
Gli atti mancati dei borghesi buoni a nulla
Gli archivi della memoria sono imperfetti, ma a volte quelli digitali danno una mano per ricordare, almeno grosso modo, come sono iniziate certe cose. Così, cercando l’occorrenza “casta” – in booleana coppia con Stella Gian Antonio, o con l’intercambiabile Rizzo Sergio – nell’archivio storico del Corriere della Sera si apprende che già prima dell’uscita del libro il tic esisteva, pur se embrionale, tanto che il 14 febbraio 2007 si ritrova lo Stella a polemizzare con un Pedrizzi Riccardo, onorevole: “Onorevole, usi la parola giusta: casta. Non ‘categoria’: casta”. Ma era un’occorrenza casuale. In precedenza, il lemma è quasi introvabile.
Gli archivi della memoria sono imperfetti, ma a volte quelli digitali danno una mano per ricordare, almeno grosso modo, come sono iniziate certe cose. Così, cercando l’occorrenza “casta” – in booleana coppia con Stella Gian Antonio, o con l’intercambiabile Rizzo Sergio – nell’archivio storico del Corriere della Sera si apprende che già prima dell’uscita del libro il tic esisteva, pur se embrionale, tanto che il 14 febbraio 2007 si ritrova lo Stella a polemizzare con un Pedrizzi Riccardo, onorevole: “Onorevole, usi la parola giusta: casta. Non ‘categoria’: casta”. Ma era un’occorrenza casuale. In precedenza, il lemma è quasi introvabile. Nel 2006 (9 aprile) l’unica bizzarra apparizione riguarda la Bhagavat Gita, “citata da Geminello Alvi: ‘Berlusconi è la più perfetta incarnazione della terza casta indiana che si dia nel cosmo almeno da quando i Sette Santi Rishi diedero forma alle caste indoeuropee, istruiti da Manu’”. Lontane astruserie. Risulta però che il tamburo avesse iniziato a suonare già da qualche mese, se il 26 aprile i due castigamatti del Corriere avevano appiccicato, come monatti in cerca di appestati, il loro post-it con scritto “casta” addirittura sulla porta del Quirinale: “Quirinale più costoso dell’Eliseo e di Buckingham Palace”. Beccandosi il giorno dopo la reprimenda di un ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.
Ci sono eventi che al momento non si direbbe, ma poi segnano la memoria collettiva di un’intera nazione. Per dirla col celebre assioma mnemonico-letterario di Don DeLillo, che sul baseball come memoria ci ha scritto un intero romanzo, in America “tutti si ricordano dov’erano quando Bobby Thomson fece quel fuoricampo”. Diversamente, è probabile che nessuno di noi si ricordi esattamente dov’era e cosa stesse facendo il 2 maggio 2007, quando Rizzoli sfornò il libello che avrebbe segnato i nostri anni a venire, “La casta” di Stella & Rizzo. Il 2 maggio 2007 non fu proprio per gli italiani come quel 3 ottobre 1951 per gli americani, quando a New York giocarono i Dodgers e i Giants. Eppure era la data d’inizio di una campagna di stampa, di aneddotica facile e di retorica assassina, con cui il maggiore quotidiano d’Italia, il giornale della borghesia industriale, il giornale blindato dall’arrocco barocco di un patto di sindacato tra pezzi declinanti ma influenti del capitalismo italiano, dava l’assalto alla Politica. In nome di una parte della nazione, quella idealmente rappresentata dal giornale – gli imprenditori, la società civile, gli affezionati (e)lettori – che rivendicava a sé il ruolo di guida virtuosa contro la fallimentare classe politica espressa dalla Seconda Repubblica: incapace, arruffona, tendenzialmente cleptocratica ma soprattutto moralmente condannabile per la sua arroganza: in una parola, la casta.
Nessuno si ricorda dove fosse e cosa stesse facendo, ma intanto iniziava una storia italiana atipica, o forse molto tipica. Un pezzo di classe dirigente si metteva in marcia verso i territori della Nuova Politica. Sospinta dal “solito velleitarismo della borghesia italiana, specie quella del nord”, come dice il saggista Giancarlo Galli, che la conosce bene. E guidata dalla stella polare di una campagna giornalistica destinata per forza di cose a vellicare i peggiori istinti populisti (“Da Max Weber a Stella e Rizzo…”, per dirla col sarcasmo di Giulio Sapelli, un economista che della disperante “anomia politica” della borghesia italiana si era occupato già in tempi non sospetti).
