Servirebbe un Atatürk

Giulio Meotti

Qualcuno ha scritto che l’11 settembre è nato nelle galere del Cairo, dove nel 1949 la monarchia semicoloniale egiziana giustiziò il fondatore della Fratellanza musulmana, Hassan al Banna. Il suo messaggio era il califfato e il rifiuto del modello occidentale laico e democratico. “E’ nella natura dell’islam dominare, anziché essere dominato, imporre la propria legge a tutte le nazioni e allargare il proprio potere all’intero pianeta”, proclamò al Banna. Nel giro di pochi anni, i Fratelli s’erano diffusi in tutto il paese, e poi in tutto il mondo arabo, piantando i semi della futura rivolta islamica e del terrorismo qaidista. Aprirono scuole, ambulatori, moschee, gli uomini iniziarono a farsi crescere la barba, le donne a portare il velo.

    Qualcuno ha scritto che l’11 settembre è nato nelle galere del Cairo, dove nel 1949 la monarchia semicoloniale egiziana giustiziò il fondatore della Fratellanza musulmana, Hassan al Banna. Il suo messaggio era il califfato e il rifiuto del modello occidentale laico e democratico. “E’ nella natura dell’islam dominare, anziché essere dominato, imporre la propria legge a tutte le nazioni e allargare il proprio potere all’intero pianeta”, proclamò al Banna.

    Nel giro di pochi anni, i Fratelli s’erano diffusi in tutto il paese, e poi in tutto il mondo arabo, piantando i semi della futura rivolta islamica e del terrorismo qaidista. Aprirono scuole, ambulatori, moschee, gli uomini iniziarono a farsi crescere la barba, le donne a portare il velo. Un ciclo di martirio che si è tragicamente rimesso in moto la scorsa settimana, quando il nipote di al Banna, Khaled Fernas Abdel-Basit, è stato ucciso negli scontri al Cairo fra i Fratelli e la giunta militare del generale al Sisi, che ha deposto il presidente islamico Mohammed Morsi. Stessa sorte per il figlio del leader della Fratellanza, Mohammed Badie. Le classi dirigenti occidentali dovrebbero leggere il fallimento dell’islam politico in Egitto come il grande paradigma di una nuova fase dopo l’11 settembre. L’America e l’occidente hanno un diretto interesse nel progresso del medio oriente, perché in quella regione è in gioco la sicurezza di tutti. Il dilemma è sempre stato come fornire a quelle popolazioni un’idea concorrenziale rispetto a quella di tenersi dittatori corrotti e foraggiatori di instabilità. Dopo l’11 settembre, dopo che il jihad ha colpito la nazione egemone del mondo libero, gli Stati Uniti hanno sradicato due regimi odiosi e fuorilegge, il Baath iracheno e i talebani del Mullah Omar. Si partì dai paesi in cui un’azione di forza era storicamente doverosa e possibile, da un regime come quello di Saddam Hussein, sterminatore degli arabi delle paludi, invasore di paesi limitrofi, finanziatore del terrorismo, reo di aver aperto fosse comuni e di voler distruggere Israele. L’idea era che la democrazia non potesse fiorire da sola nel giardino dell’islam, ma che bisognasse innestarcela con baionette e nation building.

    La strategia di diffusione della democrazia tramite i carri armati era l’unica in campo. Come alternativa non c’era la pace, ma la guerra con i carri armati guidati da Saddam. Tuttavia, a questo programma robusto e armato in Europa si rispose con il rifiuto ideologico di menzionare parole come “civiltà” e “guerra” per non sciupare il sogno pacifista. Fra risposte irenistiche e infingimenti apologetici, edulcorazione e minimizzazione, la sola risposta politica all’unilateralismo fu la campagna ipocrita alle Nazioni Unite di Dominique de Villepin, il ministro degli Esteri della “chiracchìa” che si atteggiò a difensore della ragione, della prudenza e della legge internazionale contro un’America arrogante, sconsiderata, irragionevole. Poi c’era l’allora cancelliere tedesco Gerhard Schröder, che si accingeva a diventare un alto impiegato dell’impero petrolifero putiniano.

