L'AgCom ha rotto il tabù del pluralismo che non c'è (ma tutto tace…)

Redazione

Come si comincia un articolo per far capire che c'è roba grossa? E come fare perché qualcuno raccolga da terra il mio sasso e lo tiri più lontano? Finora è prevalsa, dopo le mie ripetute denunce e i precisi rendiconti sul pluralismo in Rai, anche a destra e al centro, l'acquiescenza burocratica allo status quo. Cioè all'egemonia televisiva serena e accettata della sinistra di rito radical chic ma anche vetero-comunista. Stavolta il Re è proprio nudo. E a togliergli le braghette è stata sua maestà l'Autorità garante delle comunicazioni. Non mi ci raccapezzo con il giornalismo.

di Renato Brunetta

    Come si comincia un articolo per far capire che c’è roba grossa? E come fare perché qualcuno raccolga da terra il mio sasso e lo tiri più lontano? Finora è prevalsa, dopo le mie ripetute denunce e i precisi rendiconti sul pluralismo in Rai, anche a destra e al centro, l’acquiescenza burocratica allo status quo. Cioè all’egemonia televisiva serena e accettata della sinistra di rito radical chic ma anche vetero-comunista. Stavolta il Re è proprio nudo. E a togliergli le braghette è stata sua maestà l’Autorità garante delle comunicazioni. Non mi ci raccapezzo con il giornalismo. I fatti sono ormai di dominio pubblico da quasi un mese, sono fotografati sulla carta a disposizione di tutti sul sito apposito dell’AgCom. Eppure silenzio o minimizzazioni o compiacimenti spentisi subito.

    Finiamola con Mamma Rai
    In realtà il manto incantato di Mamma Rai è stato tolto. Nel suo punto di massima espressione politica e culturale, Rai3, essa è il braccio del Partito democratico e della sinistra in generale, senza se e senza ma. Se questa verità acclarata da un’Autorità indipendente non verrà soffocata dagli idranti del pensiero unico, siamo dinanzi a una rivoluzione nel maggior punto di irraggiamento della comunicazione e della cultura nel nostro paese. Quell’atto dell’AgCom è una crepa nella diga del conformismo. Uno spartiacque che conviene difendere dall’oblio e dagli eterni ritorni del partitone “de sinistra” della Rai. Mi quieto e mi spiego.
    Ho presentato finora, com’è noto ai lettori del Foglio, sette esposti al giudice competente (l’Autorità per la garanzia delle comunicazioni) su altrettante emissioni di Rai3. Sono arrivate a tutt’oggi quattro “delibere” (si chiamano così e si scusi se poi troverò sinonimi). Tre mi hanno dato ragione in pieno: “In mezz’ora” di Lucia Annunziata e “Che tempo che fa” di Fabio Fazio hanno violato il pluralismo in modo clamoroso. Il Tg3 di Bianca Berlinguer è invece rimandato a settembre: come ho raccontato ha avuto un richiamo formale a curare il proprio strabismo. La quarta promuove “Ballarò” di Giovanni Floris. Presenterò ricorso al Tar. Ma nel corpo delle motivazioni di quest’ultima sentenza, paradossalmente, si enuncia un criterio decisivo, e che ribalta completamente l’idea di pluralismo fatta propria dalla attuale dirigenza Rai, e che è il cuore delle tacitiane risposte alle mie interrogazioni parlamentari. Ecco il punto: la Rai non deve rispettare il pluralismo “in generale” (testuale nella risposta alle interrogazioni). Il pluralismo non è una somma di parzialità delle varie reti. E neppure è conseguito all’interno di una rete come somma delle trasmissioni. No! Ogni programma dev’essere pluralista! La democrazia è la cifra di ogni istante di qualsiasi programma. Scrive l’AgCom nella sentenza su “Ballarò”: “… il rispetto dei principi in materia di informazione postula l’esigenza di assicurare, fatta salva l’autonomia editoriale di ciascuna emittente e il diritto-dovere di cronaca, l’equilibrio delle presenze e la parità di trattamento tra i diversi soggetti politici nell’ambito del ciclo di ciascun programma di approfondimento informativo al fine di garantire l’equa rappresentazione di tutte le opinioni politiche”. Sottolineo e ricito: “Ciascun programma”! Non ci possono essere pozzanghere avvelenate che si sciolgono innocuamente nel vasto mare. Vuol dire che Fazio deve smettere di fare una trasmissione “progressista” come si vanta di essere? No. Lui è quello che vuole essere. Ma il pluralismo è come l’articolo 3 della Costituzione. Il principio di uguaglianza vale dovunque. Non è che si fa la media come tra i polli di Trilussa. Occorre la buona fede, ovvio. Si può essere se stessi senza truccare le bilance. Queste delibere e i loro contenuti sono, per chi non volesse capirlo, un segnavia rivoluzionario. Non hanno inventato nuove leggi. C’erano anche prima. Ma giacevano seppellite come gride manzoniane.

