I finanzieri di Brecht

Stefano Cingolani

Shen Te era una ragazza che voleva fare del bene nel miserrimo Sezuan e tutti s’approfittavano di lei. Così, per salvare il suo negozietto decise di trasformarsi in Shui Ta, il cugino che seguiva la legge bronzea degli affari e interpretava la parte dell’orco. Giovanni Bazoli, uomo di sofisticata cultura e amante del teatro, deve aver visto la pièce di Bertolt Brecht messa in scena al Piccolo Teatro da Giorgio Strehler, prima di scegliersi il cugino cattivo e mettere gli occhi su Romain Zaleski. Che poi così cattivo non è perché nessun ritratto schematico s’addice al finanziere francese di origine polacca.

    “Noi che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza / noi non si poté essere gentili” (Bertolt Brecht, “A coloro che verranno”, 1939).

    Shen Te era una ragazza che voleva fare del bene nel miserrimo Sezuan e tutti s’approfittavano di lei. Così, per salvare il suo negozietto decise di trasformarsi in Shui Ta, il cugino che seguiva la legge bronzea degli affari e interpretava la parte dell’orco. Giovanni Bazoli, uomo di sofisticata cultura e amante del teatro, deve aver visto la pièce di Bertolt Brecht messa in scena al Piccolo Teatro da Giorgio Strehler, prima di scegliersi il cugino cattivo e mettere gli occhi su Romain Zaleski. Che poi così cattivo non è perché nessun ritratto schematico s’addice al finanziere francese di origine polacca. Prima salva Bazoli, poi viene egli stesso salvato e il destino vuole che adesso sia lui a mettere nei guai il proprio mentore. Come nell’“Anima buona del Sezuan”. Mimesi e nemesi.

    Secondo un osservatore attento e malizioso del potere economico italiano, Zaleski sta a Bazoli come Ligresti stava a Cuccia: entrambi servivano per fare il dirty job. La finanza non è un pranzo di gala, quanto più è alta tanto meno segue i dettami di monsignor Della Casa. Una cosa è certa, il professor Bazoli, avvocato a Brescia, viene scelto per controbilanciare Enrico Cuccia nel momento in cui crolla il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e si tratta di decidere se liquidare tutto o ricominciare. E’ una sorpresa, pochi lo conoscono, nonostante abbia un gran pedigree: il nonno Luigi fu tra i fondatori del Partito popolare, il padre Stefano docente di Diritto, tra i membri dell’Assemblea costituente, amici della famiglia Montini e di Giovanni Battista che sarà poi Papa Paolo VI. E Nanni come lo chiamano gli intimi, è sposato con Elena Wührer, la signora della birra.

    Bisogna fare un tuffo nel tempo per riannodare i fili dell’intrigante storia parallela e delle lotte che hanno percorso i tempi d’oro della finanza italiana. E’ il 1982, Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro, già consigliere di Aldo Moro, la testa economica più lucida della Dc, sa che l’Ambrosiano, banca della curia milanese, è troppo importante per gettarla a mare. Chiede allo Ior di pagare il fio, un miliardo di dollari o poco più, e affida l’impresa di ricostruire il baluardo della finanza cattolica meneghina a quell’avvocato già svezzato alla rude professione guidando il locale Banco San Paolo. La nomina viene approvata da Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, che condivide il progetto di avere a Milano un polo diverso da Mediobanca se non proprio alternativo, come sottolinea Giancarlo Galli, uno dei maggiori conoscitori della finanza cattolica che con Bazoli frequentava i seminari su etica e affari istituiti da Carlo Maria Martini, il gran gesuita arcivescovo di Milano.