Quanto poi, per intestarsi quella battaglia moraleggiante di una gloriosa testata a proprietà multipla, un pezzo di classe dirigente abbia dovuto scendere a patti ideali, e scodinzolare, con le più becere insorgenze antipolitiche che avrebbero succhiato avide la tetta di tutti gli Stella e Rizzo, è cosa da valutare. Ma non è difficile farsi un’idea. Detto en passant, non fu nemmeno la prima volta, per il giornale di Via Solferino, di tirar la volata all’antipolitica. Il Corriere di Paolo Mieli aveva giocato un ruolo anche più ambiguo, battendo la lingua sul tamburo negli anni di Mani pulite, gli anni che trasformarono Milano – e pure il Corriere, che non se n’è più ripreso del tutto – in palcoscenico per azzimate tricoteuse. (Anni dopo, Mieli avrebbe confessato a Luigi Amicone di Tempi: “Adesso capisco che Mani pulite non è il nuovo, è la vecchia storia dei buoni contro i cattivi… uno schema pessimo”).
Non solo Stella e Rizzo, of course. Basta fare la solita passeggiata booleana su Amazon per scoprire più di 150 titoli italiani recenti dedicati al Male Assoluto d’Italia, “la casta”, entità indefinita che alligna nella politica, nel sindacato, nelle università e pure in Vaticano. Il bestseller corrierista ha fatto da apripista a una moda editoriale diventata in fretta malcostume del pensiero. Quel che forse è più interessante raccontare è che quella campagna, nata pure con tutte le sue buone ragioni che non si perderà tempo qui a elencare, già covava qualcosa in sé di meno nobile, e un problemino teorico meno maneggevole: il ribellismo delle classi dirigenti. Che in Italia assume per solito la forma di “un andirivieni perenne tra punte di fortissima denuncia antipolitica e clientelismo purissimo con i nuovi assetti di potere che si vengono a creare”, come dice Massimo Cacciari, che delle ondate di malessere della borghesia industriale, specie nel nord-est, è stato a lungo testimone privilegiato. “Non mi iscrivo al partito dell’antipolitica ma mi sono rotto i c…”, ha detto di recente il presidente di Confindustria Veneto, Andrea Tomat.
Antipolitica e presa di distanza dal sistema politico. Erano del resto gli anni in cui Ferruccio de Bortoli, appena tornato in Via Solferino, doveva difendersi dalle accuse di “terzismo e cerchiobottismo” (14 ottobre 2009) da parte del suo maggior rivale sul mercato editoriale, Eugenio Scalfari. Il terzismo del Corriere del resto era già faccenda vecchia. Debutto ufficiale quando, 2007, Paolo Mieli che solo un anno prima aveva schierato il suo quotidiano sul fronte ulivista, stangò da un convegno a Capri il già fatiscente governo Prodi, e Pier Luigi Battista difese in pagina il solco tracciato, codificando l’essenza del terzismo come “una forma di insofferenza verso il bipolarismo”. Ma intanto, sotto sotto, sulle stesse pagine, con la sua campagna castale il Corriere della Sera diventava anche il giornale del ribellismo delle classi dirigenti, cercando di occupare lo spazio editoriale non ancora militarizzato dall’antiberlusconismo di Repubblica. Così da quella fatidica data del 2007 iniziarono a piovere gli articoli in cui Stella e Rizzo tuonavano: “Vaglielo a spiegare che non è una puntata dell’immaginario ‘complotto’ ordito da misteriose forze contro la casta cui appartengono”. E facendosi forza della retorica domanda “cosa deve accadere ancora perché la casta capisca?”, si trasformavano in minacciose Cassandre: “Devono esplodere il Vesuvio, fallire l’Alitalia, rinsecchirsi il Po, crollare la Borsa, chiudere gli Uffizi, dichiarare bancarotta la Ferrari? Ecco la domanda che si stanno facendo molti cittadini italiani”. E via con gli articoli sulle comunità montane in pianura, le auto blu e infiniti altri mali. Il basso continuo italiano degli ultimi cinque anni. Crollo di Berlusconi, parentesi montiana, esplosione grillina e suicidio per overdose antipolitica del Pd compresi.