    Meglio Kierkegaard di Hegel
    Chi scrive è molto orgoglioso (fa parte del mio personaggio, non è vero?) di averle determinate. Ma lo scopo non è come qualche interlocutore poco avveduto vuol far credere (vedi il direttore di Rai3) di mettere in riga una rete. E neppure di dare una drizzata alla Rai. Perché avere ambizioni così basse (autoironia)? In gioco c’è il rapporto tra democrazia e comunicazione, tra sovranità popolare, ma anche libertà dell’individuo, e potere che ha il suo braccio armato opaco nel sistema massmediatico, oggi ancora più invasivo tramite Internet che non è affatto il luogo della democrazia anarchica, ma quello di uno scontro di immensi interessi che trascendono i singoli paesi. La delicatezza del sistema che incrocia (talvolta con violenza) le coscienze è tale da esigere che almeno alcuni suoi snodi siano un presidio sicuro di democrazia e di pluralismo, avendo per soggetto intrascendibile il singolo (come voleva Kierkegaard contro Hegel).
    Il pluralismo. Mi rendo conto. La tivù è un elettrodomestico, come diceva Eduardo De Filippo, e non si può morire per un apparecchio a valvole, figuriamoci. Ma diffonde cose sottili e decisive. Il direttore della Rai Gubitosi ha sostenuto in Parlamento che roba simile non può essere pesata “con il bilancino”. Ha ragione. Peraltro non basta neanche una pesa per Tir a definire la questione. Non è l’“esprit de géométrie” che misura la portata dell’emissione. Occorre “esprit de finesse”, ma bisogna avercelo. Qui sta la difficoltà e insieme il paradosso del lavoro che ho provato a fare da quando sono componente della commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai. Constato che la legge e le determinazioni dell’AgCom affidano alla rete radiotelevisiva che sia vincolata dal contratto di “pubblico servizio” la realizzazione di un valore molto facile da capire: l’arcicitato pluralismo. La Rai deve rappresentare e insieme dar voce alle differenti visioni del mondo e della vita, della politica e della cultura le quali non sono astrazioni ma tutte le mattine prendono il caffè e vanno a lavorare o a scuola. I sociologi parlano di “mondovisioni”. Come si vede essere uno strumento così è un compito esaltante. Non è una galera fare la Rai. Si tratta di assicurare la libertà concreta di tutti. Con rispetto. Sfidando il mercato con questa autorevolezza che non per forza è noiosa. Per questo si paga il canone.