    Equilibrio di poteri o divide et impera, in ogni caso Cuccia era diventato potentissimo, avendo preso sotto le sue ali protettive anche la Fiat alla cui guida aveva messo Cesare Romiti. Legata all’impresa c’è anche la sorte della Rizzoli-Corriere della Sera, le cui azioni erano custodite nel Banco Ambrosiano. Bazoli invita Gianni Agnelli a tornare nel giornale, Cuccia sconsiglia, inutilmente, l’operazione, ingoia la sconfitta e prepara la controffensiva. La vendetta si serve fredda e il momento arriva nel 1989.
    Bazoli vuole assorbire la Cattolica del Veneto rompendo così l’equilibrio che aveva tenuto insieme i principali azionisti nel Nuovo Banco Ambrosiano: Gemina, creatura di Cuccia, guidata da Romiti, la Banca popolare di Milano presieduta da Piero Schlesinger, il San Paolo di Brescia che faceva capo a Bazoli. Schlesinger, in difficoltà, mette in vendita la sua quota. Si fa avanti Cuccia il quale, usando Gemina, la Banca Commerciale e le Assicurazioni Generali, progetta di creare un grande conglomerato finanziario nel quale far finire anche l’Ambrosiano. Bazoli vola a Roma, va da Ciampi, da Giulio Andreotti e da Bettino Craxi protestando contro lo strapotere di Mediobanca. Tutti comprendono, nessuno è in grado di aiutarlo. A quel punto spunta oltralpe un cavaliere bianco, il Crédit Agricole, potentissima banca mutualistica scaturita dal ricco mondo della campagna francese. Chi fa da maestro di cerimonie è proprio Zaleski. Sul momento esatto del fatal incontro c’è nebbia fitta. L’interpretazione più probabile è che sia avvenuto quando Zaleski entra a Brescia dove Bazoli è dominus. Da quel momento in poi, i loro destini si sono incrociati come sentieri calviniani fino a oggi, quando il cerchio si chiude.

    Intesa Sanpaolo ha presentato il proprio bilancio per il primo semestre 2013 con un crollo del risultato netto: dagli 1,27 miliardi dello stesso periodo dell’anno scorso ai 422 milioni registrati al 30 giugno. Mancano all’appello oltre 800 milioni dovuti a maggiori accantonamenti su crediti dubbi, pare proprio riconducibili a un unico cliente: quel Romain Zaleski che ha beneficiato di credito praticamente illimitato dalle principali banche italiane, Intesa Sanpaolo in testa a tutte. Negli anni d’oro i crediti incagliati ammontavano a sette miliardi, ma ancor oggi la cifra è impressionante: a parte Intesa, Unicredit è esposta per oltre 500 milioni, Mps e Ubi per quasi 400 milioni complessivi. In totale, s’arriva a due miliardi di euro, garantiti da un portafoglio di titoli che, agli attuali prezzi di mercato, non vale più di un miliardo. La perdita per le banche è praticamente certa e le svalutazioni alla fine appaiono nei bilanci (è dal 2008 che le linee di credito erano di fatto “congelate”).

    Cinque anni fa Zaleski era un vero re dei salotti, azionista importante, oltre che di Intesa, anche di Ubi, Montepaschi, Mediobanca, A2A e Assicurazioni Generali. Protagonista della vita intellettuale milanese, con gli Amici della Scala, ed europea. A San Pietroburgo la famiglia possiede una casa lungo la Neva dove viene spesso ospitata la nomenclatura internazionale. Ad Amsterdam c’è una fondazione Zygmunt Zaleski guidata da Marie-Christine, figlia di Romain. Quando la crisi ha fatto sentire i suoi primi effetti, due banche straniere, la Royal Bank of Scotland e Bnp Paribas, si sono affrettate a battere cassa facendosi ridare i loro 1,6 miliardi di esposizione complessiva e se la sono data a gambe. Le banche italiane, invece, timorose di toccare una matassa eccellente dai fili sottili e delicati, si sono tenute il buco del giocatore di bridge che, a suo dire, “non sa nulla di finanza”. Bazoli ha inviato Pietro Modiano, già direttore generale di Intesa, a sistemare la Carlo Tassara, holding italiana di Zaleski. La cura ha ridotto i debiti a 2,4 miliardi, ma nel frattempo le azioni in portafoglio sono crollate e oggi valgono appena un miliardo. La vecchia società bresciana non ha ancora fatto il bilancio 2012. All’ennesima richiesta di proroga, il numero uno di Unicredit, Federico Ghizzoni, ha inviato una lettera per pretendere il rientro. Davvero un destino per molti versi parallelo a quello di Ligresti.

