
Demolizione della satira servile, furba e canagliesca (in Rai)
Quando voglio sapere che cosa pensa la sinistra di qualche categoria culturale o di un evento o personaggio storico o contemporaneo, cerco su Wikipedia. Esprime la mentalità media del ricercatore universitario italiano, di solito allievo frustrato e (crede lui) misconosciuto di Umberto Eco. Dunque ho cercato su Wikipedia alla voce “satira”. La definizione è esposta al lettore come un’ostia consacrata, anzi di più. E’ uscita infatti dalla mente di Dario Fo che in un’intervista a Daniele Luttazzi (due papi della sinistra e della satira, dunque infallibili al quadrato) scolpisce la tavola del Sinai: “La satira è una forma libera e assoluta di teatro”.
di Renato Brunetta
Quando voglio sapere che cosa pensa la sinistra di qualche categoria culturale o di un evento o personaggio storico o contemporaneo, cerco su Wikipedia. Esprime la mentalità media del ricercatore universitario italiano, di solito allievo frustrato e (crede lui) misconosciuto di Umberto Eco. Dunque ho cercato su Wikipedia alla voce “satira”. La definizione è esposta al lettore come un’ostia consacrata, anzi di più. E’ uscita infatti dalla mente di Dario Fo che in un’intervista a Daniele Luttazzi (due papi della sinistra e della satira, dunque infallibili al quadrato) scolpisce la tavola del Sinai: “La satira è una forma libera e assoluta di teatro”. Si noti: forma assoluta. Va più in là degli antichi. I quali si erano limitati a chiamare l’arte di Ennio appoggiandosi a una immagine religiosa sì ma diciamo più umile. Lo si evince dall’etimologia: “Satura lanx” è il vassoio riempito di offerte agli dèi. In questo caso siamo oltre l’offerta a Dio, che si immagina trepidante di attesa, poiché per Fo e Luttazzi la satira è una produzione di Dio stesso, offerta dal Dio produttore della satira all’umanità. Infatti chi è libero e assoluto se non Dio, che trascende l’effimero, coincide con il bene, il bello e il giusto? E in più ride, come auspica il citato Eco nel “Nome della Rosa” (almeno io ho capito così). Luttazzi non crede in Dio (vedi la sua battuta “se Dio avesse voluto che credessimo in lui sarebbe esistito”). Neanch’io. Ma io non mi credo Dio che giudica il mondo. Fo e Luttazzi, visto che il posto di Dio è vuoto, pretendono di sedercisi loro. Il Dio=Satira è ovviamente di sinistra, dato che per definizione la forma assoluta non può aver nulla a che fare con un delinquente come Berlusconi, dunque non ci si può lamentare se questa “forma libera e assoluta” inceda in ogni televisione pubblica o privata con quel connotato di pensiero e di risata unica. Così oggi è intesa in Italia la satira: Dio che giudica Berlusconi. I satirici si reggono il sacco tra di loro, dove far rotolare la testa di Berlusconi e di chi gli sta intorno. Per loro non ha limiti, essendo opera divina e dunque impeccabile. A meno che sia opera di un falso dio. Allora siamo alla satira fascista o nazista, la quale va censurata anzi annichilita “perché si compiace del male”. Non sto inventando. Luttazzi scrive proprio così. In questo caso non la riconoscono come satira (e lo teorizzano). Quella comunista, che si nutre di un’ideologia che ha ammazzato un centinaio di milioni di persone, invece sì. Perché è la loro.
Perché sto facendo questo discorso? E’ un derivato speculativo (non finanziario) del mio lavoro come parlamentare commissario di Vigilanza sulla Rai. Ho dovuto studiare la questione del pluralismo, come sanno i lettori del Foglio. E mi sono imbattuto nell’inclusione della satira nei programmi di informazione politica e in quelli di intrattenimento a contenuto misto (infotainment). Non ho avuto bisogno di molto acume per scoprire che la satira è giustamente politica (è nata così), ma nell’Italia contemporanea è davvero assoluta nella sua collocazione a sinistra, in coerenza con l’assunto teorico di cui sopra.