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Poiché l’Italia è l’Italia, nessuno si ricorda esattamente dov’era e cosa stava facendo nemmeno il 26 gennaio del 1994. Quando Silvio Berlusconi con un videomessaggio registrato annunciò il suo ingresso in politica: “L’Italia è il paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà”. Nessuno se ne ricorda bene nonostante, e sono passati vent’anni, quel discorsetto zeppo di retorica – ma che, per la prima volta nella storia politica italiana, faceva mostra di avere calcolato al millimetro dove fosse il target che voleva colpire – abbia poi determinato il corso degli eventi. “Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare”. Non lo ricorda nessuno perché si preferisce ricordare quel gesto e quella data come a) l’inizio di tutti i mali; b) qualcosa di ridicolo, il debutto in società di un inadatto a guidare l’Italia. Ma c’è da scommettere che se nessuno dotato di bon ton si ricorda dov’era nel 1994, nei giornali e nei salotti buoni dove si decidono le magnifiche sorti progressive tutti si ricordano senz’altro dov’erano e cosa facevano il 1° luglio del 2009, quando dopo due anni di campagne anticastali e terziste ormai diventate pandemia nazionale Luca Cordero di Montezemolo annunciò la nascita di ItaliaFutura, “luogo di ideazione civile, politica ed economica, libero dagli ideologismi”, nonché “strumento di mobilitazione dell’opinione pubblica”. Stavano tutti lì alla loro scrivania, e dissero in coro: wow, ci siamo!
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Era anche quella una retorica discesa in campo. O meglio, la prima di una infinita serie di annunciate discese in campo sempre rimandate o smentite dai fatti. “Sì, sto pensando di entrare in politica e di fondare un partito. Apriremo anche una sede a Copacabana”. Nel marzo 2007 LCdM aveva già dovuto cavarsela con una battuta dalle voci di un suo avvicinamento al campo minato dell’azione pubblica. Il nome ItaliaFutura circolava già. Ma allora Montezemolo era ancora presidente di Confindustria, lo era da maggio 2004 e lo sarebbe stato fino al 13 marzo del 2008, a ridosso delle elezioni trionfali di Silvio Berlusconi. Una Confindustria che aveva già prima scaricato il Cav. La Confindustria con cui Berlusconi era andato allo scontro plateale nel 2006, davanti agli imprenditori di Vicenza: “Dov’è la crisi? E’ la sinistra con i suoi giornali che per arrivare al potere inventa una crisi che non esiste. E’ lecito domandarsi se in Italia non ci sia già una situazione di pericolo per la democrazia”. Fischi e applausi. “C’è qualcosa che non va”, disse, se Prodi “dice alla Cgil ‘prendo al 100 per cento il tuo programma’ e poi si fa lo stesso con la Confindustria”. “C’è qualcosa che non va o no in tutti questi giornali che stanno dalla loro parte? C’è qualcosa che non va o no se tutte le mattine la radio del Sole 24 Ore attacca il governo? Non dobbiamo farci prendere la mano dal pessimismo dei giornali che leggiamo tutte le mattine: il Corriere della Sera, la Stampa, il Sole 24 ore, la Repubblica, il Messaggero”. E aveva bastonato soprattutto, quel giorno, Diego Della Valle: “Gli imprenditori che stanno a sinistra hanno scheletri negli armadi, sono sotto il manto protettivo della sinistra e di Magistratura democratica”. Quale rapporto ci sia stato tra il giornale della classe dirigente che da due anni bastonava la casta e chiedeva la fine del bipolarismo e l’avvento degli ottimati e le ambizioni della classe dirigente, LCdM ma non solo lui, di scendere nell’arena, è argomento contendibile. Gli imperfetti archivi della memoria si limitano a ricordare l’aria che tirava.
Ma la vera cosa interessante è notare che la rivoluzione non è mai avvenuta. E’ una storia virtuale. Una storia che prima o poi qualcuno dovrà decidersi a raccontare per come è andata (non andata). Insomma che noi stavamo lì, ognuno intento alle sue faccende ma pur sempre col naso incollato ogni sera ai tg e ogni mattina ai giornaloni e alle news online per non perderci questo benedetto fuoricampo, questa mossa che avrebbe messo a rumore tutto il mondo e a tacere tutte le caste e i cialtroni della Seconda Repubblica. E non è mai accaduto. E non l’abbiamo visto mai. E per giunta, ma questo è un altro capitolo della storia e lo vediamo dopo, quando finalmente capitò che uno non della casta, uno della classe dirigente, uno che veniva dritto dritto dal milieu intellettuale e finanziario ed economico con tutti i crismi in regola ebbe la ventura di avere in mano le chiavi della macchina, la mazza da baseball per sparare il fuoricampo, o per usarla a mo’ di clava sulle parti basse della casta come Alex in “Arancia meccanica”, non trovò l’appoggio dei suoi. Venne nel mondo, ma i suoi non l’hanno accolto.
