Lando, Buzzunca, il Montatore e le vene. Scene da una formidabile parodia

Stefano Di Michele

Ma certo, sicuro che è stato il sole, tutta colpa del sole – Stige e Caronte, sole da oscuro inferno, sole di luce che brucia. E  tutto insieme pesa – gli anni e lo stress, la fatica e la memoria – e tutto insieme schiaccia. E poi, mica per tutta la vita si resta allegro merlo e maschio da tre palle, e magari la fatica dell’homo eroticus è come la prima fatica di quel primo film, a fare lo schiavo ai remi di una galea in “Ben Hur” – la fatica di sempre. E’ questione di cuore e di pressione, allora, non di ragione. Non è tipo da tagliarsi le vene, Lando Buzzanca – non viene da dire: Lando Buzzanca, e poi aggiungere: suicidio.

    Ma certo, sicuro che è stato il sole, tutta colpa del sole – Stige e Caronte, sole da oscuro inferno, sole di luce che brucia. E  tutto insieme pesa – gli anni e lo stress, la fatica e la memoria – e tutto insieme schiaccia. E poi, mica per tutta la vita si resta allegro merlo e maschio da tre palle, e magari la fatica dell’homo eroticus è come la prima fatica di quel primo film, a fare lo schiavo ai remi di una galea in “Ben Hur” – la fatica di sempre. E’ questione di cuore e di pressione, allora, non di ragione. Non è tipo da tagliarsi le vene, Lando Buzzanca – non viene da dire: Lando Buzzanca, e poi aggiungere: suicidio. E’ così dunque è: e hanno certo ragione i fratelli e il figlio e l’avvocato. E’ tutto questo bruciare attorno, queste lingue di fuoco che prosciugano e che a momenti facevano un falò anche di un mito: la fatica di resistere più che di esistere. Ieri all’alba, a Roma – quando il sole ancora non c’è, ma il sole torrido si annuncia. Quell’ora poco dopo le quattro del mattino – “ora del chissà-se-resterà-qualcosa-di-noi / ora vuota / sorda, vana / fondo di ogni altra ora”, secondo la poetessa, ora in cui anche gli uccelli migratori possono sbagliare rotta. Qui il bivio soprendente di tutta una fatica, però impensabile per il Lando, per il Montatore, per tutta un’estetica e un sospirare e un precoce stupirsi, “il Buzzanco che ama le donne a branco”. E perciò mai si potrà credere al suo suicidio tentato, ancor meno che al dubitare del rapace stordimento – che a spanne si poteva valutare e misurare, quasi a metraggio – provocato all’apparire, in schermo e in fantasia, di Michele Cannaritta, dal cognome felicemente evocativo. E’ giusto in questo avvampare, la colpa di tutto. In questo stordire che soltanto affatica, e il solo gemere che produce è un gemere di spossatezza, che caccia in un oscuro labirinto, che ci fa smarrire tra il letto e l’alba. Perciò tornerà presto, Lando Buzzanca – ora che Stige riprenderà a scorrere negli inferi suoi, che smetterà di infuocare pensieri e malinconie e rappresentazioni: ché c’è sempre da stare in scena, da mandare un copione a memoria, un gesto da ricordare. Forse è stato, Lando Buzzanca, il Grande Frainteso: lui a mostrare la stupidità del maschio italico, il maschio italico in quella stupidità a rispecchiarsi e a bramarla. Ha messo in scena una parodia, l’hanno presa per realtà. E lui a spiegare che quelle patetiche figurine erano solo maschi malamente accartocciati, come la poetica foglia: che male vivevano, credendo invece di vivere benissimo. Chissà quante volte la maschera dal viso si è tolta, per avvertire, per dire che si trattava di “mettere alla berlina la conclamata fragilità del maschio”, e che quel “merlo maschio” da ognuno ancora vagheggiato è un poveraccio, solo “un uomo inutile” – e solo del riflesso della sua bella donna vive, patetico e tacchinesco, “uomo privo di personalità” mentre tutti solo lei guardano, così da sperare di cadere nell’orizzonte di quegli sguardi. “Ho raccontato tragedie, facendo finta di niente”. Erano quegli anni Settanta non ancora di piombo, e il figlio di Empedocle giunto a Roma con 500 lire in tasca, che bagnava gli sfilatini alle fontanelle per gonfiarli d’acqua e finta sostanza, capiva (così ha spiegato) che correva più lesta l’emancipazione femminile di quella maschile: “L’uomo era ancora legato alle cosce della madre, ed io mettevo un po’ alla berlina quel tipo di personalità”. Trasfigurava, più che rappresentare, Buzzanca. E un po’ per volta “mi sono comprato la libertà: Feydeau, Shakespeare, Pirandello”, come Plauto e Moliere, il “Vicerè” morente nel suo mondo morente, il poliziotto con il figlio gay – a rappresentarne scoperta e rabbia e poi condivisione, così che pure a destra con il Lando glorioso della virilità nazionale se la presero: stavolta scambiando (confonde la realtà, spesso, più della scena) proprio la sua rappresentazione per una trasfigurazione, patetici Cannaritta sopravvissuti a loro stessi. “Totò – disse a un amico che lo intervistava – chi nella vita, con fantasia, non spara cazzate…”. Accompagna meglio la vita, una cazzata ogni tanto. La salva dal tedio e dalla seriosità – dalla consumazione insensata. Il Lando lo sapeva, Buzzanca lo sa.