Intellò, ridicoli e stronzi

Alfonso Berardinelli

Chi come me ha cominciato, da liceale, a discutere con gli amici di Sartre e Camus (“Sartre o Camus?”) non resiste a una copertina come l’ultima di MicroMega con le immagini dei due filosofi-scrittori e con il titolo: “L’intellettuale e l’impegno”. Da un po’ di tempo non riesco a pensare niente su questo tema. Non so bene che cos’è un intellettuale (quello che so mi piace poco) e quanto all’impegno mi chiedo subito “quale impegno, come, perché, con chi ecc.”. Gli intellettuali oggi sono massa più che élite, sono un ceto, una corporazione, una serie di corporazioni, più che degli individui.

    Chi come me ha cominciato, da liceale, a discutere con gli amici di Sartre e Camus (“Sartre o Camus?”) non resiste a una copertina come l’ultima di MicroMega con le immagini dei due filosofi-scrittori e con il titolo: “L’intellettuale e l’impegno”. Da un po’ di tempo non riesco a pensare niente su questo tema. Non so bene che cos’è un intellettuale (quello che so mi piace poco) e quanto all’impegno mi chiedo subito “quale impegno, come, perché, con chi ecc.”.
    Gli intellettuali oggi sono massa più che élite, sono un ceto, una corporazione, una serie di corporazioni, più che degli individui. Si schierano dalla parte giusta, sbandierano valori, ma soprattutto si schierano, fanno schiera lungo steccati precostituiti: destra e sinistra politica. Se per caso uno di loro si allontana dalla schiera e dallo steccato e fa di testa sua non esiste più per gli engagés, viene trattato come un reprobo e ci si impegna a diffidare di lui.

    Apro MicroMega e guardo l’indice. Ho davanti a me l’elenco degli abituali collaboratori della rivista, con qualche assenza (Angelo Bolaffi, Massimo Cacciari…). Pensavo di informarmi, di approfondire, o almeno di rinfrescare anche nostalgicamente (perché no?) le mie passioni problematiche, e mi trovo davanti che cosa? Gli scritti di Andrea Camilleri (autore noioso e vanitoso), Dario Fo (un premio Nobel più autore di smorfie che di opere), Furio Colombo (lo associo ancora, non so perché, a Gianni Agnelli e al Gruppo 63, cose che mi respingono), Carlo Freccero (un televisivo creativo?), Ascanio Celestini (attore penoso che piace a tutti), Moni Ovadia (idem).
    Il solo testo seriamente impegnato e interessante è un ampio saggio di Stuart Hall in cui si racconta la nascita a Oxford della New Left, che “non divenne mai culturalmente né politicamente omogenea” e in cui le divergenze venivano quasi sempre “gestite in maniera umana e generosa” (bella formula). I dieci anni prima del ’68 furono in effetti piuttosto straordinari: meno militanza di massa e un po’ più di studio e di onestà intellettuale.

    Dell’intervento di Gianni Vattimo è difficile dire. Vattimo non l’ho mai capito. Fa il democratico, ma i suoi autori di sempre sono Nietzsche e Heidegger, senza dubbio non due campioni di pensiero democratico né di sensibile comprensione per i più deboli. In questo suo intervento, incontro poi una trovata inaccettabile, che ha già avuto fortuna presso altri pensatori (è piaciuta a Calasso, Agamben, Cacciari) ma che secondo me è un abuso: per concludere sul problema degli intellettuali e dell’impegno Vattimo inventa un’alleanza fra Martin Heidegger e Walter Benjamin, quando è noto che il secondo detestava il primo per ragioni molto precise, sia politiche sia filosofiche. Scrive Vattimo: “Io non vedo altra via che non sia quella di mettere insieme Heidegger e Benjamin: l’intellettuale non funzionale all’esistente è quello che sa ascoltare il silenzio dell’essere” (sic!).
    Professor Vattimo, ora mi dica per cortesia che cos’è l’essere e come mai tace, se tace. Risposta di Vattimo: “Il silenzio dell’essere a cui pensa Heidegger non è altro (anche per lui, non ha mai voluto essere un puro mistico) che il silenzio di chi è stato silenziato nella storia, il silenzio dei vinti, dei senza potere”.