    Esprit de géométrie vs. esprit de finesse
    Il mio esame, condotto con mezzi modesti, ma sono quelli a disposizione di tutti, ha avuto (e avrà) per così dire due sezioni. La prima è quella di cercare e fissare dei numeri. Esprit de géométrie: chi, dove, quando, quante volte. Siccome il pluralismo si esprime in democrazia nei partiti, ho paragonato le quantità. Nelle varie trasmissioni c’è una rappresentazione proporzionata tra espressione televisiva e parlamentare? Questo vale per i politici: hanno tutti la targhetta, la conta è facile. Ma la gamma delle famiglie culturali religiose e politiche non si esaurisce lì. C’è la vasta legione di intellettuali, giornalisti, persino preti e imam che si caratterizzano per la più o meno palese adesione a uno schieramento, avendo magari proclamato per chi votano o aderendo a uno strumento di casa partitica. E con poco sforzo ho esercitato l’attribuzionismo. Che so? Landini, Sallusti, Ingroia, Saviano una qualche idea di dove collocarli politicamente viene.
    Poi esiste un’altra sezione del mio lavoro: l’individuazione della filosofia programmatica, della tecnica per cui, magari persino formalmente rispettando i tempi, si infila sulla testa di una persona seria la parrucca pel di carota, e quello è fregato in partenza. Il pluralismo va all’aria. Chiami il mostro di destra e a sinistra metti il tipo fine. Fai parlare lo spara baggianate e lo classifichi di qui, e l’Osservatorio di Pavia segna più uno, ma è come chiamare Bokassa a difendere la civiltà africana.
    Che cosa ha fatto l’AgCom? Ha stabilito l’importantissimo criterio di cui sopra, che mi impone la riverenza, poi non ritiene sia giusto catalogare giornalisti e intellettuali oltre che sindacalisti e magistrati. Inoltre evita di giudicare la philosophy, essendo cosa controvertibile. Intanto, spinta dagli esposti, ha cominciato a mostrare che il Re è nudo. Ma si deve procedere oltre. Olisticamente. Il pluralismo non è altro che la sintesi equilibrata di quantità e qualità. Mettiamola così allora. L’esprit de géométrie lo calcola l’authority, l’esprit de finesse lo valuta la gente. Diciamo più tecnicamente: gli abbonati, consumatori. Da qui la mia idea che dirò alla fine: affiancheremo all’authority di stato l’authority del buon senso dei telespettatori. A notare e pesare toni, clima, linguaggi, interruzioni sistematiche, colpi bassi, facce sprezzanti. Di programma, di conduttore, di ospiti trattati come oracoli e di altri collocati vicino alla toilette. Di satira complimentosa e di satira carogna, di filmati, di esperti da saloon, di giornalisti cui si dà il pulpito e altri cui si infila una carota in bocca. I filmati introdotti per fermare chi sta mettendo alle corde il beneamato padrino del conduttore. L’inquadratura assassina. Il pubblico usato come condizionamento di ospiti e telespettatori. Insomma i trucchi della faziosità d’alta qualità che offende il pluralismo più e peggio della partigianeria di quantità. Esempio minimo. L’Annunziata bontà sua chiama come ospite per la seconda volta (due volte addirittura come il suo amatissimo pm Armando Spataro, ovviamente qualificato dall’AgCom, in altre annate, come politicamente neutro) Angelino Alfano. E tanto per essere oggettiva e coerente col servizio pubblico dà dell’“impresentabile” a lui e al Pdl.  L’AgCom vede la quantità e non giudica la qualità? Pazienza. Brava lo stesso. L’argine è rotto. Siamo agli inizi di un’AgCom del pueblo.

    Maestri silenti
    Arriva una serie di sentenze apocalittiche e che succede? Mi si permetta qui di manifestare stupore con stile letterario idoneo (autoironia). Aldo Grasso, dove sono i tuoi fulmini incipriati per delimitare il parco dei critici autorizzati della tivù e della sua moralità? E tu Michele Serra, autore e teorico di Rai4, perché ti accontenti di goderne le prebende e nel momento del periglio non difendi la Casa Madre? Colpisce il silenzio dei Maestri. Un silenzio che somiglia alla tecnica dell’insabbiamento. Spargono il filtro della smemoratezza. Silenzio rotto appena da uno sciagurato strepito di Lucia Annunziata che invoca dalla Rai il proprio licenziamento, subito sopito dai suoi sodali per non farla riconoscere. Poi un delicato Twitter giunto direttamente dal pianeta di “Anima mia” in cui Fabio Fazio si abbaglia del suo stesso candore spiegando che “il dovere della tv è quello di raccontare la contemporaneità”. Ci sarebbe qualche volta il dovere non dico di rispettare la legge, che per un campione della legalità (degli altri) dovrebbe essere un must, ma di essere persino documentati su che cosa sia questa legalità quando essa riguarda l’ambito del servizio pubblico. E che non si ferma, come lui crede, alla par condicio del periodo elettorale, ma coincide con il rispetto della pluralità dei punti di vista che è tipica essa sì della nostra legalità contemporanea. La contemporaneità era rappresentata sulla Pravda dalla pagina delle lettere dove le rappresentanti sindacali delle mungitrici di renne e dei trattoristi impiccavano Pasternak e Sacharov.
    Tranquillo, Fazio. Le delibere dell’AgCom non prevedono campi di rieducazione del tipo cubano e neanche corsette alle Bermuda del tipo berlusconiano versione 1994. Basterebbe che a questi conduttori la Rai passasse un manualetto con le regole della contemporaneità pluralista. Peccato che tentino non solo di affogare i miei esposti ma di bastonare anche le delibere dell’autorità. Esempio preclaro: Andrea Vianello. Il quale vede nelle delibere un “pericoloso precedente”. E proclama: “Così si rischia di sovrapporre i programmi di informazione, che devono seguire la priorità e la gerarchia delle notizie, oltre alla propria autonomia editoriale (naturalmente nel rispetto dell’equilibrio del servizio pubblico), con i programmi di comunicazione politica, che sono tutt’altra cosa”. Insomma: non ci sta. Per lui, avanti così. L’equilibrio del servizio pubblico è qualcosa di insindacabile. Fa paura questa incapacità persino di leggere i numeri. Non ci sto io. Non ci sta l’AgCom. E spero non ci stia la dirigenza Rai.  Dove sta l’equilibrio del servizio pubblico e l’AgCom che mette in fila queste cifrette? Dalla delibera su “Che tempo che fa?”. Escluso periodo elettorale. Pd: 61,96 per cento del totale del tempo di parola fruito dai soli soggetti politici (e pari al 42,40 per cento del totale ove si consideri complessivamente il tempo di parola fruito dai soggetti politici ed istituzionali); Sel: 9,29 per cento del totale del tempo di parola fruito dai soli soggetti politici (e pari al 6,36 per cento del totale ove si consideri complessivamente il tempo di parola fruito dai soggetti politici ed istituzionali); Pdl: 5,17 per cento del totale del tempo di parola fruito dai soli soggetti politici (e pari al 3,54 per cento del totale ove si consideri complessivamente il tempo di parola fruito dai soggetti politici e istituzionali). “Tali squilibri, anche alla luce del lungo periodo di tempo in cui si è articolato il ciclo della trasmissione in esame (settembre 2012-maggio 2013), non possono trovare giustificazione nella tipologia del programma – rivolto a un target specifico di pubblico ‘tendenzialmente progressista’”.

