Reich-Ranicki, perfido di rango che ha fatto a pezzi gli intellettuali

Giulio Meotti

Meravigliosa la storia d’amore con la moglie Tosia. Ventenni, i due erano vicini di casa a Varsavia, allora sotto occupazione nazista. Con la ragazza, Marcel Reich-Ranicki leggeva i versi di Tuwim e Mickiewicz, assisteva ai concerti di Vivaldi e Boccherini improvvisati da musicisti fra cadaveri e mendicanti vestiti di stracci. Un giorno lei trovò il padre che aveva tentato di suicidarsi. E mentre cercava di salvarlo togliendogli la cinta dal collo, la madre disse a Marcel: “Occupati della ragazza”. Lui avrebbe tenuto fede alla promessa per settant’anni, fino alla morte della moglie, due anni fa.

    Meravigliosa la storia d’amore con la moglie Tosia. Ventenni, i due erano vicini di casa a Varsavia, allora sotto occupazione nazista. Con la ragazza, Marcel Reich-Ranicki leggeva i versi di Tuwim e Mickiewicz, assisteva ai concerti di Vivaldi e Boccherini improvvisati da musicisti fra cadaveri e mendicanti vestiti di stracci. Un giorno lei trovò il padre che aveva tentato di suicidarsi. E mentre cercava di salvarlo togliendogli la cinta dal collo, la madre disse a Marcel: “Occupati della ragazza”. Lui avrebbe tenuto fede alla promessa per settant’anni, fino alla morte della moglie, due anni fa.

    “Sono per metà polacco, per metà tedesco e per intero ebreo”, diceva di sé Marcel Reich-Ranicki, il “Toscanini della scena culturale tedesca” scomparso mercoledì scorso a novantatré anni. Nato a Wloclawek, cittadina sulla Vistola appartenuta alla Russia sino al 1918, da due ebrei che si sentivano prima di tutto prussiani. Il padre veniva dalla Nuova Prussia orientale; figlio di un commerciante, abbandonò gli studi e tentò senza successo gli affari. La madre, figlia di un rabbino squattrinato, era vissuta tra la Slesia e la Posnania, parlava tedesco meglio del polacco, recitava Schiller e sognava Berlino. Nel suo famoso “Literarisches Quartett”, la trasmissione televisiva di grande successo andata in onda su Zdf dal 1988 al 2001, Reich-Ranicki pronunciava giudizi apodittici e definitivi, divenendo il signore e l’arbitro del gusto letterario dei tedeschi. Coltissimo e intransigente, Reich-Ranicki è rimasto celebre per la copertina dello Spiegel in cui il critico era ritratto nel gesto di stracciare il volumone di Günter Grass “Ein weites Feld” su cui, molto prima della pubblicazione, il tam tam della stampa aveva creato grande aspettativa.

    Immortali le pagine della sua autobiografia sul ghetto di Varsavia, dove Reich-Ranicki si trovò a tradurre in polacco la condanna a morte degli ebrei decretata dalle SS. Ma quel lavoro lo salvò dal lager dove avrebbe perso invece il padre, la madre e il fratello. Rimasto a Varsavia, Reich-Ranicki entrò nella Zob, l’organizzazione combattente ebraica che avrebbe lanciato la rivolta armata del ghetto. Reich-Ranicki resistette soffrendo la fame e il freddo, confezionando sigarette, raccontando ai suoi amici trame di romanzi, finché non venne liberato da un soldato di Stalin, ebreo. Forse anche per questo, dopo la guerra, da comunista, avrebbe accettato di fare la spia per i servizi segreti polacchi. Fino alla delusione per l’antisemitismo rinascente, paradossale effetto della liberalizzazione di Gomulka, quindi la fuga e la condanna per deviazionismo.

    Reich-Ranicki ha letteralmente fatto a pezzi tutti i mostri sacri della cultura del Dopoguerra. Christa Wolf? “La scrittrice tedesca meno dotata di senso dell’umorismo. Coraggio e coerenza non sono tra le sue principali qualità”. T. W. Adorno? “Di una vanità infantile, voleva essere celebrato. Non cercava una silente adorazione, ma un tumultuoso applauso”. Hans Magnus Enzensberger? “Un barbaro dotato di uno spiccato talento poetico”. Peter Handke? “Uno sciocco, terribilmente noioso”. Bertolt Brecht? “Indossava sempre quella giacca grigia da proletario fattagli su misura dal miglior sarto inglese”. Grass? “Strapazza la pazienza del lettore”. Elfriede Jelinek? “Estremamente estrema e radicale”. Molti di questi lo vorranno poi morto, tanto che Handke descriverà Reich-Ranicki come “un cane rabbioso nel quale si agita qualcosa di dannato” e la cui “sete di sangue” è stata accresciuta dall’esperienza del ghetto. Friedrich Dürrenmatt gli dedicò un disegno, “Il cimitero dei crani”, dove si vede Reich-Ranicki con una penna seduto su un ammasso di teste, le sue vittime. Reich-Ranicki sapeva pagare per le sue idee. Quando era caposervizio delle pagine letterarie della Frankfurter Allgemeine Zeitung, nel 1988 si dimise per protesta contro Joachim Fest, allora direttore del prestigioso quotidiano, “colpevole” di aver accolto nel giornale le tesi di Ernst Nolte su Auschwitz. In molti accusarono Reich-Ranicki di fiutare antisemitismo ovunque. A chi gli chiedeva se fosse religioso, il critico culturale rispondeva che non esistono ebrei laici: “Un ebreo può vivere con o contro Dio, ma non senza Dio”. 

    A differenza dei suoi colleghi dell’establishment letterario, Reich-Ranicki osteggiò sempre il Sessantotto: “Non presi parte ai sit-in, non feci esperienza di ‘happening’, non partecipai a marce. Gli agitatori, gli slogan, aborrivo tutto questo fin dall’infanzia. Membri ricchi della società scelsero la Rivoluzione come un hobby dal minimo rischio. Fu una rivolta contro il mondo dei padri. E la letteratura fu usata per l’ideologia”.
    Henryk Broder, giornalista ebreo come il critico letterario, commenta così al Foglio la sua scomparsa: “Con Reich-Ranicki se ne va uno degli ultimi giganti del XX secolo”.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.