Vieni a me, G20

Luigi De Biase

Vladimir Putin ha anticipato il G20 di San Pietroburgo con un’intervista all’Associated Press in cui dice che la Russia “non esclude” un intervento in Siria. A Mosca non si parla di una apertura verso il presidente americano, Barack Obama, che aspetta il voto del Congresso per stabilire i limiti dell’azione militare: il tono è più disteso, ma la posizione della Russia non cambia. “Dal nostro punto di vista è assurdo che le Forze armate siriane abbiano usato le armi chimiche contro i loro nemici – ha detto il capo del Cremlino – Se le prove esistono, allora devono essere portate al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

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    Vladimir Putin ha anticipato il G20 di San Pietroburgo con un’intervista all’Associated Press in cui dice che la Russia “non esclude” un intervento in Siria. A Mosca non si parla di una apertura verso il presidente americano, Barack Obama, che aspetta il voto del Congresso per stabilire i limiti dell’azione militare: il tono è più disteso, ma la posizione della Russia non cambia. “Dal nostro punto di vista è assurdo che le Forze armate siriane abbiano usato le armi chimiche contro i loro nemici – ha detto il capo del Cremlino – Se le prove esistono, allora devono essere portate al Consiglio di sicurezza dell’Onu. E devono essere convincenti, non si possono basare su voci o su informazioni raccolte da intercettazioni telefoniche”. Secondo Putin il dibattito sulla Siria somiglia a quello del 2003, l’anno dell’invasione in Iraq, e un’azione unilaterale avrebbe conseguenze disastrose (“è troppo presto per parlarne, ma anche noi abbiamo dei piani”, ha spiegato). Per rafforzare il punto, il governo russo ha spostato ieri altre due navi di fronte alla Siria, portando a sei il loro numero totale nella zona.

    L’intervista all’Ap non ha risolto una domanda fondamentale per i leader che saranno oggi al palazzo Kostantinovskij di Strelna, a venti chilometri da San Pietroburgo: che cosa vuole davvero Putin? La tesi più seguita nei corridoi della diplomazia dice che la Russia evita qualunque “cambiamento esterno” in grado di influenzare la sua “politica interna”. La crisi siriana rientra in questa casistica, e ci si chiede sino a che punto Putin si spingerà per la gloria dello status quo. Sinora il Cremlino non si è certo limitato al diritto di veto nei vertici dell’Onu, ma pochi credono che risponderebbe militarmente a un attacco contro la Siria. Ieri Putin ha cercato soprattutto di ripulire l’immagine del Cremlino prima del vertice: “Obama non è stato eletto dal popolo americano per fare un piacere a noi – ha detto – Lavoriamo, ogni tanto si discute, dopotutto siamo esseri umani. Ma gli interessi comuni offrono sempre buone basi per trovare una soluzione ai problemi”. Per qualche ora è sembrato che Putin non fosse troppo distante da molti leader europei o dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon – con la differenza che l’Onu non ha una flotta di navi militari dislocata nel Mediterraneo. Ma già nel pomeriggio il Cremlino ha precisato che le prerogative della Russia restano le stesse, e che il Congresso americano “discute di menzogne” e vuole “legittimare un attacco militare”.

    L’agenda del G20 prevedeva un dibattito sui temi dell’economia, la crisi siriana ha fatto scivolare il centro della discussione sul medio oriente. Putin e Obama siederanno uno di fronte all’altro, è probabile che si vedano in privato, ma le indiscrezioni della vigilia non lasciano troppo spazio all’ipotesi di un vero avvicinamento. Obama approfitterà del viaggio per parlare con i portavoce dei movimenti omosessuali russi: le due amministrazioni si sono scontrate più volte sui diritti umani, e la legge della Duma contro la “propaganda gay” può essere un nuovo capitolo in questa battaglia. Putin non pare troppo disturbato dalla mossa di Obama (nella conversazione con Ap ha fatto sapere che potrebbe seguire il presidente americano, “sempre che questi gruppi ritengano utile un confronto con me”), ma si tratta pur sempre di un dossier delicato.