Comunque sia, così aveva detto il patron di Ferrari: “Ho deciso di aiutare un gruppo di giovani economisti e ricercatori in un think tank un po’ all’americana. Fuori dall’ottica e dalle logiche dei partiti della politica, che è sempre così invadente”. Per “cercare di studiare dove vogliamo essere tra cinque anni. Una grande spinta a porci degli obiettivi che non sono né di destra né di sinistra”. Le cose precipitarono ben prima dei cinque anni prudentemente messi a bilancio, come sappiamo e come vedremo. Fatto sta che a ottobre 2012 Luca Cordero di Montezemolo aveva lasciato pure la presidenza di Ntv, i treni Italo in cui è socio con Della Valle, e tutti avevano detto un’altra volta: ahah, ci siamo… Ma lui aveva subito giurato: “Non mi candido a niente”.
Poi il 17 novembre 2012 Luca Cordero di Montezemolo scende ufficialmente in campo, tra tutta l’Italia che conta che un’altra volta ripete: ahah, eccolo qua… O almeno così sembra. La convention romana “Verso la Terza Repubblica” dalle parti della Tiburtina è il surreale grido di guerra dei centristi-non centristi che vogliono essere guidati da Mario Monti verso il sol dell’avvenire europeo, attraverso le valli amare e purificatrici di Rigore, Competenza e Austerità. Sopra un palco di aspiranti primedonne, il capo di ItaliaFutura è la vera star: “Noi non chiediamo al presidente del Consiglio di prendere oggi la leadership del nostro movimento, perché pregiudicherebbe il suo lavoro e non ce lo possiamo permettere: ci proponiamo di dare fondamento democratico ed elettorale al percorso intrapreso dal suo governo perché possa proseguire”. Improbabile che nessun italiano ricordi dov’era, mentre Montezemolo vibrava nell’aria siffatte parole: “Mai più accetteremo di vedere l’Italia derisa e disonorata, per questo scendiamo in campo. Siamo qui perché vogliamo che inizi finalmente un capitolo nuovo della nostra vita civile e democratica, che metta al centro questa Italia, l’Italia che rema. Dobbiamo aprire la strada verso la Terza Repubblica”. Il sottoscritto, ad esempio, se lo ricorda alla perfezione: stava in redazione e cercava di almanaccare tra qualche ricordo paleodemocristiano quando mai, e se, avesse funzionato il debutto in politica degli ex segretari della Cisl. Lì c’era Raffaele Bonanni, chiamato in spe contra spem a cammellare le truppe popolari per il progetto simil-elitario del nuovo centrismo capace di tenere assieme le visioni tecnocratiche e le istanze popolari. Prima di lui con la politica ci avevano provato tutti, da Pierre Carniti a Savino Pezzotta. Regolarmente raccogliendo numeri da prefissi telefonici.
Ma lo stile era da classe dirigente: “Sostituiamo la retorica dei ristoranti pieni con quella dei brevetti registrati, dei monumenti restaurati o dei libri letti”. E qui, va detto, si sentivano vibrare tutti i cavalli-vapore della cultura del riformismo messi sotto pressione per due anni da Andrea Romano, l’intellettuale organico, l’organizzatore di ItaliaFutura, saggista disceso dalle montagne russe della sinistra antica fino alle novità del blairismo, poi dimessosi da capo della saggistica Einaudi per l’accusa (infamante) di aver voluto “infiltrare l’Einaudi da parte della destra”. Un autentico terzista. Ma c’era, e pure va detto, anche il linguaggio di Beppe Grillo: “Abbiamo bisogno di ridurre gradualmente le municipalizzate, trasformate in poltronifici ad uso dei politici trombati”. “Non è più accettabile avere difficoltà a trovare i soldi per restaurare Fontana di Trevi o Pompei o piangere dopo l’ennesimo disastro idrogeologico e contemporaneamente spendere alcuni miliardi di euro per sanare i buchi di quelle amministrazioni locali che hanno costituito centinaia di società inutili e dannose, operato migliaia di assunzioni clientelari e perfino finanziato partiti defunti con il nostro denaro”. Insomma pareva a Luca Cordero di Montezemolo che “le elezioni del 2013 saranno l’appuntamento più importante per questo paese da quelle del 1948. Nessuno potrà chiamarsi fuori”. A dicembre ItaliaFutura entra nella coalizione Con Monti per l’Italia. Ma il 31 dicembre, con un’intervista a Repubblica, Luca Cordero di Montezemolo annuncia: “Non mi candiderò”. Col botto.
