
Spiamoci tutti
Sono giorni di protesta per i camerieri d’America. Da mesi gli Stati Uniti sono punteggiati da proteste e scioperi saltuari dei lavoratori dei fast food e delle tavole calde, che chiedono al governo di alzare il “minimum wage”, lo stipendio minimo, dai 7 dollari e 25 attuali ad almeno 15. Le proteste, cicliche nel corso dei decenni, nascono da una vecchia questione: i camerieri sono pagati da fame. Certo, ci sono le mance, che in America sono una religione di meritocrazia e di soldi guadagnati con il lavoro duro di chi fa più di quanto richiesto (“Non credi nelle mance?”, chiede Eddie a Mr. Pink nelle “Iene” di Quentin Tarantino, prima di far partire un dialogo epico sul fatto che le mance sono la base del sogno americano), ma specie in tempo di crisi basarsi sulla generosità dei clienti – che spesso fanno lavori non meglio pagati – è rischioso.
di Eugenio Cau
Sono giorni di protesta per i camerieri d’America. Da mesi gli Stati Uniti sono punteggiati da proteste e scioperi saltuari dei lavoratori dei fast food e delle tavole calde, che chiedono al governo di alzare il “minimum wage”, lo stipendio minimo, dai 7 dollari e 25 attuali ad almeno 15. Le proteste, cicliche nel corso dei decenni, nascono da una vecchia questione: i camerieri sono pagati da fame. Certo, ci sono le mance, che in America sono una religione di meritocrazia e di soldi guadagnati con il lavoro duro di chi fa più di quanto richiesto (“Non credi nelle mance?”, chiede Eddie a Mr. Pink nelle “Iene” di Quentin Tarantino, prima di far partire un dialogo epico sul fatto che le mance sono la base del sogno americano), ma specie in tempo di crisi basarsi sulla generosità dei clienti – che spesso fanno lavori non meglio pagati – è rischioso. Nascono così infiniti trucchetti per raggranellare qualche spicciolo. A volte il barista non ha il resto, e forza il cliente a lasciare qualcosa di più, oppure il cameriere ignora deliberatamente un tavolo per costringere i commensali esasperati a promettere una mancia più alta. Il fenomeno è così comune che sui trucchi sporchi del cattivo barista nel 2004 è stato scritto anche un libro (“Il cameriere truffaldino e la Bibbia dei raggiri del barista, scritta da due camerieri di Bourbon Street”).
A volte però le mance non bastano, e il cameriere mal pagato si trova a infilare una mano nel registratore di cassa per rubacchiare un dollaro, o a fare una cresticina al conto. Sono quasi sempre piccole o piccolissime cifre, sufficienti appena per arraffare qualche dollaro al giorno senza paura di essere scoperti. Nell’ambiente i furti dei camerieri sono così comuni da essere considerati parte del business. Secondo il New York Times, l’intera economia americana perde ogni anno 200 miliardi di dollari per i furti e le truffe dei dipendenti, e i ristoranti si vedono rosicchiare l’uno per cento del loro profitto, che è molto in un ambiente dove il guadagno medio non è mai superiore al 5 per cento dei ricavi.
