelle tra islam e cristianesimo e induismo, anche se indubbiamente vi furono momenti di eccelso charme, le Crociate, con re cristiani che armati di commovente ferocia attraversavano i mari per conquistare il Santo Sepolcro finendo titillati da eunuchi siriani. Della religione mi piacciono le guerre civili, che prendono corpo nel vertiginoso avvitarsi dottrinale all’interno del cattolicesimo, intreccio del genio greco e di quello ebraico della cui infinita trama le altre religioni possono solo scorgere un pallido disegno, ché la maneggiona dea Kali può contorcersi quanto vuole ma è pur sempre quella cosa lì, ben altro la Transustanziazione, l’essere quando si coniuga al non essere, l’uno quando è anche l’altro in modo così semplice che il presuntuoso Nirvana al cospetto abbassa gli occhi.

    Il cattolicesimo è una foresta semprevergine, per quanti alberi abbatti altri ne fioriscono, per quanto tu squarci le fronde cercando la luce di un sole fiero della propria stupidità, subito sei ricoperto da un manto di più luminosa tenebra. Adoro i papi che si scomunicano l’un l’altro, osannati dai rispettivi fedeli. Stolto chi pensa di trarre da tutto ciò l’idea che il cattolicesimo sia teatro e basta; il teatro non è mai teatro e basta, imbecille! E la guerra più sublime è quella sotterranea, che neppure sembra ci sia, la guerra divina è la pace. Cosa passa tra il Papa Emerito e quello Meritevole? Cosa uno pensa dell’altro, cosa segretamente si dicono e soprattutto tacciono? Se dell’Uno si ama l’infallibilità, dell’Altro si adora l’errore, e se l’errore e il lapsus dominano l’epoca del casual, l’infallibilità fa pur sempre rizzare i capelli e chinare la fronte. E’ benedettino Francesco? Ma certo, come Benedetto è francescano, ed entrambi gesuiti, poiché non c’è Papa che non sia anche quel che lo precede e lo segue nei secoli dei secoli, fino a Pietro, la cui pietra è sempre lì, a sorreggere ciascun Pontefice, pietra filosofale e battesimale della cui impronta nessuno è esentato, neppure il Borgia. Tutt’attorno, la giocosa coralità dei fedeli che vogliono dire la loro, topini che si pretendono pari agli dèi e rimbrottano il Vicario di Cristo, lo consigliano sul da farsi, ne fanno polpette processandone il cadavere e gettandolo nel Tevere, come accadde a Papa Formoso la cui stravagante avventura chissà perché ravviva certe mie notti che lo vedono navigare luminoso nei pressi dell’isola Tiberina.

    Se le dispute dottrinarie mi eccitano in modo furibondo, mi deprimono invece gli inviti all’unione delle chiese, ad abolire le differenze, ad adorare tutti uno stesso dio, che così diventa tanto comune da non meritare più nemmeno la D maiuscola. Amo lo scissionismo assolutista, ligio all’insegnamento del mio lontano antenato Umberto di Silva Candida, il cardinale che con la sua ostinazione a non cedere sul dogma del filioque provocò la secessione bizantina con tutto quel che ne seguì. Mi onoro di essere il discendente di tanto disastro, bravo Umberto, hai diviso il mondo in due ma il filioque era decisivo, anche il pane azzimo per l’ostia e non il vanesio lievitato. Se poi quelli là si tenevano il filioque, il sultano Mohamed non avrebbe conquistato quattrocento anni dopo la superba Bisanzio, per tre giorni e tre notti saccheggiata dagli orrendi giannizzeri tanto che ogni volta quando passo da Istanbul mi cresce una rabbia incontrollabile, se non fosse per certe signorine turche che uno le ha sempre immaginate coi baffi e invece sono più bizantine delle antiche, e allora si capisce che davvero Dio è grande, non il loro, il Nostro, e ha fatto in modo che…

    Amo l’implacabilità del dogma e detesto ogni forma di relativismo, costume piacione e accomodante giusto per farci sentire tutti bravi e indifferenti. Togli all’uomo la possibilità di affermare con la scure che il suo dio è migliore del dio del vicino e ci avviamo a una triste nenia del tipo: “Il nostro dio è lo stesso in varie forme. Da te si manifesta come capro da me come lucertola. Stringiamoci la mano e siamo contenti”. Si stringono la mano e non sono affatto contenti. Se la stringono ancora sempre più scontenti, finché non se le schiacciano a vicenda e allora si mettono a ballare felici. Gli eretici siano i benvenuti, senza di loro la chiesa non esisterebbe, dice Papa Ratzinger nelle prime pagine del suo memorabile trattato “Introduzione al cristianesimo”. Fossi vissuto nel Siglo de Oro avrei arrostito anche il mio papà, lui per primo; mi piace sospettare di tutti, anche perché tutti sospettano di me. A ragione; sono un inquisitore ma anche un eretico, Umberto di Silva Candida ma anche un altro Silva, arso a Lisbona il 18 ottobre 1739, ultimo testimone delle virtù purificatrici del fuoco. Sono il disertore che tutti gli eserciti vorrebbero fucilare: per inseguire un pensiero che arriva da chissà dove e mi rapisce non esito ad abbandonare la postazione ideologica che fino a quel momento ho saldamente presidiato; ma sono anche un combattente irriducibile, pronto a morire per quel che credo, in quel momento. Che la mia eresia vada perfettamente d’accordo con la mia ortodossia è un fenomeno che mi regala una gioia immensa.

