
Finanza made in Italy
Credito avaro, Bankitalia e Fmi aprono il processo alle fondazioni azioniste
Il differenziale di rendimento tra Btp decennali italiani e omologhi Bund tedeschi ha chiuso a 293 punti, dopo aver sfondato quota 300 nel corso della seduta. Sulla fiducia degli investitori pesano le incertezze sui prossimi passi dell’esecutivo Letta, sommate alla richiesta del governo portoghese di rinviare a settembre la verifica del piano di salvataggio internazionale in corso, prevista per lunedì; a Borse chiuse, inoltre, Fitch ha comunicato di aver tagliato il rating della Francia da AAA ad AA+. La congiuntura politica, però, in questa fase sembra attirare meno le attenzioni di analisti e organizzazioni internazionali di quanto non faccia un’altra zavorra al piede di molte economie europee.
Il differenziale di rendimento tra Btp decennali italiani e omologhi Bund tedeschi ha chiuso a 293 punti, dopo aver sfondato quota 300 nel corso della seduta. Sulla fiducia degli investitori pesano le incertezze sui prossimi passi dell’esecutivo Letta, sommate alla richiesta del governo portoghese di rinviare a settembre la verifica del piano di salvataggio internazionale in corso, prevista per lunedì; a Borse chiuse, inoltre, Fitch ha comunicato di aver tagliato il rating della Francia da AAA ad AA+. La congiuntura politica, però, in questa fase sembra attirare meno le attenzioni di analisti e organizzazioni internazionali di quanto non faccia un’altra zavorra al piede di molte economie europee: il credito che continua ad affluire con il contagocce. Due giorni fa il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha ricordato che i prestiti alle imprese nel nostro paese sono diminuiti di un altro 5 per cento su base annua nei tre mesi terminati a maggio. I fattori che spiegano la contrazione sono molti (inclusi la minore domanda di credito e la sua maggiore rischiosità), ma agli operatori non è sfuggito che Visco, trattando il capitolo “redditività e governance” delle banche, si sia espresso con inusitata chiarezza sul “nodo irrisolto” delle fondazioni bancarie. In passato le fondazioni sono state “un fattore positivo di stabilità”. Ora però occorre che questi enti diversifichino i portafogli per “allentare i legami, talvolta troppo stretti, con i risultati della banca di riferimento”. Anche per “evitare interferenze nella governance”.
“Alcune fondazioni tendono a interpretare in maniera molto ampia le prerogative degli azionisti – ha detto Visco – Ciò ha determinato eccessi, ostacolando talora il necessario ricambio degli organi aziendali e orientando la scelta degli amministratori in base a criteri diversi dalla professionalità”. Il tutto a scapito della “performance degli intermediari” e quindi della “capacità di finanziare l’economia”. Se le fondazioni allentassero la presa, ha aggiunto poi il governatore della Banca d’Italia, “ne risulterebbe favorito l’ingresso di nuovi investitori nelle banche”. Come dire che nel caso di future ricapitalizzazioni, gli enti di origine bancaria potrebbero non giocare più il ruolo di protagonisti, anzi. La necessità di rimpinguare il capitale delle banche è meno remota di quel che si pensi, almeno a leggere l’Economist in edicola, che dedica un editoriale alle “banche zombie” dell’Europa: “La paura, specialmente nelle economie della periferia, è che si ripeta l’esperienza giapponese degli anni 90, quando delle banche zombie hanno continuato a barcollare per anni, non in salute sufficiente per elargire prestiti e non deboli a tal punto da collassare”. Il settimanale fa proprio l’esempio di due istituti italiani (partecipati da fondazioni), Unicredit e Intesa, in cui il prezzo di Borsa su valore libro – cioè il rapporto tra capitalizzazione complessiva di una società e patrimonio netto della società – è rispettivamente a 0,34 e a 0,42. A differenza delle banche americane (in cui il prezzo su valore libro supera l’unità), quelle italiane sono valutate dal mercato meno del loro patrimonio netto.
Anche il Fondo monetario internazionale, nei suoi ultimi rapporti sull’Italia, ha messo esplicitamente sotto osservazione le fondazioni, dicendo che le stesse – per il bene delle banche di riferimento – “dovrebbero avere strutture di governance adeguate”, mentre le banche popolari più grandi dovrebbero essere “incoraggiate a convertirsi in società per azioni”. “Più trasparenza, migliore corporate governance, management finanziario sano e maggiore diversificazione” sono richiesti in un sistema in cui le fondazioni hanno una “presenza sistemica”. Martedì scorso Giovanni Bazoli, presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, criticando la proposta di Diego Della Valle che ha suggerito a tutti gli attuali azionisti di Rcs “un passo indietro”, aveva detto: sarebbe come chiedere “alle fondazioni di uscire dalle banche: poi chi, tra i privati, potrebbe intervenire oggi nel settore bancario?”. Domanda retorica, intende Bazoli, ma su cui Bankitalia e Tesoro inizieranno a interrogarsi davvero già da martedì prossimo, all’incontro a porte chiuse “Credit funds, Credit Crunch” a Via XX Settembre. Con le fondazioni spettatrici, e sotto osservazione.


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