Secondo tre ricercatori americani (Lamar Pierce della Washington University, Daniel Snow della Brigham Young University e Andrew McAfee del Mit: su di loro ha scritto Steve Lohr del New York Times) i furtarelli nei ristoranti non devono essere considerati un elemento strutturale del business. Possono essere prevenuti, e c’è il modo di trasformare i dipendenti infedeli in camerieri solerti capaci di far balzare in alto i guadagni: basta adottare un adeguato sistema di sorveglianza. I tre ricercatori hanno installato dei programmi di sorveglianza nei registratori di cassa di quasi 400 ristoranti e tavole calde in giro per l’America. Se i conti non tornano, se il valore delle ordinazioni è superiore a quanto c’è in cassa e gli ammanchi possono essere attribuiti a un cameriere specifico, il programma avverte il proprietario dell’attività. In pochi mesi la sorveglianza ha funzionato e i furti sono finiti, ma il risultato per i ristoranti è stato deludente: poco più di 100 dollari a settimana di aumento del ricavo, una miseria. Ma i ricercatori (e i ristoratori, immaginiamo) sono rimasti sorpresi da un altro dato. Dopo aver installato i programmi di monitoraggio, i ricavi dei ristoranti sono saliti del 7 per cento, quasi 3.000 dollari aggiuntivi di guadagno a settimana. Quello che è successo è che i camerieri, consapevoli di essere tenuti sotto costante controllo e che tutte le transazioni monetarie erano misurate, non solo hanno smesso di rubare dalla cassa ma, perso il piccolo introito dei furtarelli, hanno iniziato a lavorare più duramente per rimpiazzarlo, offrendo al cliente quel dessert su cui prima non avrebbero insistito o consigliando ai commensali di prendere una birra grande al posto di una media. Decenni di ricerca psicologica su come scegliere l’impiegato giusto, l’intuito di generazioni di osti capaci di capire al volo chi assumere sono stati spazzati via da un piccolo programma di sorveglianza, che grazie alla sola forza di deterrenza trasforma l’impiegato da licenziare in un valore aggiunto capace di far crescere l’azienda. Per chi si occupa di risorse del personale è una piccola rivoluzione – e il fallimento di decenni di attenta preparazione dei colloqui di lavoro. Per tutti gli altri un esempio forse inquietante di come la tecnologia della sorveglianza (una tecnologia facile, alla portata dell’oste della periferia americana) sia stata in grado di cambiare radicalmente e in poco tempo il comportamento di chi a essa era sottoposto.
Nel 1791, quando Jeremy Bentham ideò il Panopticon, il grandioso e distopico progetto di architettura carceraria in cui un solo guardiano riesce a tenere sotto sorveglianza tutti i carcerati della prigione senza che essi nemmeno si rendano conto di essere osservati, non avrebbe mai immaginato che più di duecento anni dopo si sarebbe realizzato senza bisogno di muri e sbarre. Allora dietro alla concezione del Panopticon stava l’idea di poter redimere il criminale, di poter cambiare la sua indole grazie alla pressione costante di un apparato di sorveglianza tanto grande quanto invisibile. Negli ultimi mesi si è parlato spesso del Panopticon, da quando i dati trafugati dal leaker Edward Snowden hanno rivelato i programmi di ispezione globale della privacy della Nsa, l’agenzia per la sicurezza americana. Qualsiasi idea si abbia delle iniziative antiterrorismo dell’Amministrazione statunitense, dall’inizio di giugno sappiamo che se abbiamo mandato una e-mail a un amico a New York, questa probabilmente sarà stata scansionata dai computer della Nsa, e che chiusi nell’enorme quartier generale dell’agenzia centinaia di funzionari potrebbero scrivere il nostro nome sulla tastiera e vedere scorrere sul loro schermo tutte le nostre comunicazioni.
David Rieff su Foreign Policy, e molti altri con lui, si sono stupiti di quanto poco la scoperta di essere sotto una sorveglianza potenzialmente onnicomprensiva abbia impensierito gli americani. Questo ha a che vedere con le utopie tecnologiche di cui la retorica di Internet ci ha imbevuto negli ultimi due decenni. Sono stati pochi, nel corso della cavalcata del mondo occidentale verso una sempre maggiore interconnessione, ad avvertire la possibilità che la comunicazione infinita, la capacità inebriante di poter raggiungere chiunque e in qualunque momento, avrebbe potuto rovesciarsi nel suo contrario, in una comunicazione infinitamente controllata. Ma soprattutto, dice Rieff citando una canzone di Leonard Cohen, c’è l’impressione che la privacy, l’idea che una parte di quello che siamo e quello che facciamo debba rimanere sotto il nostro rigoroso controllo, sia diventata “uno scintillante artefatto di epoche passate”. La facilità con cui la tecnologia ha reso possibile la sua violazione ha fatto sì che, semplicemente, smettessimo di preoccuparcene. Non che scandali come quello della Nsa abbiano smesso di essere considerati un affronto alla libertà – nessuno è felice di essere spiabile. Ma oggi questi affronti sono così tanti che è diventato impossibile percepirli come una minaccia. Basta guardarsi nelle tasche. Il nostro cellulare oggi sa chi sono i nostri amici, quali sono i nostri appuntamenti, con chi parliamo più spesso, con chi ci scambiamo fotografie, quali sono i nostri acquisti. Se è abbastanza avanzato (ormai quasi tutti lo sono) conosce tutti i nostri spostamenti. Sa il numero della nostra carta di credito e tutte le password e i codici pin con cui accediamo ai servizi via Internet. Trent’anni fa un dispositivo capace di raccogliere tanti dati tutti insieme sarebbe stato fantascienza anche in un film di James Bond, oggi ne esistono miliardi nel mondo. E i dati sensibili di cui sono pieni siamo noi a concederli volontariamente, per il semplice motivo che è comodo farlo.