    A volte scrivo un astioso pezzo contro la chiesa, a volte la osanno con i medesimi argomenti, spostando solo leggermente di lato le mie motivazioni, che compiono così un piccolo miracolo di cui ringrazio Dio ma anche Satana, che originariamente non era quel pessimo coso che poi si è fatto passare, e a me l’origine attrae molto, nel senso che pur non importandomene granché essa ha su di me una forte presa. Questi quasi invisibili spostamenti ottici che mi provocano enormi sconvolgimenti cosmologici, modestamente li chiamo miracoli; ma c’è qualcosa in cui sono ancora più versato, un miracolo maggiore in cui sempre più mi cimento. Manifesto due pensieri diversi, se non addirittura opposti, formulandone uno solo, senza nemmeno spostarmi di un millimetro. Esempio: scrivo una frasetta ove si percepisce che Dio non esiste ma anche sì. Com’è nata tale capacità? La teologia vive in noi fin da piccini, in modo irrituale e pertanto ancora più potente. Credere a una cosa ma anche al suo esatto contrario è una virtù inoculatami da mamma quando avevo otto anni e lei faceva finta di morire. Io mi avvicinavo al suo capezzale e le chiedevo: “Mamma, sei morta?” Lei taceva; mangiandomi le unghie giravo per la stanza chiedendomi angosciato se fosse viva o morta. Nel dubbio assumevo entrambi gli stati d’animo, chiamiamoli così, e facevo il morto vivente, il triste gaudioso, il becchino risorto e così via. Poi qualcuno si stupisce se sono diventato un assassino, un santo assassino, naturalmente. Insomma, se il veggente Borges sostiene che l’inquisitore e l’inquisito, la vittima e il suo carnefice, scopriranno nell’aldilà di essere la stessa persona, io già l’ho scoperto nell’aldiqua, con notevole guadagno di tempo: perché andare a cercare qualcuno da tormentare se ci si ha a disposizione ventiquattro ore al giorno?

    Questa nostra epoca mi pare estremamente prolifica di andirivieni: trovo i lefebvriani eroticissimi fin dal nome che evoca la febbre e qualcos’altro di ancora più sensuale, le labbra, una febbre da labbra, una lebbra, un herpes di quelli che fanno ziff, come il fuoco di sant’Antonio. Sono incantevoli i lefebvriani nella loro templare cupezza, li venero e nel contempo mi suscitano un orrore indicibile, e Papa Francesco lo amo così per ridere e nello stesso tempo lo amo con tutto il cuore, i sentimenti intermedi non portano da nessuna parte. Questa mia bifocalità dello sguardo non è sfuggita a occhi ancora più acuti. Già in giovinezza avevo avuto sentore che di me si parlasse nelle segrete del Santo Uffizio, udivo infatti una di quelle voci che vengono dai Posti Oscuri e non puoi fare a meno di ascoltare. Finché un giorno mi arrivò da una mano sconosciuta l’indicazione di un misterioso sito: Index forbidden books spreadsheet.xls. Esitai, infine aprii il sito come la decima stanza di Barbablù. Mi trovai davanti a una lista infinita di nomi, sessantamila, di scrittori e pensatori, dal più miserabile al più eccelso. Quel temuto e agognato Indice dei libri proibiti istituito dal fervore gesuitico nel 1558 e che da cinquant’anni si riteneva abolito, è vivo, vegeto e spietato. Accanto a ciascun libro, inciso a lettere di fuoco un numero da 0 a 6, a seconda del tasso d’inferno che in sé contiene. Cercai il nome del mio amico Moravia, diavolo noto oltre che per i romanzi anche per le ciglia, le orecchie grandi e aguzze e, per chi ha avuto occasione di vederlo, il petto assolutamente lupesco. Era uno dei più dannati del gruppone, Moravia, ma insieme a parecchi 6 esibiva anche dei 5 e persino alcuni morigerati 4. Perfino il più abietto di tutti, il Marchese di Sade, ha strappato un cinque per le sue opere più filologiche. Quando arrivai al mio nome per un attimo rimasi stordito: non v’era alcun titolo né punteggio, ma solo una agghiacciante irredimibile condanna delle “obras completas”.

