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Bergoglio è ratzingeriano
Questo articolo non parla di Papa Francesco. Bisognerebbe saperne una più del diavolo sul discernimento e la coscienza, sulla povertà, sui sinodi e il magistero, sull’estetica del bagaglio a mano. Questo articolo non parla di Papa Francesco, se non altro perché inizia qualche secolo prima. E’ stato Agostino nella “Città di Dio”, di fronte al Sacco di Roma del 410 e alle accuse dei pagani – ma come, abbiamo pregato il vostro Dio, e questo è il risultato? – a fissare il punto decisivo: nessuna città terrena potrà mai essere la realizzazione della Città di Dio.
Ferrara Scalfari stia attento, il Papa gesuita dissimula meglio di lui
“Ma ora, ohimè, la virtù di Cristo è accusata di impotenza poiché l’ambizione si unisce al suo nome” (Ilario di Poitiers)
Questo articolo non parla di Papa Francesco. Bisognerebbe saperne una più del diavolo sul discernimento e la coscienza, sulla povertà, sui sinodi e il magistero, sull’estetica del bagaglio a mano. Questo articolo non parla di Papa Francesco, se non altro perché inizia qualche secolo prima. E’ stato Agostino nella “Città di Dio”, di fronte al Sacco di Roma del 410 e alle accuse dei pagani – ma come, abbiamo pregato il vostro Dio, e questo è il risultato? – a fissare il punto decisivo: nessuna città terrena potrà mai essere la realizzazione della Città di Dio. Due amori differenti le convocano, l’amore di sé e dei beni materiali raduna i cittadini nella Civitas terrena, la Grazia raduna gli uomini in quella di Dio. Ma le due città non sono sovrapponibili, né divisibili con un colpo di spada o di legge, fino alla fine vivranno “permixtae”, mescolate, inseparabili. Così, dice Agostino, anche la legge civile, che pure deve ispirarsi a quella divina, non deve necessariamente coincidere con essa. E’ lo “status naturae lapsae” dell’uomo a impedire ogni teologia politica: la Civitas Dei è frutto della Grazia, ma Dio concede di prosperare anche all’altra, per quanto imperfetta. E la Città di Dio lascia spazio a tutti, a tutte le fedi.
Questo immagina e scrive Agostino nel Quinto secolo, quando già l’impero s’era fatto cristiano. A dire la verità, la faccenda inizia anche prima. Inizia quando Gesù risponde a Pilato: “Il mio regno non è di questo mondo”. E quello, interprete secondo giustizia della religione di stato, per la quale Roma è dio e dio è Roma, rimane interdetto, spiazzato. E non può far altro che lasciarlo ammazzare. Da allora prosegue la diatriba. Da Eusebio di Cesarea a Carl Schmitt, una corrente di pensiero ha sempre ribattuto che, seppure la chiesa di Cristo non è di questo mondo, vive pur sempre in questo mondo. E dunque è giusto che provi a imporre le sue regole, anche con i mezzi di questo mondo. Il punto però resta: la “critica della teologia politica”, intesa come presa di distanza dall’abuso del potere in nome di Dio. Come spiegava Joseph Ratzinger in “Chiesa, ecumenismo e politica”, 1987: “Il cristianesimo, in contrasto con le sue deformazioni, non ha fissato il messianesimo nel politico. Si è sempre invece impegnato, fin dall’inizio, a lasciare il politico nella sfera della razionalità e dell’etica. Ha insegnato l’accettazione dell’imperfetto e l’ha resa possibile. In altri termini il Nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica”.