Siamo ubriachi di accessibilità completa, di interconnessione, di infinite possibilità di controllo – spesso anche involontario. La “screen culture”, la cultura dello schermo, mette davanti ai nostri occhi numerose matrici in cui le vite tanto di conoscenti quanto di perfetti sconosciuti ci scorrono davanti in continuazione, e diventa impossibile non raccoglierne almeno brandelli. Quelle foto di vacanze che non avremmo voluto vedere, quella conversazione tra colleghi da cui sarebbe stato meglio restare lontani, la minuziosa descrizione dell’ultimo pasto fatto da qualcuno che non vediamo da anni. Noi stessi contribuiamo a riempire la matrice di date, luoghi, eventi ogni volta che scriviamo, twittiamo, postiamo, fotografiamo, pinniamo (la Silicon Valley è capace di produrre una lista infinita di neologismi) qualcosa di noi. E’ un voyeurismo obbligato, e a doppio binario: chi osserva sa di poter essere osservato in qualunque momento, e ciò amplifica il piacere del controllo. E’ per questo che non possiamo fare a meno di leggere la conversazione amorosa resa pubblica da un vecchio compagno di scuola, e al tempo stesso di mostrare a milioni di potenziali guardoni le foto del nostro bambino che si sporca i vestiti con la pappa – sicuramente da grande ci ringrazierà. L’unica maniera per uscire dal regime voyeurista è la via eremitica, la completa disconnessione, l’uscita dal mondo (quello digitale, che è sempre più quello reale, perché esistere su Facebook e Twitter è esistere in tutta una serie di rapporti umani essenziali e non realizzabili altrimenti). Una via percorribile solo da pochi estremisti.
La cessione quasi completa della nostra privacy (o, meglio, una sua riformulazione in senso collettivo e condiviso) compie il salto di qualità quando l’accessibilità e l’interconnessione diventano metodi non più di controllo morboso ma di sorveglianza potenziale. I metodi di deterrenza usati con i camerieri americani possono essere estesi a tutti i settori, e la tecnologia che ci consente di farlo non solo esiste già, ma è in gran parte di facile accesso. Il mese scorso una startup di Palo Alto ci ha spiegato come trasformare il nostro iPad in un completo sistema di controllo dei dipendenti, presentando una app che consente, usando la telecamera del tablet, di tracciare i movimenti delle pupille di chi sta guardando lo schermo. Basta distrarre lo sguardo per pochi secondi per far scattare un allarme che ci costringe a tornare sul documento o sul programma di lavoro. Aumenterà la produttività, dice l’azienda che ha sviluppato la app (la Mindflash, che vende prodotti per la formazione e l’aggiornamento dei dipendenti), ma sembrano metodi di controllo del lavoro che si pensavano passati. Esiste già anche il telefono dotato di una modalità di ascolto continuo (è stato annunciato da Google il mese scorso). Anche quando è immobile sul tavolo, apparentemente inattivo, il nuovo telefono è in grado di captare le nostre comunicazioni e di rispondere alle domande che gli poniamo. L’ascolto continuo serve per conoscere il meteo, chiedere al telefono intelligente se sulla strada di ritorno dal lavoro ci sarà traffico, sapere il prossimo impegno sull’agenda. Un servizio comodo, un assistente e un segretario da tenere in tasca. Ma quanto sarà facile intercettare qualcuno che porta con sé un cellulare che non smette mai di ascoltare quello che si dice?