    Il mantra del Cremlino sulla Siria è lo stesso da giorni: Putin vuole “elementi profondi e specifici” che tolgano ogni “ragionevole dubbio” sulle sostanze chimiche e sugli autori dell’attacco. In un certo senso questo problema riguarda Putin più degli altri leader del G20, dato che la Russia ha fornito nel tempo un grosso contributo all’arsenale che oggi si trova nelle mani del dittatore siriano, Bashar el Assad, e che è già stato usato – così dicono le fonti dell’intelligence americana – contro la popolazione civile alla periferia di Damasco. Già negli anni Ottanta, poco tempo prima che Gorbaciov desse inizio alla Perestroika, i servizi segreti di Washington avevano raccolto prove sufficienti a dimostrare che l’Unione sovietica forniva “agenti chimici e sistemi di lancio” agli Assad (il pacchetto comprendeva anche istruttori militari). Il traffico è proseguito negli anni Novanta, e un ex generale dell’Armata rossa di nome Anatoly Kuntsevich è finito sotto processo con l’accusa di avere venduto alla Siria oltre 800 chili di sostanze letali. Ma l’attenzione del Cremlino per l’arsenale proibito di Assad continua ancora oggi. Il 12 dicembre del 2012 il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha fatto sapere che l’esercito siriano stava concentrando le armi chimiche in “una o due location” e che il governo di Damasco “faceva di tutto” per garantire la sicurezza di quei siti. Lavrov ha chiuso l’intervento dicendo che la Russia avrebbe seguito “tutti i movimenti” dell’arsenale: allora alcuni hanno interpretato le parole del ministro come se gli ufficiali del Cremlino avessero già preso in consegna le armi chimiche, ma i fatti delle ultime settimane sollevano parecchi interrogativi su questa versione – e anche sul ruolo svolto dall’intelligence russa negli ultimi mesi.

    E poi c’è il caso S-300, il sistema di difesa basato su rampe mobili che la Siria cerca di acquistare proprio dalla Russia: forse non è sufficiente a fermare un attacco americano, ma sarebbe comunque un pensiero in più per gli strateghi di Washington. Sabato scorso il quotidiano Kommersant ha pubblicato un rapporto pieno di dettagli sugli scambi militari fra Mosca e Damasco. Nel pezzo era scritto che la Rosoboronexport (la società pubblica che ha il monopolio sull’esportazione delle armi) ha sospeso la fornitura degli S-300 e di 12 aerei Mig-29M, una scelta dovuta a questioni finanziarie. “Non consegneremo nulla sino a quando non vedremo i soldi”, ha detto ai reporter di Kommersant una fonte del gruppo. I missili e i caccia avrebbero dovuto raggiungere la Siria fra la fine del 2013 e la prima metà del 2014, ma pare che i russi abbiano ricevuto soltanto il 30 per cento della somma che si aspettavano. Putin ha chiarito la vicenda proprio ieri. Il capo del Cremlino ha detto che la Russia ha già consegnato “alcune componenti” del sistema di difesa, che la fornitura è sospesa “soltanto per il momento” e che potrebbe riprendere nel caso in cui gli equilibri cambiassero: “Se qualcuno violasse le norme internazionali, allora dovremmo pensare al modo in cui agire in futuro, in particolare per quanto riguarda la distribuzione di alcuni sistemi militari in certe regioni del mondo”. Per adesso i missili S-300 restano in Russia, ma l’ipotesi che possano finire all’esercito di Assad in tempi relativamente brevi non è affatto esclusa (il Cremlino ha seguito un approccio simile con l’Iran, un altro paese che corteggia il sistema missilistico e che si è visto sospendere la fornitura dopo le pressioni degli Stati Uniti e di Israele).

    Se il sostegno militare sembra fermo (almeno per il momento), quello economico e umanitario prosegue. Mosca dedica poco impegno ai rifugiati siriani che ricevono assistenza dall’Onu, ma continua a trasportare generi di prima necessità nei porti che sono ancora sotto il controllo dell’esercito di Assad (i notiziari russi danno conto di questa attività con grande frequenza). Si tratta della parte meno consistente nel capitolo aiuti: secondo l’agenzia Reuters, la Banca centrale siriana ha aperto conti in rubli e in euro presso Vtb, uno degli istituti di credito più importanti della Russia, posseduto al 75 per cento dallo stato. Un’altra banca, Veb, starebbe ancora offrendo assistenza finanziaria al regime di Damasco, mentre Gazprombank ha fatto sapere di avere interrotto ogni rapporto con la Siria. Questo canale permette ad Assad di aggirare le sanzioni imposte dalla Casa Bianca e dai paesi dell’Ue, e si tratta di banche che possono muoversi in piena libertà sul territorio europeo e negli Stati Uniti: la fine di Assad potrebbe partire da lì.

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