    E proprio in Iraq, fra segni di speranza costituzionalista e drammi settari, le piazze arabe sono insorte davvero e hanno votato “Zarqawi go home”, smentendo il partito dei menagramo. Il giorno dopo il voto a Baghdad in molti elogiarono le file ai seggi con le donne sorridenti che mostravano le dita inchiostrate. Ma la vera gloria di quelle elezioni è che furono l’esportazione pura e semplice di un modello culturale occidentale, estraneo alle radici della cultura islamica fondamentalista, che le considera “blasfeme” secondo i suoi principi. La democrazia in Iraq è stata il prodotto della cacciata a colpi di bombe di Saddam, del lavoro sporco della Coalition Provisional Authority, della messa in mora dell’Onu e dell’accettazione della divisione dell’occidente.

    Nella guerra fra chi voleva tagliare le teste e chi voleva contarle nelle urne, tra chi voleva la dittatura dei versetti coranici e chi voleva coltivare la fede islamica in uno stato pluralista e non confessionale, tra chi esigeva di nascondere le donne sotto veli di feroce misoginia e chi voleva pari diritti per Marte e Venere, tra chi amava la morte più della vita e chi difendeva la vita rischiando la morte, questa guerra è stata certamente vinta dai secondi.

    Quella fase strategica e difficile si è chiusa fra successi e fallimenti (come il mancato riconoscimento di Israele da parte del nuovo governo iracheno). Ma come ha spiegato Kanan Makiya sul New York Times (e poi in una intervista sul Foglio), proprio la guerra in Iraq ha aperto la strada delle “primavere arabe”. Così gli ipocriti che erano stati contro la guerra preventiva ma avevano esaltato le prime elezioni della storia irachena, quelli che dissero che dal voto potevano nascere solo “dittature della maggioranza”, hanno scommesso sull’islam politico, sull’idea, coltivata dagli arabisti dentro e fuori la Casa Bianca, che la democrazia debba essere affidata a un ramo dell’islam politico, i Fratelli musulmani (nel 2007 Foreign Affairs, organo dell’establishment americano di politica estera, chiese di avviare un dialogo con i Fratelli sulla base della loro “evoluzione non violenta”). Un abbaglio dietro cui si celava il comando totalitario della moschea sulle comunità e un militantismo clericale che ha sempre avuto un programma feroce: “La società deve essere basata sui principi dell’islam”. La primavera araba si è dimostrata un tragico fallimento: l’Egitto è sotto coprifuoco militare, in Tunisia si giustiziano per strada i politici laici, la Libia è succube di una guerra fra tribù, la Siria sembra uscire da un quadro di Bosch.

    Il regime di Hosni Mubarak era stato, per usare le parole del consigliere di Yitzhak Rabin, Eitan Haber, “l’ultimo ostacolo allo tsunami islamista”. Mubarak aveva collocato l’Egitto nell’orbita occidentale, si era schierato contro Saddam e l’Iran di Khomeini, aveva siglato un trentennale patto di pace con Israele, era scampato a sei complotti di assassinio islamista e nel 1995 era stato l’unico leader arabo, assieme al re giordano Hussein, a partecipare ai funerali di Rabin. Non era poco in medio oriente. L’immagine di Mubarak che tende la mano a Leah Rabin resterà per sempre.

    Eppure le proteste arabe erano nate da un legittimo malcontento verso regimi secolaristi che avevano creato nepotismo, corruzione, stagnazione. Ma Bernard Lewis, uno di quelli che ha scommesso sulla possibilità di coniugare Corano e voto nell’urna, le aveva per tempo definite “rivoluzioni popolari non democratiche”, in cui chi cercherà di approfittarne sarà l’islamismo, che vuole la leadership del mondo arabo dopo mezzo secolo di nazionalismo laicista e di patti con l’occidente.