Questo articolo parla della critica della teologia politica. Se si vuole, un passo indietro rispetto alla rissa verbale ed ecclesiale su quale sia il posto della chiesa nello spazio pubblico, e cosa sia negoziabile oppure no: il vero contenuto della teologia politica oggi che, almeno sul fronte occidentale, la questione non è più il Dio delle armi né manco, da un pezzo, il certificato d’esistenza in vita dei partiti cattolici. Il tema sono le condizioni entro cui la chiesa può e deve dire la sua nel dibattito pubblico, nel campo delle leggi che fissano la convivenza. Lo fa partendo da un bel libro di indubbio interesse, per il contenuto e soprattutto per la prospettiva che traccia – e per il suo necessario precipitare in media res. Si intitola “Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana” (Marietti 1820, 350 pp., 28 euro). L’autore è Massimo Borghesi, professore di Filosofia morale all’Università di Perugia, già autore di un altro saggio di spessore, su temi limitrofi, “Del Noce e la legittimazione critica del moderno” (ne scrisse Tommaso Ricci sul Foglio del 26 agosto 2011). Trattasi di libro accademico, fitto di note, impegnativo. Non proprio come leggere don Camillo. Per non perdersi, serve un’inquadratura minima.
Borghesi parte dai Padri della chiesa, chiarendo come fino a Costantino sia unanime il giudizio in tema di libertà religiosa (“Dio ci ha insegnato a conoscerlo, e non costretto… se si usasse la violenza per istituire la vera fede, la dottrina episcopale vi si opporrebbe”, Ilario di Poitiers). Poi spiega come le cose cambino in epoca teodosiana – è l’editto di Tessalonica del 380 a negare una libertà religiosa, per gli altri, che invece quel “modello di libertà religiosa” che è l’editto di Milano, di cui si celebrano ora i 1.700 anni, aveva mirabilmente sancito per tutti. Poi le posizioni mutano, prevale la teologia politica romano-cristiana di Eusebio di Cesarea. Persino Agostino si convince dell’utilità della forza dello stato nella difesa della religione, approvando il pugno duro contro gli eretici donatisti. E’ questo Agostino corretto da Eusebio che diventa poi canone nella filosofia medievale, delle due Città “permixtae” e conviventi si perde un po’ traccia, e si arriva così alla soglia dell’epoca moderna.
Ma Agostino non è solo questo. Dopo il Sacco di Roma il vescovo di Ippona elabora la sua grande visione escatologica, straordinariamente moderna. E quando, finita da un pezzo l’epoca della potestas terrena della chiesa, il pensiero teologico si divide, una sua corrente cruciale cercherà di rianimare l’idea del Sacrum imperium, in una sua versione secolarizzata. All’incrocio di tutti i discorsi c’è ovviamente colui che conia in epoca moderna l’espressione “teologia politica”, Carl Schmitt. Un tuffo nella filosofia tedesca di inizio Novecento, che non vive nell’iperuranio ma nella realtà di una crisi politica immane, che genera nostalgia per un’unità imperiale perduta, e che pervade anche la teologia (tanto cattolica quanto protestante) di dubbi sulla democrazia e del richiamo autoritario al ruolo della religione. E’ il pensiero di Schmitt, ma non solo. E’ il pensiero di un medievalismo caro ad autori che hanno influenzato la chiesa tedesca, come Alois Dempf, portandolo a esiti discutibili.
Ma è senz’altro in Schmitt, nella sua forte visione per la quale tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello stato sono “concetti teologici secolarizzati”, che l’idea di un inveramento secolarizzato della dottrina cristiana precipita. E contro questo pensiero emerge anche una visione critica. Borghesi la mette a fuoco attraverso il teologo tedesco Erik Peterson, strenuo oppositore delle giustificazioni cristiane al nazismo. Teologo assai caro a Ratzinger, che proprio attraverso di lui, mostra Borghesi, recupera l’Agostino politico “liberale”. Nato evangelico, convertitosi a 40 anni, Peterson (Amburgo 1890-1960) è autore nel 1935 di un fondamentale saggio, “Il monoteismo come problema politico”, che avrà influssi carsici, da Karl Barth a Maritain allo stesso Ratzinger, il cui vero obiettivo polemico era proprio la “Teologia politica” di Schmitt (il libro era stato pubblicato nel 1922). Una polemica a distanza, durata decenni, una vera e propria “leggenda scientifica” mai risolta, per il mondo accademico. Ma non è questo il punto, in realtà. Ciò che Borghesi mette in luce è la rilettura dell’Agostino delle due Città in chiave liberale. E attraverso Agostino, il percorso che arriva a Ratzinger, via Concilio.