    La mia opera all’Indice in toto, i libri dedicati alla mia bambina, anche quelli a venire! Ero uno dei sei o sette in tutto l’inferno a beneficiare di una simile dannazione plenaria. Ero pazzo di gioia. Il conforto di sapere che i padri gesuiti mi scrutavano nelle pieghe più intime dell’anima e mi castigavano – senza liquidarmi con un misero 3 o un 4 ma addirittura scavalcando il 6 con l’obras completas – era l’espressione suprema della loro stima e amore. Avere un carnefice di tale rango e tradizione, un inquisitore che in altri secoli e condizioni mi avrebbe messo al rogo additandomi come il più infido dei diavoli, mi riempì di un’ebbrezza sovrana sconfinante nella vanità. Un paio d’anni fa, tuttavia, improvvisamente avvertii il peso di quella pur magnifica condanna. Mi trovavo in una casa di piazza Navona ad assistere un mio caro amico nelle ore del trapasso. Lui era profondamente cattolico e più volte mi aveva parlato del suo timore d’incontrare Dio, che gli tirasse un brutto scherzo. Legato alla poltrona, in stato d’incoscienza ma chissà, il moribondo taceva, ma quelle sue parole su Dio e i brutti scherzi mi tornarono alla mente. Seduto su una sedia al mio fianco un illustre oncologo, uomo di rara eleganza e forbitezza, mi lanciava sorrisini incoraggianti. Gli raccontai della mia messa all’Indice. Non si meravigliò affatto. Estrasse un biglietto e ci scrisse sopra un nome e un indirizzo. Mi rassicurò che quella persona avrebbe potuto prendersi cura del mio problema e risolverlo. Gli promisi che sarei andato a trovarla, ma non ci andai. Pensai che colui che poteva risolvere quel problema dovesse essere ancora più potente e pericoloso di chi il problema l’aveva creato. Pensai, inoltre, che l’essere io la vittima della Santa Inquisizione santificasse me pure, mi assolvesse da molte colpe e, direi, le sollevasse a una superiore dignità.

    Se, infatti, la saggezza dei preti è grande, quella dei gesuiti è infinita. Se ne accorsero i superbi re del Secolo dei Lumi, che scioccamente li cacciarono obbligando Clemente XIV a sciogliere l’Ordine. I sovrani non volevano spartire il regno con i preti, con quei preti che troppo ci sapevano fare; pensavano di essere pronti a navigare da soli, e si trovarono in casa i rivoluzionari che reclamavano le loro teste. Un paio di decenni dopo, sulle macerie dei regni i gesuiti ritornarono a dar conforto ai disgraziati e a ricostruire le anime. Ancora oggi i gesuiti sarebbero troppo accondiscendenti con i costumi dell’epoca, se non complici. Si denigra così lo slancio dell’Ordine, che va sì incontro al Secolo, ma per soggiogarlo, per portarlo in catene ai piedi di quel Papa di cui fin dalla fondazione si sono proclamati fedeli soldati. “Il bianco è nero, se lo dice la chiesa”; questo è il mirabile motto di Ignazio, motto che solo una laica grettezza può considerare fanatico, laddove invece, anticipando il Freud della vitalità del lapsus, già nella metà del Sedicesimo secolo i gesuiti sancirono la verità della menzogna, la giustizia dell’errore, l’infallibilità del Papa anche e soprattutto quando sbaglia, che facile è vantarsi di azzeccarla, ben più duro celebrare i granchi.

    Il papato val bene un’enciclica, si disse Bergoglio, sottoscrivendo la Lumen Fidei per metterla in soffitta e dedicarsi anima e corpo a conciliare Dio con il mondo, quel giovane e inesperto re-bambino che il Signore troppo presto lasciò libero di far pasticci. Dal canto suo Papa Benedetto assiste tanto ammirato quanto angosciato all’altrui avventura, nella speranza che il crollo della chiesa coincida con la sua salvezza. So per esperienza che il Gesuita ce la farà. Tanti anni orsono una notte infilai sotto la porta del mio padre spirituale una pagina che conteneva dieci gelide dichiarazioni di ateismo. Attesi l’alba gustando una a una le lame che implacabili s’inoltravano nella vecchia carne del mio venerato maestro. La mattina facevo colazione nel refettorio quando sentii il padre alle mie spalle. “Sei giovane” mi disse, “e questa tua giovinezza è audace e un po’ sciocchina, deve esserlo. Ma ricordati di quel che ora ti dico: quando sarai più vecchio e stanco di tante cose, non esagerare nella piaggeria verso Santa Madre Chiesa; tieniti in testa sempre un po’ di stranezza”. I gesuiti sanno che l’ordine del mondo si fonda sul disordine mitigato dalle tre deliziose brioche che il padre spirituale mi portò su un piattino; tutto compreso nella mia nuova veste di arrogante ribelle, novello Bruto sdegnoso le allontanai con la mano. Nella prima giovinezza i gesuiti mi salvarono la vita, per anni li compensai con una superiore indifferenza. Ora a colazione mangio tre brioche, due panini con la marmellata, una banana e non ingrasso.

    Matzuzzi La nuova strigliata di Bergoglio contro la “fede da museo”