Nell’Italia televisiva, la satira suscita un giudizio morale e dunque politico, su quella persona o la sua etnia politica, provocando disgusto o antipatia, complicità o apprezzamento, accettando come postulati morali indiscutibili i pregiudizi che fanno riferimento all’universo mentale di una sinistra dominata da invidia sociale e odio di classe. Non del tipo antico alla Fortebraccio, ma ’68 mal digerito da chi si è cimentato nella satira in quanto a fare il brigatista era troppa fatica. E se una critica viene fatta a uomini di sinistra è perché sono implicitamente o esplicitamente reputati traditori del verbo se non di Marx, come minimo di Berlinguer e di Scalfari o (sotto i quarant’anni) di Saviano. Poi le divinità della satira sono in realtà ciascuno un “princeps legibus solutus”: dai fratelli Guzzanti a David Riondino, si scopre che si fanno portare i soldi all’estero da speculatori finanziari, come loro immaginano facciano gli elettori di centrodestra (che non sanno neanche chi siano questi Madoff dei Parioli o robe simili), ma questo difettuccio è riscattato dalla militanza e dalla fatica dell’arte rivoluzionaria, e poi in fondo anche Lenin utilizzava le speculazioni finanziarie di Parvus. Ho osato argomentare sul Foglio che la satira di Crozza, posta come copertina di “Ballarò” non è un siparietto neutro, “libero e assoluto” appunto, ma un’arma politica vera e propria, che viene appoggiata sulla bilancia del pluralismo avendo un peso specifico superiore degli interventi successivi dei politici presenti. Li vincola, li divora nella sua pancia che ha già situato ciascuno di loro nell’apposita sezione duodenale del pregiudizio, infilati come criceti nella ruota predestinata.
Questo è Crozza a “Ballarò”. Se vuole essere libero e senza condizionamenti come racconta, visto che è pagato dalla Rai, si adegui al ruolo che ha di servizio pubblico, e siccome non è conteggiato tra le presenze di sinistra (secondo i criteri dell’Osservatorio di Pavia e dell’AgCom) cerchi di dedicare la sua corrosiva e umoristica satira una puntata crudelmente scorticante la sinistra, e magari a quella porzione di Palazzo e di Casta che sono i pm e i giudici manettari. Finora invece la satira è stata osservata dai capi della Rai con criteri moralistici. Non si guarda contro chi va sistematicamente a parare, quello è dato per scontato, ma basta che non esageri con il linguaggio. Allora che fa il satiro astuto? Esagera apposta, così qualcuno si arrabbia, la Rai interviene per togliere una parolina, e si grida alla censura, e la satira trionfa perché si autoraffigura come perseguitata, un dio messo in croce. Risultato: alla Rai va bene così, e la Rai – in palese negazione del contratto di servizio pubblico e dell’obbligo di pluralismo – accetta questa legge del menga. Esempio. Nella puntata del 10 settembre, la prima del nuovo corso, Crozza ha sbertucciato e offeso Berlusconi, sul quale pesa una condanna grave (e che grida vendetta, aggiungo io). Ha trasformato gli elettori del Popolo della libertà in complici di un malfattore. Risate, sorrisi a mezza bocca degli ospiti del centrodestra, e poi via con la trasmissione. Gli ospiti erano poi ben ponderati, l’Osservatorio di Pavia impazzirà di gioia e manderò a Giovanni Floris una medaglia. Ma in realtà è stata una truffa. Ricordo che Mara Carfagna cercò di ribellarsi mentre era in corso la performance. Crozza restò meravigliatissimo e procedette imperterrito, difeso dalle risate antiproiettile di Giovanni Floris nelle vesti di guardia del corpo, come se Mara avesse disturbato una funzione religiosa. Ah già, è una forma libera e assoluta di arte, dunque è una liturgia, nessuno può salire all’altare salvo il prete. Non ci sto.
La gran lezione di Pablo Echaurren
Io invece non credo affatto che la satira sia libera e assoluta. Anzi proprio questa pretesa la rende pericolosa e infida. Perché ciò che è assoluto critica ma non accetta critiche. E’ la pietra di paragone che non può essere messa a rischio non dico di frantumazione ma neanche di scalfittura. Come il Corano, e a differenza del Vangelo, non è ispirata da Dio e dunque interpretabile, ma pietra divina intangibile e venerata.
Esiste un limite alla satira? Lo credo. Un limite morale. Ed è lo stesso limite connesso a qualsiasi forma di espressione umana. Non si può calpestare l’altro. Va rispettato l’altro. E’ falsificante creare selezioni ideologiche come fanno Luttazzi e soci per giustificare l’aggressione a man salva. La satira – siamo d’accordo – se la prende con il potere e con i potenti. Ma la condizione perché essa possa essere credibile è quella di essere meno potente dei potenti e non sopra di essi. Di rappresentare il potere dei senza potere. Non c’è stata satira più grande del comunismo quando, alla notizia della morte di Stalin, i capi del gulag videro allargarsi la bocca sdentata dei disgraziati zek (i galeotti) in un sorriso, allora intimarono: giù il cappello, anche se c’erano 30 sotto zero. Allora il genio del gulag ebbe un’idea.