L’altro pensatore chiamato in causa è proprio Joseph Ratzinger, il Papa che col discorso di Ratisbona nel 2006, ingiustamente accusato di incitare alla guerra di civiltà, scrive in realtà un manifesto del rifiuto del “messianismo” in politica. Ma che soprattutto, mostra Borghesi, proprio attraverso Peterson e Agostino puntualizza una comprensione fondamentale della “svolta” conciliare sulla libertà religiosa.
Che ruolo ha il cristianesimo nella polis post cristiana? La domanda non è da poco, se anziché da nostalgie passatiste, o da fughe in avanti utopiste, si parte dalla concretezza della storia. Come Péguy, che già all’inizio del Novecento vedeva con chiarezza “la prima generazione senza Cristo dopo Cristo”, la fine compiuta della cristianitas. Potrà tornare il sacrum imperium attraverso una nuova strategia politica? E che rapporto avrà con la libertà di tutti?
La grande sfida arriva fino al Concilio. Benedetto XVI, rileggendo l’importanza della Dignitatis Humanae, il documento conciliare sulla libertà religiosa, rimarcherà che “inaspettatamente” l’incontro con i grandi temi dell’età moderna avvenne proprio in due documenti minori, la Nostra Aetate e, appunto, la Dichiarazione sulla libertà religiosa. E afferma: “Si trattava della libertà di scegliere e di praticare una religione, ma anche della libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali della libertà dell’uomo. Dalle sue ragioni più intime, una tale concezione non poteva essere estranea alla fede cristiana, che era entrata nel mondo con la pretesa che lo stato non potesse decidere della verità e non potesse esiger alcun tipo di culto… i cristiani pregavano per l’imperatore, ma non lo adoravano. Da questo punto di vista si può affermare che il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione”. In quella lettura del Concilio sta il recupero della tradizione patristica, ma anche dell’intuizione agostiniana delle due Città. “Quale caratteristica positiva dell’età moderna annovero il fatto che in essa si sia coerentemente realizzata la separazione di fede e di legge, che era piuttosto nascosta nella res publica cristiana. In tal modo prende a poco a poco forma e struttura chiara la libertà della fede nella sua distinzione dall’ordine giuridico borghese, e le intime pretese della fede vengono distinte dalle esigenze fondamentali dell’ethos”. Benedetto XVI scriverà anche, in “Il Concilio Vaticano II quarant’anni dopo”, che “il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche”. Commenta Borghesi: “Nella lettura del Papa l’incontro tra cristianesimo e modernità non avviene rompendo con 1.900 anni di tradizione cristiana, come accusano i tradizionalisti. Al contrario è la riattualizzazione della tradizione ecclesiale dei primi secoli che consente la valorizzazione della lezione moderna”.
Non che il Concilio abbia risolto la disputa una volta per tutte. Negli anni 70, teologia politica ha significato uno sbilanciamento sul versante dell’utopia, la fede doveva produrre la rivoluzione, il cambiamento. Poi, negli anni di Wojtyla, il primo Papa da secoli ad avere un popolo dietro di sé, come notava Böckenförde, è sembrata inverarsi una nuova teologia politica, che sottraeva il mondo alle ideologie e rimetteva al centro il modello antropologico della cristianitas indivisa dall’Atlantico agli Urali. Illusione messa presto in soffitta dopo l’89, quando il trionfo del sistema liberale capitalista sembrava bastare a se stesso. Poi, con l’11 settembre, c’è stato un ritorno della teologia politica nella più classica delle contrapposizioni di Schmitt: il nemico pubblico, lo stato d’eccezione. E la chiamata al cristianesimo a ridiventare la religione civile-politica dell’occidente.
Ora che il Dio degli eserciti non sembra in cima alle priorità, la “fine dell’era costantiniana” viene a sovrapporsi con il discorso sullo spazio pubblico (è significativo che il cardinale di Milano Angelo Scola, molto impegnato nella celebrazione dell’editto del 313, abbia sentito l’urgenza di scrivere un libro proprio attorno alla necessità di recuperare un costantinismo positivo, dopo la fine di quello politico).