    Professor Vattimo, obietto: (1) da due secoli i vinti si fanno sentire, come testimoniano le sommosse, le rivoluzioni e la storia del movimento operaio; (2) Heidegger in realtà non è mai riuscito a essere un mistico, ma ha recitato da mistico, ha capito che l’Essere in filosofia è veramente “una gallina dalle uova d’oro”, frutta bene, frutta molto, produce un’infinità di rumori e di parole; (3) ma dov’è finito Benjamin? Credo che abbia voltato le spalle e se ne sia andato: stringere la mano a Martin, l’orco della Selva Nera, è certo che gli ripugna.
    Naturalmente il pezzo forte del numero, per chiarezza e persuasione è l’editoriale di Paolo Flores d’Arcais. Lo leggo con molta attenzione e mi sembra di condividere tutto. Poi mi alzo, esco a fare un po’ di spesa, torno a casa e sento invece che qualcosa non mi convince. Forse il tono: troppo vibrato e combattivo, come se nella vita di un intellettuale non ci fosse altro che lotta e impegno, non evasione, nessuna svogliatezza né perplessità. Come se ci fossero solo valori e princìpi e non avversioni, preferenze, idiosincrasie, antipatie culturali e umane.

    Paolo Flores ama molto Camus, come me. Ma nel suo Camus e nella sua famosa formula “solitarie-solidaire” mi sembra che la solitudine sia sottovalutata come una premessa da scavalcare. L’idea, secondo me, è invece che la solitudine, se è reale, fa capire non dico più cose, ma qualcosa di più e di diverso: e cioè che la società non è tutto. Paolo Flores dice che l’intellettuale non deve mettersi al sicuro fiancheggiando un partito. Ma non esiste solo il partito come organizzazione, c’è anche il partito che si ha nella testa. Una rivista, un giornale, un movimento possono essere un partito che non ammette diversità di giudizio, o fa finta che diversità non ce ne siano.
    L’impegno politico può prendere varie vie: la via della critica culturale e delle élite di destra e di sinistra, la critica della cultura di massa e della cultura politica, la critica delle mode e delle idee dominanti. Mi sembra che queste cose Paolo Flores le sottovaluti. Crea squadre, schiera scrittori e artisti. In nome della lotta a Berlusconi ha ingaggiato da vari anni scrittori, artisti e filosofi che una volta non avrebbe giudicato benevolmente. Li ha ingaggiati purché dichiarassero, mettendosi al sicuro: “Io odio Berlusconi”. Tutto qui? Ma Berlusconi vince perché la sinistra perde. Non è lapalissiano?
    Paolo Flores ce l’ha con la chiesa e la teologia. Ma non vede che tra i filosofi suoi amici c’è molta cattiva teologia e metafisica?

    La democrazia è una bella cosa. Credo che sia l’ultima vera utopia. Ma la democrazia culturale ha riempito l’ambiente di prodotti di quart’ordine, ha lavorato a diffondere consumi culturali quotidiani che minano e tendono a vanificare la cosiddetta libertà di pensiero e di coscienza dei cittadini. E poi: quali scontri filosofici e culturali si sono visti fra intellettuali schierati a sinistra? Si discute, ci si scontra su Repubblica o anche su MicroMega? Non mi pare.
    L’intellettuale che si ribella lo fa per ragioni sue e lo fa anche se è solo. Ma se lo fa da solo può succedere che sia accusato, come è avvenuto con Orwell e Camus, di essere un individualista irresponsabile e di essere di destra. Paolo Flores delinea un modello di intellettuale impegnato, ma un modello non c’è, o è meglio evitarlo. Eccezionali critici della società moderna, borghese e mercantile, o delle dittature, sono stati cristiani, liberali, individualisti, conservatori, scrittori e poeti del tutto antipolitici. E’ un impegno anche non avere nessuno interesse a quello che i ricchi e i potenti possono regalarti e mostrare, in privato e in pubblico, questo disinteresse.

    La democrazia per funzionare deve essere fatta di pluralismi e di varietà di comportamenti. Io parteggio per l’intellettuale singolo e singolare. Non mi piacciono i gruppi. Le logiche del branco si formano anche tra i più intelligenti e succede che anche gli intelligenti patiscano di una loro ottusità. Per citare un epigramma di Pasolini: “Niente è più ridicolo dell’impegno di uno stronzo”.
    Il modello del ’68 non era, come vuole Flores, mettere il proprio privilegio acquisito di intellettuale al servizio della buona causa: era invece agire dentro i luoghi di lavoro e nell’esercizio delle professioni mettendo i valori dichiarati contro la prassi convezionale: nella ricerca scientifica, nella medicina, nell’insegnamento religioso, nella scuola e nell’università, e perfino nell’esercito e nella polizia. Fare bene il proprio lavoro non è un ripiego, come dice Flores. Farlo bene significa farlo secondo l’etica che quel lavoro prevede e anche contro le condizioni sociali, istituzionali in cui lo si fa.