    Pluralismo alla fonte
    Non ci sto. Non ci dovrebbe stare nessuno. In quelle tre “delibere” c’è molta realtà. Non scopro nulla. La comunicazione ha come interlocutore la coscienza delle persone, perciò si pone al centro stesso della vita comune, e dunque è strumento massimo della democrazia e/o del potere. La tivù di questi sistemi è il perno del sistema: essa crea i luoghi comuni del pensiero irriflesso e riflesso. Le propensioni sono generate per infusione del cervello nell’etere. L’unica possibilità di resistere all’inerzia è senz’altro la difesa naturale degli individui e delle famiglie attraverso la formazione e il confronto tra recettori più o meno organizzati. Ma anche alla sorgente è necessario che, per tale sconfinato potere, il pluralismo sia garantito alla fonte.
    A questo si riferiscono le ordinanze dell’AgCom. Essa vigila, deve vigilare, in modo che la concorrenza tra le idee sia rispettata e non si scivoli nel monopolio. Ciascun programma del servizio pubblico, che abbia finestre informative e di comunicazione politica, non può essere unilaterale. Ciascun conduttore abbia la sua idea e la sua linea editoriale, più o meno progressista, ma deve girare lo sguardo anche a osservare e dar voce a prospettive diverse da quelle cui lo spingerebbe il proprio convincimento ideologico e culturale.  Penso in particolare a Fazio, Serra e Annunziata. Ci sarebbe qualche volta il dovere non dico di rispettare la legge, che per un campione della legalità (degli altri) dovrebbe essere un must, ma di essere persino documentati su che cosa sia questa legalità quando essa riguarda l’ambito del servizio pubblico. E che non si ferma, come lui crede, alla par condicio del periodo elettorale, ma coincide con il rispetto della pluralità dei punti di vista che è tipica essa sì della nostra contemporaneità.

    Vive la liberté!
    Questa concezione non si limita a togliere qualsiasi legittimità alla pretesa di Rai3 (e di chi le consente di essere tale) di costituirsi in zona franca dove batte bandiera cubana o simile. Essa innesca un processo virtuoso. La vigilanza civica sulla Rai esercitata dai suoi clienti-padroni è un fatto che non può più essere rimandato. L’osservazione e la censura non può essere prerogativa esclusiva di critici e intellettuali che se la cantano e se la suonano tra loro, del resto foraggiati dal medesimo sistema. E la scoperta dei meccanismi scoperti o velati di formazione dell’opinione pubblica può e deve essere consegnata al genio del popolo che non è affatto bue. E questo al di là della Rai, che pure è oggi il punto di innesco di questo New Deal, entrerà anche a valutare Mediaset, Sky e La7, l’impero mediatico dei banchieri e dei finanzieri, della Fiat e di altri, degli editori puri e soprattutto impuri.
    Modestamente comincerò presto a mettere a disposizione di tutti, con materiali documentativi e spazi di commenti e giudizi, il sito RaiWatch. Sarà di ausilio alla Rai stessa, se vuole vigilare sulla propria essenza, e agli strumenti parlamentari e alla stessa AgCom. Poi, sul modello di altri esperimenti affermatisi in tutto il mondo civile, daremo il via a MediaWatch che riguarderà l’universo della comunicazione, nessun pianeta o satellite escluso. Ne vedremo delle belle. Un contro-potere. Pesi e contrappesi. Géométrie et finesse. Vive la liberté! Anzi la libertà, che è una parola così bella in italiano.

    di Renato Brunetta