    Ma come si è arrivati a questo punto? Torniamo al cavaliere bianco, quando Bazoli usa Zaleski per giocare la carta francese e salvare il “suo” Ambrosiano da Cuccia. Allora, per la prima volta il finanziere esce dall’ombra. Era sceso nella Leonessa d’Italia quasi per caso nel 1983, perché la compagnia per la quale lavorava, la Comilog (miniere di manganese nel Gabon) gli aveva chiesto di recuperare il pagamento di forniture alla Carlo Tassara, azienda siderurgica della Valcamonica con un migliaio di dipendenti. Zaleski prende in mano l’azienda, la risana, ne acquista il 25 per cento dalla famiglia Tassara con l’acqua alla gola e convince la Comilog a prendere il resto. Poi comincia una serie di offensive finanziarie nella Falck che era in mano a Mediobanca e nella Compart-Montedison, irritando Cuccia. Compra, vende e si riempie le tasche. Di qua e di là dalle Alpi. Lo stesso fa in Francia con il gigante siderurgico Arcelor. A questo punto i giornali si chiedono chi è il raider venuto dal nord e scoprono un personaggio per molti aspetti sorprendente.

    Zygmunt che dà il nome alla fondazione olandese, è il padre morto nel 1967 a 85 anni, letterato polacco di origini nobili, esule in Francia, dove insegna all’Istituto di lingue orientali della Sorbona e si dice abbia fatto i soldi in Borsa speculando con le miniere. Romain nasce a Parigi nel 1933 e sembra avviato lungo il cursus honorum dell’élite transalpina. Ma la patria chiama e nessun polacco può tapparsi le orecchie. Zygmunt Zaleski Lubicz, che si fa chiamare anche Debron, decide di tornare a Varsavia, nonostante i minacciosi venti di guerra. E’ il 1939, Hitler invade la Polonia. Gli Zaleski sostengono la resistenza e vengono arrestati. E’ un momento terribile, segnato persino da un passaggio nell’inferno di Buchenwald. Quando l’Armata rossa si sostituisce all’occupante nazista, la famiglia riesce a tornare in Francia. Nel Dopoguerra Romain riprende gli studi, si laurea all’Ecole des mines, una delle scuole dove si forgia la classe dirigente, fa il militare in Algeria dove incontra il giovane Jacques Chirac, sposa un’aristocratica polacca, Hélène de Prittwitz, e poi si lancia in quel territorio a cavallo tra politica e affari che è il tessuto connettivo del sistema francese. Entra al ministero dell’Industria e si avvicina all’Udf, la formazione politica centrista di Valéry Giscard d’Estaing che diventa presidente della Repubblica nel 1974. Il brillante amministratore che ha aiutato a gestire le finanze del partito si butta nell’industria, prima alla Revillon e poi alla Comilog, senza spezzare mai i suoi legami, nella migliore tradizione francese. Intanto, il vento cambia: nel 1981 vince l’Union de la gauche guidata da François Mitterrand, Zaleski lascia la politica e di lì a poco anche il suo paese per tuffarsi interamente in altre avventure, tutte italiane.

    Un personaggio così a Brescia non può non farsi notare, ma senza dubbio non fa parte del sistema Bazoli, come lo chiama Giancarlo Galli. La sua famiglia è cattolica, ma niente a che vedere con quella del professore. Soprattutto, lo stile non può essere più diverso. Eppure, lo ieratico avvocato per il quale la lentezza è un valore e ama parlare di etica o di teologia, quando le cose si mettono male, in quel 1989 capisce che la morale machiavellica di Brecht può essergli molto utile. Per fare il bene ci vuole qualcuno che tenga a bada i malvagi. Il cugino cattivo.
    Zaleski sfugge ai media, vive a Milano in una villetta non appariscente, e proclama senza peli sulla lingua che lui ammira Bazoli, ma non sta dalla sua stessa parte politica. “Sono un uomo di destra”, confessa. “Da giovane mi piaceva il generale De Gaulle, oggi apprezzo Nicolas Sarkozy. In Italia l’unico politico che conosco e stimo è Giulio Tremonti”. Altro che alter ego del professore, più che mai Shui Ta. Tanto che tutte le operazioni da raider nelle quali si lancia, sembrano fatte a posta per mettere in difficoltà Mediobanca. A cominciare dalla scalata alla Falck: spende oltre 200 miliardi di lire in due anni e nel 1998 ha il 35 per cento del gruppo siderurgico. Intanto, stringe i suoi legami bresciani proprio mentre l’Ambroveneto guidato da Bazoli sta per fondersi con la Cariplo che Cuccia vorrebbe portare (anch’essa) sotto la sua bandiera. Zaleski diventa il primo azionista di una finanziaria, la Mittel, presieduta da Bazoli, che possedeva pacchetti importanti, anche in Rcs. Bloccato in Falck, nell’ottobre del 2000 cede la sua quota a Compart, la società energetica della Montedison. “E’ uscito di scena”, scrivono i giornali. Ma una settimana dopo spunta di nuovo: ha in mano il 6 per cento di Compart, con gran dispetto di Mediobanca. Che cosa vuol fare? Lo si capisce di lì a poco, nella primavera successiva, quando comincia a rastrellare le azioni Edison (la società energetica scaturita dalla vecchia Montedison) insieme a Edf, l’ente elettrico dello stato francese. Accanto a loro scende in campo la Fiat guidata da Paolo Fresco che si è scrollata di dosso la dipendenza dalla Mediobanca dell’èra Cuccia.