    Piuttosto è stato il ritorno al 1979, con il crollo dei fautori della pace con Israele e dell’alleanza con gli Stati Uniti, neo isolazionisti con Obama, e con società governate dalla sharia che chiedono “democrazia” in chiave plebiscitaria (“una testa, un voto, una volta sola”). Eccola la grande lezione iraniana, la questione irrisolta dopo l’11 settembre da parte delle due Amministrazioni Bush e Obama. Teheran non è un corrotto fortilizio oligarchico, ma una democrazia plebiscitaria di massa e assieme una teocrazia governata dalla sharia. Khamenei non è il re Saud, un rentier post coloniale che custodisce i luoghi santi dell’islam e fa il doppio gioco. Khamenei è al vertice di una Rivoluzione degli “incorruttibili”, l’imamato in cui è ancora molto salda la consistenza, forse più che maggioritaria, del blocco sociale, religioso e ideologico che tiene in piedi il regime. Il khomeinismo, a differenza dell’Unione sovietica, ha una “legittimità” nel fatto che il regime non è frutto di un golpe, ma l’erede di una rivoluzione. Maxime Rodinson ha scritto che la creazione di Khomeini è “al tempo stesso banale ed eccezionale”. Banale come ogni rivoluzione. Eccezionale perché, nel XX secolo, Khomeini e i suoi hanno saputo coniugare rivoluzione e religione (in Europa non si vedeva nulla di simile dai Lumi).

    I Fratelli musulmani sono la versione speculare nel mondo sunnita. E mentre cercavano la legittimazione per via elettorale stavano approntando una dittatura in fieri. Per questo l’esercito egiziano, che ha una salda tradizione di autoritarismo panarabista, è intervenuto. “I Fratelli musulmani e gli islamisti vogliono imporre un ordine internazionale anche attraverso la non violenza”, dice al Foglio l’islamologo americano Daniel Pipes. “Questo li ha resi più ‘accettabili’, ma gli obiettivi sono gli stessi: l’egemonia totalitaria, la brutale distruzione di vite umane e la sottomissione di donne e non musulmani. Gli islamisti considerano la democrazia come il mezzo principale per promuovere i loro programmi. Si servono delle leve statali per soddisfare i loro fini”.

    Da Teheran al Cairo, la guerra intestina e fatale fra pietà ultra religiosa e ambizione ultra moderna appare inevitabile. Secondo Roger Scruton il problema è culturale. “Il giudeo-cristianesimo ha riconosciuto che il governo della società umana è un compito puramente umano, e ha considerato il cristiano come ‘un servo di Dio’ e allo stesso tempo come il cittadino dell’ordinamento secolare. Anche la concezione illuminista del cittadino, che lo considera unito in un libero contratto sociale con gli altri cittadini sotto uno stato di diritto laico e tollerante, deriva dall’eredità cristiana. Questa visione è in totale contrasto con quella del Corano, secondo il quale la sovranità è soltanto nelle mani di Dio e del suo Profeta, e l’ordine legale si fonda sul comando divino. Questo ha finora reso del tutto impossibile l’idea di una democrazia islamica”.

    Si affaccia allora il modello turco, pur anch’esso sotto pressione islamizzatrice (nella Turchia di Erdogan sono state costruite 17 mila moschee). Anche a Istanbul l’originale formula della laicità protetta dalla cultura dell’esercito è alla prova della libertà di religione nell’epoca del conflitto tra civiltà. E anche lì, come in Egitto, il paradosso è che nella misura in cui la Turchia si democratizza è destinata ad abbandonare la laicità. Tuttavia in Turchia il sistema incentrato sulla sovranità popolare, sulla libertà di pensiero, sulla separazione tra stato e chiesa, è stata resa possibile proprio grazie al fatto che un geniale “apostata”, il generale Mustafa Kemal Atatürk, che strappò con le maniere forti la Turchia all’Asia per consegnarla all’Europa, chiuse gli harem, abolì la poligamia, diede battaglia a barbe e baffi, emancipò la donna spogliandola dei veli e fornendola di scheda elettorale, introdusse l’alfabeto a base latina, rinsaldò le istituzioni repubblicane, ma soprattutto spazzò via il califfato e al suo posto installò una Costituzione occidentale. Per dirla con Atatürk: “Din insân ilay Allah arasinda bir ishtir”, la religione è una questione tra Dio e l’uomo. Solo in questa chiave esisterà democrazia nel mondo islamico.
    Dal vicolo cieco della dittatura in turbante si esce, purtroppo, con il conflitto e la guerra interna all’islam, non con Twitter, le ong o Speakers’ Corner.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.