Per i settler israeliani “l'accordo di pace è uno spreco di carta”

Susan Dabbous

Premesso che i territori palestinesi non sono altro che “un’invenzione della comunità internazionale”, Arieh Eldad, nato a Tel Aviv 63 anni fa, ex deputato della Knesset nell’Unione nazionale, non si fa nessun problema a chiamare gli insediamenti “settlement”, così come vengono definiti in inglese nella loro accezione “illegale”.  A meno di dieci giorni dalla ripresa dei negoziati di pace, l’ex parlamentare, oggi a capo di un nuovo partito laico di destra, Otzma LeYisrael (Forza di Israele), spiega al Foglio perché anche questo processo appena partito è destinato a fallire.

    Gerusalemme. Premesso che i territori palestinesi non sono altro che “un’invenzione della comunità internazionale”, Arieh Eldad, nato a Tel Aviv 63 anni fa, ex deputato della Knesset nell’Unione nazionale, non si fa nessun problema a chiamare gli insediamenti “settlement”, così come vengono definiti in inglese nella loro accezione “illegale”.  A meno di dieci giorni dalla ripresa dei negoziati di pace, l’ex parlamentare, oggi a capo di un nuovo partito laico di destra, Otzma LeYisrael (Forza di Israele), spiega al Foglio perché anche questo processo appena partito è destinato a fallire. Ci accoglie nella sua grande villa in quello che si potrebbe definire un settlement di lusso, Kfar Adumim, a una decina di chilometri a est di Gerusalemme. Eldad abita di fronte a un altro noto colono, l’attuale ministro dell’Edilizia Uri Ariel. “Abu Mazen e Netanyahu possono anche firmare un pezzo di carta con una sottospecie di accordo – dice – ma è un peccato per lo spreco della carta, il costo dell’abbattimento degli alberi”. Il suo sarcasmo poggia su una realtà poco discutibile: il fallimento di tutti i negoziati precedenti da Oslo a Camp David, passando per il più recente tentativo di Annapolis. E allora perché questo nuovo sprint? “Gli Stati Uniti vengono da un decennio di fallimenti nel mondo arabo-musulmano, ora vogliono rifarsi l’immagine, ma non andranno da nessuna parte. Prendiamo l’esempio degli insediamenti – prosegue – ci sono quasi mezzo milione di persone che vivono nei cosiddetti territori palestinesi, tra questi almeno 60 mila sono lì per ragioni ideologiche e non certo perché le case costano meno, seppure il governo li obbligasse ad andarsene sono pronti a iniziare una guerra civile”.  Il riferimento è agli ultraortodossi, e in particolare al mancato rinnovo, domenica scorsa, del regime di agevolazione fiscale che aveva goduto finora la nutrita comunità di haredi nel settlement di Betar Illit. Escluse dalla lista dei destinatari di aiuti statali anche Efrat (vicino all’insediamento di Gush Etzion), e Kedar nei pressi del grande settlement di Maale Adumim. Nel piano di sovvenzioni del governo Netanyahu rientrano invece molti insediamenti finora ritenuti illegali (i cosiddetti outpost) tra questi figurano Rehalim e Bruchin in Samaria, e Sansana e Negohot nelle colline di Hebron nonché Hebron stessa, Nofim, Geva Binyamin, Maale Micmas, e Eshkolot.

    Difficile non leggere l’assegnazione delle agevolazioni fiscali in chiave politica, da quando gli ultraortodossi non fanno più parte della maggioranza sono tante le sconfitte subite, compresa l’estensione della leva obbligatoria ai giovani studenti della Torah. Ma al di là delle sfumature fiscali, la politica abitativa degli israeliani vede più di 300 mila cittadini vivere in Cisgiordania per tre motivi: economici (le case costano meno), politici (rivendicazioni nazionaliste) e religiosi (santità di alcuni luoghi tra cui Hebron).  Ad andare nella direzione opposta a quella indicata da Washington, c’è poi l’approvazione di un nuovo quartiere israeliano nella parte meridionale di Gerusalemme est a Jabal Mukaber. Niente di gigantesco, solo 63 unità abitative, ma dall’alto valore strategico “visto l’avvicinarsi delle elezioni municipali, che si terranno tra due mesi”, ricorda Eldad. L’ex parlamentare ha cinque figli e quando non fa politica svolge la professione medica. Nel paese è noto per la sua versione rivisitata del “due popoli due stati”: Israele e Giordania, perché la Palestina formalmente (come entità statale) non esiste. Il fiume Giordano ne sarebbe il confine naturale, “spero che la monarchia ascemita venga rovesciata come è successo in altri paesi arabi, e che venga costituito un nuovo stato che dia cittadinanza a tutti i palestinesi”.