    Undici anni dopo, il 24 maggio 2012, mentre al ministero dell’Industria c’è Corrado Passera, già amministratore delegato di Banca Intesa, Edf prende l’intero controllo di Edison. Zaleski prova a protestare, ma cede. Non ha più le forze. Ormai tutto è cambiato. Nel 2007 era ancora tra gli uomini più ricchi del mondo. Oggi si batte per salvare le sue fortune in Italia e altrove, come in Polonia dove possiede una banca. La figlia Hélène, 44 anni, occhi azzurri capelli biondi a caschetto, ha rafforzato la presa su Argepa, la cassaforte di famiglia, che controlla il 40 per cento circa della Carlo Tassara. Ha pagato da sola tutto l’aumento di capitale da 42,3 milioni (12,3 di nominale e 30 di sovrapprezzo), salendo dal 22 per cento al 28 per cento. I fratelli Wladimir e Konstantin si sono diluiti dal 22 per cento al 20,3 per cento a testa (di cui il 13,2 per cento è in usufrutto a Romain Zaleski e alla moglie Hélène de Prittwitz). Ma i rapporti in famiglia sono buoni, e tutti concordano che sia la primogenita, adesso, a sostituire in qualche modo l’anziano genitore. Ha lavorato a lungo in Assurances générales de France (Agf), dice che il suo “apporto è valutare se gli investimenti sono interessanti”. Vive in Belgio ma viaggia come una trottola, dividendosi tra il Lussemburgo, la Polonia, dove va due o tre volte al mese, e l’Italia, dove ha messo piede solo nel ’95.

    La crisi, dunque, è passata come la scopa manzoniana. Bazoli che proprio nel 2007 aveva raggiunto l’apice della sua lunga carriera fondendo Intesa con il Sanpaolo di Torino e conquistando una posizione egemone rispetto ai piemontesi, ha cominciato a perdere colpi. Lo si è visto ultimamente nello scontro tra gli azionisti di Rcs sull’aumento di capitale. Da sempre lord protettore del Corriere che aveva salvato nel 1984, questa volta non può che assistere alla presa di potere da parte di John Elkann, i suoi tentativi di mediare con il gran nemico Diego Della Valle, falliscono. Intanto, anche in politica Bazoli ha perso smalto: non basta a sbarrare la strada a Roberto Maroni in Lombardia il suo sostegno a Umberto Ambrosoli, il figlio dell’avvocato Giorgio fatto assassinare da Michele Sindona, quell’eroe borghese che proprio Cuccia mancò di salvare.

    Il vecchio capitalismo delle relazioni eccellenti dove tutti si conoscono e si fanno le scarpe, vive tempi bui. Nessuno ha preso il posto del patron di Mediobanca, nonostante in molti ci abbiano provato; e tra questi Bazoli. Gli intrecci si stanno sciogliendo, anche se non si capisce in quale direzione. E pure per Zaleski arriva la resa dei conti. La sua finanziaria custodisce pacchetti azionari dal nome altisonante, ma sono piccoli e non hanno più un ruolo strategico. Unicredit vuole rientrare al più presto dalla sua esposizione, Intesa è disposta ad aspettare, ma non troppo a lungo. Nella banca, del resto, Bazoli presiede il consiglio di sorveglianza, mentre le redini sono in mano a Enrico Cucchiani, un manager che non scherza, ha studiato in America e ha gestito per anni gli affari del colosso assicurativo tedesco Allianz nell’Europa del sud. Le generazioni passano. L’età si fa sentire. I trentenni e i quarantenni di oggi sono lontani ben più di mezzo secolo per cultura, per modi, per Weltanschauung. Forse oggi non c’è più bisogno del cugino cattivo, oggi Shen Te e Shui Ta sono una persona sola.