Holman Jenkins sul Wall Street Journal ci mette invece in guardia dalle macchine che si guidano da sole (arriveranno per il 2020, ha annunciato la casa giapponese Nissan alla fine dello scorso mese, e altri ci stanno lavorando): per coordinare la viabilità ed evitare gli incidenti, tutti i nostri dati di guida saranno inviati a computer centrali che li elaboreranno (e li registreranno e li conserveranno per future rilevazioni). Chi avrà accesso a quei computer avrà una mappa completa dei nostri spostamenti, saprà dove andiamo al lavoro, quali sono i nostri percorsi più frequenti. Poi ci sono le telecamere, che per ora si limitano a registrare passivamente, ma stanno imparando a capire chi passa sotto il loro obiettivo. Le tecnologie di riconoscimento facciale sono sempre più avanzate e ormai perfettamente efficienti, tanto che presto sarà possibile realizzare dei sistemi per tracciare (con nome, cognome e fotografia, magari confrontata con i profili pubblici sui social network) chiunque passi in una strada messa sotto controllo. Durante l’ultimo dibattito pre-elettorale tra i candidati democratici alla carica di sindaco di New York, sei su sette hanno sostenuto con forza l’idea che il numero di telecamere di sorveglianza in città dovrebbe essere moltiplicato. (L’unico a dirsi contrario è stato Anthony Weiner, pizzicato ripetutamente in uno scandalo di… fotografie pubblicate su Internet). Infine c’è la tecnologia “indossabile”, dagli occhiali che filmano tutto quello che vediamo agli orologi che tracciano (e condividono) i nostri dati biometrici agli spazzolini da denti che stabiliscono (e registrano) le nostre performance igieniche.
Tra l’abdicazione del concetto di privacy in favore del voyeurismo e il moltiplicarsi di device spioni o potenzialmente tali, il quadro sembrerebbe nero. Ma il mondo non sta avanzando verso una dittatura orwelliana della sorveglianza. E’ quello che, almeno finora, è avvenuto con lo scandalo del programma di spionaggio globale della National security agency. Le rivelazioni di Edward Snowden, decine di migliaia di documenti top secret, svelano il quadro potenziale di uno stato di sorveglianza. Miliardi di chiamate, e-mail e sms intercettati, milioni di gigabyte di dati stipati dentro i server della Nsa, la capacità di raggiungere chiunque in qualunque momento e di spiare dentro la sua vita cliccando su un pulsante. Le rivelazioni continuano a uscire (da ieri sappiamo che anche i dati criptati non erano al sicuro) e a esse si aggiungono investigazioni indipendenti come quella del New York Times del primo settembre, secondo cui anche la Dea, l’agenzia antidroga, conserva i dati di miliardi di conversazioni con la complicità delle grandi compagnie telefoniche. La materia è complicata e la Nsa si è mossa per anni sul confine sottile tra legalità e forzatura (di sbavature ce ne saranno state, e saranno trovate), ma finora nemmeno il Times, nemmeno Edward Snowden e i suoi computer ricolmi di segreti sono riusciti a trovare uno scandalo capace di dare il via a un’indagine ufficiale. I dati sono stati raccolti, le comunicazioni intercettate, le password violate, ma nessuno dentro la Nsa ha potuto approfittarne. Con una piccola eccezione. A fine agosto sui giornali è uscita la rivelazione (resa pubblica dalla stessa Nsa, Snowden ha deluso anche in questo) secondo cui alcuni dipendenti dell’agenzia avevano piegato la potente e distopica macchina di sorveglianza globale per scopi personali. Quali? Spiare le fidanzate.
di Eugenio Cau


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