Lanciò in aria il cappello, e tutti lo imitarono in una festa divina e umana che costò al primo probabilmente la morte. Il potere dei senza potere. La satira dei perseguitati! Invece oggi la satira dominante è avvinta come l’edera al tronco del potere, ne è la sua faccia propagandistica, fingendo di mettersi contro il potere, che per questa gente è sempre e solo Berlusconi anche se quest’uomo che non si lascia schiacciare ha il voto della gente e le manette dei magistrati. La satira è sodale del potere tremendo e senza limiti che ha in Italia la casta sacerdotale della magistratura gemellata con costoro. Ricordate come assurse alla fama Luttazzi e Travaglio con lui? Dedicando una serata alla lettura di verbali dove si accusava Berlusconi di essere dietro le stragi di mafia. Calunnie. Tutto archiviato. Ma erano verbali, roba ufficiale, timbrata dai magistrati. Satira da questurini. Va così. Crozza e Vauro (lui un po’ meno), i Guzzanti e Luttazzi, Dario Fo ma anche Travaglio, che si autocolloca in questo settore libero e assoluto, cavalcano successo e reddito abbracciati e funzionali al potere delle toghe.
La satira ha dei limiti, ripeto. E sono in ogni caso il rispetto della persona, nei suoi affetti più intimi, nei grovigli del cuore e della sofferenza. C’è una testimonianza di Pablo Echaurren, artista di estrema sinistra, e tra i fondatori del famoso Male. Egli se ne andò da quella rivista allorché i colleghi volevano ridicolizzare Moro mentre era sotto sequestro. E lui disse di no. Dice Echaurren: “Il limite della satira è la sofferenza”. Non si deve infliggere sofferenza a chi è immerso nel dolore e nella pena. Per questo la satira non può essere razzista, neanche per scherzo, neanche per sbaglio. Non sono tollerabili le caricature di ebrei con la caratterizzazione del naso e dell’avidità, o dei neri visti come scimmie o degli armeni con il naso e il tappeto falso. Costoro – ebrei, afroamericani, armeni – sono stati sottoposti a pene inenarrabili, genocidi, schiavitù. Non abbiamo il diritto di dimenticare che valore avevano quelle raffigurazioni al tempo delle stragi e dei trasporti marittimi degli schiavi d’Africa. La satira ha il limite della sofferenza. Essa ha di mira, da sempre, da Aristofane in poi, il fenomeno religioso. Va bene. Ma non può uccidere il deposito sacro dei credenti di qualsiasi religione. Senza di questo si scivola nella barbarie. Critica pure e metti alla berlina gli atteggiamenti dei fedeli, ma non offendere il loro Dio. La satira ha il limite della sofferenza. Per cui non si ridicolizza o non usa come argomento lo stupro, l’abuso subìto da un bambino, come modo per stabilire un paragone. Perché il limite della satira è la sofferenza, e la sofferenza non può essere inflitta ancora rammentandola senza pietà della vittima solo per il gusto di sfregiare il politicamente corretto.
La satira è vera se accetta il contraddittorio e lo regge. E’ fasulla, è di paglia se dinanzi alla contestazione si squaglia. L’abbiamo visto a Sanremo, con Crozza sperduto dinanzi a uno che gli ha fatto perdere il filo dicendo che l’aveva stufato con la solita tiritera anti berlusconiana. La satira, fermi restando questi limiti sempre e comunque, deve poi avere la sua casa, deve esercitarsi nel suo ambito, che è appunto il teatro. E il corrispondente spazio in tivù, che si chiama show, teatro comico, varietà. Se esce da lì deve accettare la metrica del pluralismo. Non può comunque sottrarsi alla replica. La forza di un Petrolini era di non aver paura della contestazione, di saper affrontare il contesto avverso. Invece la satira di Travaglio, Crozza, Vergassola e simili ha bisogno del consenso preventivo come l’aria. Si chiama satira di regime non al regime. Più che libera e assoluta direi che è assolutamente servile.
di Renato Brunetta


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