
Golpe? Quale golpe? La Casa Bianca si tiene a distanza
Dall’isola di Martha’s Vineyard, dove Barack Obama è in vacanza con la famiglia, un portavoce della Casa Bianca ha “condannato con forza” l’uso della violenza da parte dei militari egiziani al Cairo e ha manifestato l’opposizione di Washington allo stato d’emergenza dichiarato ieri: “Il mondo sta guardando quello che succede al Cairo. Chiediamo al governo dell’Egitto, e a tutti i partiti, di evitare il ricorso alla violenza e di risolvere le divergenze in modo pacifico”. L’Amministrazione non si è spinta oltre i richiami rituali in questa cruenta fase di transizione (verso cosa? questo è il problema) e si è limitata a osservare che l’ondata di repressione cominciata ieri “contraddice esplicitamente le promesse fatte dal governo ad interim”.
Dall’isola di Martha’s Vineyard, dove Barack Obama è in vacanza con la famiglia, un portavoce della Casa Bianca ha “condannato con forza” l’uso della violenza da parte dei militari egiziani al Cairo e ha manifestato l’opposizione di Washington allo stato d’emergenza dichiarato ieri: “Il mondo sta guardando quello che succede al Cairo. Chiediamo al governo dell’Egitto, e a tutti i partiti, di evitare il ricorso alla violenza e di risolvere le divergenze in modo pacifico”.
L’Amministrazione non si è spinta oltre i richiami rituali in questa cruenta fase di transizione (verso cosa? questo è il problema) e si è limitata a osservare che l’ondata di repressione cominciata ieri “contraddice esplicitamente le promesse fatte dal governo ad interim”. E’ l’unica reazione plausibile per un’Amministrazione che ha appoggiato il fallimentare esperimento governativo dei Fratelli musulmani per poi lanciarsi in un’ambigua danza politica quando i generali guidati da Abdel Fattah al Sisi hanno preso il potere. Washington si è rifiutata di definire “golpe” la detronizzazione di Morsi e del suo governo, ha scelto la linea attendista, si è adagiata sull’indecisione che è l’unica costante visibile nel pattern della politica estera di Obama, ha traccheggiato per velare in qualche modo la sua impotenza, finché il segretario di stato, John Kerry, non ha spiegato che l’esercito stava “effettivamente riportando la democrazia”. Era una constatazione sullo status quo egiziano che l’America non ha il potere di modificare più che un convinto endorsement al governo militare, ma dopo la giornata di ieri la specifica suona come l’ennesima fonte di imbarazzo per un’Amministrazione che dall’inizio del tracollo di Mubarak si è sforzata di stare “dalla parte giusta della storia”. Il senatore repubblicano John McCain, capo dei critici dell’ambiguità obamiana all’estero, ha scritto su Twitter: “Come previsto, caos al Cairo. Le lodi del segretario Kerry al colpo di stato militare non hanno aiutato”.
Ma quello che è successo ieri, per Kerry, è “deplorevole”. Le centinaia di morti al Cairo sono l’ennesima conferma indiretta che Obama non è nella posizione per negoziare in modo credibile con qualunque fazione egiziana; la scelta di evitare la parola “golpe” ha garantito la continuità del flusso di dollari che da Washington va verso il Cairo (1,3 miliardi l’anno), aiuti che non fruttano alcun potere negoziale all’Amministrazione, costretta ad inseguire gli eventi senza poterli determinare. Un paio di settimane fa l’intellettuale conservatore Robert Kagan ha spiegato sul Washington Post il meccanismo perverso degli aiuti finanziari agli alleati infidi, fallato dall’assenza di un ritorno per gli Stati Uniti: se Washington non li sospende dopo un colpo di stato come quello egiziano, tutti si sentiranno legittimati a violare qualunque promessa. Obama ha usato a tal punto la sua prudente ambiguità che anche la repressione violenta per le strade del Cairo non sembra un motivo sufficiente per cambiare strategia.


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