Quanto è perfetto Bin Laden con il cappello da cowboy per nascondersi

Redazione

Un uomo con la barba incolta e un cappello da cowboy strappa le erbacce dell’orto fuori casa. I suoi figli escono correndo dalla porta. Lo aiutano a curare l’orto e gareggiano tra loro per chi coltiva la zucchina più grossa. L’uomo alza con un dito le falde larghe del cappello, li guarda, sorride. Non è la scena iniziale di un western triste (l’idillio prima che arrivino i banditi), né un quadretto stereotipato dell’America rurale, e l’uomo con il cappello da cowboy non è un tardo John Wayne ma Osama bin Laden, l’ex nemico numero uno dell’America, l’uomo più pericoloso del mondo.

    Un uomo con la barba incolta e un cappello da cowboy strappa le erbacce dell’orto fuori casa. I suoi figli escono correndo dalla porta. Lo aiutano a curare l’orto e gareggiano tra loro per chi coltiva la zucchina più grossa. L’uomo alza con un dito le falde larghe del cappello, li guarda, sorride. Non è la scena iniziale di un western triste (l’idillio prima che arrivino i banditi), né un quadretto stereotipato dell’America rurale, e l’uomo con il cappello da cowboy non è un tardo John Wayne ma Osama bin Laden, l’ex nemico numero uno dell’America, l’uomo più pericoloso del mondo.
    E’ pieno di dettagli come questo il lungo report (più di 300 pagine) compilato da una commissione d’inchiesta pachistana su ordine del governo a proposito degli ultimi mesi di vita di Bin Laden e sul suo soggiorno ad Abbottabad, dove il capo di al Qaida viveva la sua vita da fuggiasco. Questi dettagli sono funzionali alla causa: il report (trafugato e fatto pervenire al network al Jazeera, probabilmente con il consenso di parte dell’establishment pachistano) intervista le guardie del corpo sopravvissute al blitz americano del primo maggio 2011, le mogli di Bin Laden, i vicini di casa del compound di Abbottabad con l’intento di dimostrare che no, nemmeno la polizia locale, nemmeno i vicini di casa si erano accorti che lì viveva Osama bin Laden. Il report non servirà a sviare i sospetti degli americani sugli occhi ben chiusi che il governo pachistano ha tenuto ad Abbottabad (e anzi apre voragini sull’inettitudine dei servizi pachistani, che nemmeno si accorsero che i Navy Seal stavano operando sul loro territorio), ma dischiude particolari strepitosi sulla vita dell’ex capo di al Qaida.

    Della mestizia in cui viveva Bin Laden in quella palazzina recintata e che i media occidentali si sono sforzati di definire “fortino” già avevamo avuto sentore dai racconti che erano seguiti all’attacco dei Navy Seal: già sapevamo delle poche guardie, delle stanze spoglie, dei filmini pornografici rinvenuti vicino al televisore. Ma il report pachistano si è spinto più a fondo. A sfogliarne le pagine si susseguono le scene di una vita braccata, trafelata, a volte umiliante. Perché è difficile immaginare Osama bin Laden che prende una multa per eccesso di velocità e che, fermato al posto di blocco, non viene riconosciuto dalla polizia, rasato come un occidentale, come un americano (pensare a un Bin Laden sbarbato è già un colpo alla sua immagine). Oppure sapere che il nemico numero uno dell’America, figlio di miliardari sauditi, aveva in tutto sei vestiti, tre per l’estate e tre per l’inverno. “E’ lo zio povero!”, diceva Rahma, la figlioletta di uno dei servitori pachistani del capo di al Qaida.
    Secondo il report, Bin Laden era volato in Pakistan appena un mese dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’undici settembre. Per più di tre anni aveva saltato di città in città con la sua famiglia e i suoi servitori, prima di trovare rifugio ad Abbottabad nel 2005. Durante la fuga Bin Laden è stato costretto all’isolamento, spesso al mutismo: in qualsiasi occasione l’“arabo alto e rasato” era costretto a fare affidamento sui suoi servitori pachistani per non rivelare di essere straniero e destare sospetto. Silenziosa rimase anche Amal, una delle sue mogli, che partorì quattro volte durante la fuga e per quattro volte, costretta a ricoverarsi negli ospedali pachistani, dovette fingersi sordomuta per non rivelare le sue origini arabe. Una volta ad Abbottabad, la famiglia Bin Laden continuò a seguire un rigidissimo codice d’isolamento. Niente televisione, niente telefoni, niente visite, niente contatti con l’esterno. Niente medici dentro il compound, tanto che lo stesso Bin Laden si curava con medicina tradizionale, cioccolata e mele.

    Per evitare che nel villaggio si sapesse che una famiglia araba viveva nelle vicinanze, i bambini della famiglia non potevano uscire di casa né giocare con i loro coetanei, ed erano costretti a passatempi eccitanti come la coltivazione delle verdure. Il padre in persona si occupava della loro educazione religiosa. Nonostante la cura maniacale per la segretezza, nessuna di queste misure avrebbe dovuto impedire ai servizi segreti pachistani di identificare Bin Laden: una numerosa famiglia araba rinchiusa per sei anni in una palazzina vicino a una base militare avrebbe dovuto quanto meno essere notata. Secondo la commissione che ha stilato il report il governo è stato “negligente, inefficiente e incompetente”. Ma pure l’America non resta senza colpe: il blitz ad Abbottabad è “un atto criminale” da parte di Obama.

    Ormai rinchiuso in un esilio per nulla dorato, negli anni di Abbottabad Osama bin Laden aveva perso quasi del tutto il controllo operativo sull’organizzazione da lui creata. Nonostante questo continuava a inviare ordini, direttive, consigli, con una vera ossessione per l’America: ai qaidisti yemeniti Bin Laden ordina di smetterla di attaccare il governo locale per concentrarsi sul Satana americano. Poi ci sono le incitazioni a fare di tutto per uccidere il presidente Obama e l’allora capo della missione in Afghanistan Petraeus. Qui i piani di Bin Laden, già resi noti nel 2012, si fanno curiosi: l’ordine era di assassinare Obama, ma risparmiare il vicepresidente. Diventato automaticamente presidente, con la sua inettitudine Joe Biden avrebbe portato l’America al tracollo.

    Un’ossessione per l’America che arriva fino al cappello da cowboy in cortile. Osama lo usava per paura che gli americani lo potessero individuare con ricognizioni satellitari. Lo immaginiamo: l’uomo più pericoloso del mondo è colpito da tali paranoie da non poter alzare lo sguardo al cielo, e per ripararsi dagli occhi elettronici dei suoi nemici sceglie il copricapo che dei suoi nemici è il simbolo. E’ la nemesi perfetta per l’uomo che non si era mai mostrato al mondo con altre vesti che non fossero il thwab, il lungo vestito bianco della tradizione islamica.