Ed è ancora una volta l’Agostino liberale quello che Ratzinger ha rilanciato. Come elogio dell’imperfettismo politico dentro il confronto fra le due Città. La Città terrena con il suo amore, determinato ora da un connubio di techné e nichilismo, “Comte ritornato dopo Marx”, come profetizzava Augusto del Noce già quarant’anni fa. E la città di Dio, convocata ora come sempre da Dio, e non da un contesto socio-politico favorevole.
Nell’ultima parte del volume Borghesi evidenzia, con Böckenförde, che Ratzinger ha sostenuto che è proprio nell’equilibrio liberale del diritto che si realizza il rapporto, non certo nel tentativo di forzare posizioni neodogmatiche. Anche Böckenförde, altro autore caro al Papa emerito, recupera l’Agostino per il quale “la legge che viene data al fine di guidare la convivenza tra gli uomini permette e lascia impunite molte cose che invece vengono punite dalla Provvidenza divina; ma egli non condanna la legge degli uomini per il fatto che non mette tutto a posto”. E’ ancora il tema della libertà delle coscienze che riemerge, assieme a quello delle leggi imperfette. Come ricordava il cardinale George Cottier: “I primi legislatori cristiani che non abrogarono subito le leggi romane tolleranti verso pratiche non conformi”, poiché “la chiesa ha sempre recepito come lontana e pericolosa l’illusione di eliminare totalmente il male dalla storia per via legale”. Temi ratzingeriani e agostiniani quant’altri mai, difficili da confondere come cedimenti al relativismo.
Questo articolo non ha parlato di Papa Francesco. Almeno fin qui. Ma è impossibile non notare alcune cose. Col nuovo Papa si è scatenata una sindrome della discontinuità che affascina qualcuno, e preoccupa altri. Elementi di discontinuità senz’altro ci sono. Ma non sulla critica di ogni teologia politica, qui c’è invece un’affinità evidente, che passa proprio da Agostino, come ha sottolineato Borghesi. Agostino che in modo significativo, come notava lo storico del Cristianesimo Giovanni Filoramo, Bergoglio ha citato come “santo preferito”, prima di Ignazio e dello stesso Francesco, nell’intervista con Scalfari. E’ l’Agostino delle “Confessioni”, certo, ma anche quello che “ha cambiato più volte posizione dottrinaria”. Ed è l’Agostino della grazia e della Città di Dio, delle due città “permixtae”. “Chi non è toccato dalla grazia può essere una persona senza macchia e senza paura come si dice, ma non sarà mai come una persona che la grazia ha toccato. Questa è l’intuizione di Agostino”, diceva a Eugenio Scalfari. E lui: lei si sente toccato dalla grazia? “Questo non può saperlo nessuno. La grazia non fa parte della coscienza, è la quantità di luce che abbiamo nell’anima, non di sapienza né di ragione”.
C’è grande spavento, in alcuni, per un Papa che dice che non bisogna parlare in continuazione di valori e dottrina. Che non ritiene compito della chiesa imporre leggi. Un pericoloso relativista? Un facilone peronista? Credo si farebbe torto alla sua intelligenza e preparazione se si sottovalutasse che in questo una continuità di visione con Ratzinger invece esiste. La cosa può ovviamente dispiacere ai vescovi americani, per niente convinti che si possano accettare leggi imperfette. Quelli francesi intanto continuano a dormire, e viene il dubbio che il problema non sia il relativismo della dottrina. Il filo rosso di ambedue i Papi è dato dal primato della Grazia e, come conseguenza, dalla critica della teologia politica e dal comune programma di de-mondanizzare una chiesa troppo attratta dalla dialettica del potere. Come sintetizzava ancora Ratzinger in “Chiesa, ecumenismo e politica”: “In Roma, e generalmente in ogni polis terrena, la città consiste innanzitutto in una comunità di uomini che è una per la comunione di un determinato amore. Da questo amore essa si crea poi il suo dio. Dapprima esiste la civitas e poi essa si dà la propria religione”. Inverso è il percorso che genera la Città dei cristiani. Lì è Dio che convoca la sua civitas. “Dio precede”, come dice Bergoglio.
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