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Il fallimento di successo di Obama, una parabola da decrittare
Barack Obama è un quasi completo disastro politico, ma brilla come un astro rilucente buona disposizione verso l’umanità, esprime una prodigiosa capacità di comunicare un messaggio di speranza, entra nella storia come un gigante per essere stato non solo il primo presidente nero nella storia di un paese come gli Stati Uniti ma un presidente perfettamente adeguato al ruolo di leader compassionevole e riformatore. La tragedia dell’Egitto in rotta verso la guerra civile fomentata dall’ennesimo fallimento dell’islam politico, e in generale il riflusso del falso movimento aurorale che aveva percorso il Medio Oriente, illuminano di fuochi tempestosi e di pericoli il secondo mandato di un uomo la cui carica è intimamente legata alla gestione dell’ordine mondiale.
De Biase Barack chi? - Ferraresi Il presidente senza randello
Barack Obama è un quasi completo disastro politico, ma brilla come un astro rilucente buona disposizione verso l’umanità, esprime una prodigiosa capacità di comunicare un messaggio di speranza, entra nella storia come un gigante per essere stato non solo il primo presidente nero nella storia di un paese come gli Stati Uniti ma un presidente perfettamente adeguato al ruolo di leader compassionevole e riformatore. La tragedia dell’Egitto in rotta verso la guerra civile fomentata dall’ennesimo fallimento dell’islam politico, e in generale il riflusso del falso movimento aurorale che aveva percorso il Medio Oriente, illuminano di fuochi tempestosi e di pericoli il secondo mandato di un uomo la cui carica è intimamente legata alla gestione dell’ordine mondiale. Ma Obama è e resterà il simbolo di un modo dialogante, pacifico, riluttante a ogni prova di forza, di gestire gli affari internazionali dalla cattedra della prima potenza mondiale.
Quel che Obama non ha fatto dipende da lui e dal suo equivoco programma impastato di una grande e sincera e anche generosa retorica liberal, e il costo lo pagheranno generazioni di occidentali, di islamici e di americani; ma quello che ha fatto dipende dalla continuità con l’amministrazione precedente.
I droni contro il terrorismo li aveva lanciati l’amministrazione Bush; sulle tracce di Bin Laden era scatenata la Cia uscita ristrutturata nei due mandati repubblicani; la caccia a Bin Laden era un tracciato già scritto, e il particolare di Obama che gioca a carte e non assiste al blitz di Abbottabad sembra perfino un falso per quanto è veridico; Guantanamo è lì, con il Patriot Act e le pratiche dell’epoca di Don Rumsfeld e Dick Cheney, a testimoniare, con l’aggravante dell’estensione a raggiera dei programmi di spionaggio su scala universale, contro i quali Nat Hentoff e Peggy Noonan stanno conducendo una battaglia in difesa della privacy come eminente valore liberale, quanto sia complicato difendere la sicurezza in occidente senza pagare un prezzo di libertà; Ben Bernanke, risolutivo con le sue politiche alla Federal Reserve per la ripresa americana e mondiale, fu nominato da Bush ed entrò in servizio due anni prima della venuta del messia nero. Insomma, è accaduto quel che era prevedibile: la macchina federale del potere americano ha una sua autonomia e cogenza che nessun presidente può ribaltare a piacimento, e gli atti solidi, decisivi, dell’era Bush si sono proiettati come una benedizione, tragica ma solare benedizione, sugli anni oziosi di Obama, che ha una comunicativa sublime, elegante e demotica insieme, ma non un pensiero. Il texano troppo bianco, con il suo swagger, perde contro il nero harvardiano della east coast.
Invece dipende dal suo discorso del Cairo e dalle sue politiche in Afghanistan e in Iraq, oltre all’allentamento del vincolo storico con lo Stato d’Israele, l’assetto di sconvolgente rischio, in un’era prenucleare dettata dal volere caparbio e senza seri ostacoli degli iraniani, delle grandi aree di crisi del mondo. Obama potrebbe condurre a termine il suo secondo mandato con i Talebani di nuovo a Kabul e magari con il primo esperimento nucleare degli ayatollah, per non parlare degli scenari siriano, egiziano e tunisino, con le ripercussioni note, e della rinascita di un principio di guerra fredda nel senso tradizionale del termine legato al cattivo stato delle relazioni con il diffidente Vladimir Putin e con le sue mene spionistiche di successo.
Che dire? Il potere della parola e dell’immagine non è mai stato così forte. Ti può succedere di vincere e rivincere costruendo sul tuo simbolismo mediatico, sul tuo swing, una un tempo inimmaginabile parabola di perfetto insuccesso politico coronato dal perfetto successo comunicativo. Così è fatto il mondo contemporaneo.
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