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Non è per avercela con Montezemolo, che alla fine sceglie sempre, legittimamente, di fare l’imprenditore di successo. “Guarda, se vuoi il mio parere – almanacca nei ricordi Giancarlo Galli – una volta nel 1998 parlavo con l’avvocato Agnelli, e gli chiedevo appunto perché non avesse mai preso una iniziativa politica in prima persona. A parte Susanna, solo Umberto ci aveva provato, ed era stato un buco nell’acqua. Mi rispose: noi in Europa abbiamo una tradizione, l’imprenditore fa l’imprenditore, ha strumenti di mediazione e influenza, al massimo può fare il senatore, ma il politico, mai. Un uomo di economia non ha le caratteristiche adatte, sarebbe uno strappo culturale troppo forte. Si parlò di Berlusconi, e lui disse: vede, Berlusconi ha compiuto una anomalia nel costume culturale del paese”. Sta di fatto però che nel panorama italiano, in un certo panorama italiano che ha sempre considerato una nobile arte essere imprenditori di rango internazionale, qualcosa come appartenere alla casta dei samurai, LCdM è una stella fissa. Si guarda sempre a lui. A costo di essere abbagliati, o di prendere un abbaglio. Montezemolo a parte, se c’è una cosa che colpisce è la gran quantità di alfieri della classe dirigente, imprenditori soprattutto ma anche fior di manager – le stelle della società civile le lasceremmo da parte, quelle si fulminano subito da sole, come lampadine cui d’un tratto cambiano il voltaggio – che in questi anni hanno annunciato il loro debutto nella politica, di solito tuffandosi dal trampolino dell’antipolitica, e che si sono poi squagliati come gelati al sole.
Corrado Passera, ad esempio, resterà a lungo inchiodato alla famosa riunione nel convento delle suore di Sion, a Monteverde, come i Tre moschettieri dietro il convento delle Carmelitane: “Preferisco fare un passo indietro”, disse, dopo che da un anno tutti lo davano leader di un nuovo schieramento politico (“non tornerò indietro a fare il banchiere” disse quando mollò Intesa Sanpaolo e Nanni Bazoli per correre nel governo tecnico). Ma giunto al dunque delle elezioni del 2013 non voleva starci più, con il suo mentore Monti, in “un ammasso di cose diverse dove la filosofia non è chiara”. Passera che aveva trionfalmente varcato il Rubicone, e diceva: “Diciotto mesi fa ho fatto un cambio di vita radicale. Rifarei tutto. In questi mesi ho avuto la conferma che ci sono molte cose che potrei realizzare, mettendo la mia esperienza al servizio del paese”. Ma ancora adesso l’ex manager McKinsey, l’ex manager debenedettiano, l’ex banchiere di sistema forse ci sta lavorando su, ha scritto un libro programmatico, predica un “progetto radicalmente riformista”. Più radicale, sperano in tanti, della sua comparsata allo Sviluppo economico, risoltasi in un lungo nulla di fatto che ha guastato, assai più delle candidature inadeguate, i rapporti con Monti.
Emma Marcegaglia era arrivata a Viale dell’Astronomia dopo Montezemolo. Di lei si ricordano photo opportunity con Susanna Camusso, la lagna continua contro il governo politico prima e tecnico poi. L’ostilità castale, quella sì, verso Sergio Marchionne che aveva deciso di uscire dal baraccone di Confindustria proprio in polemica contro la più brezneviana e stagnante gestione degli ultimi decenni, in disaccordo soprattutto con gli accordi super consociativi con i sindacati. Lei si limitò a un laconico “una scelta che non sta in piedi”. Non stava in piedi granché neanche la sua Confindustria, che iniziava a perdere pezzi. Lasciatala a Giorgio Squinzi, Marcegaglia, dopo anni spesi a occuparsi più di politica che di imprese, non ha optato per la politica; ma l’effetto annuncio di un giro di giostra vale sempre la pena, per chi tanto si era speso a criticare l’inoperosità dei governi: “Io faccio l’imprenditore e continuo a farlo, ma se andate avanti sarò con voi, vi sosterrò”, disse nel dicembre scorso fra gli applausi alla festa dell’Udc a Chianciano, dopo che Rocco Buttiglione l’aveva corteggiata come una Madonna pellegrina per settimane: “Ho sempre pensato che Marcegaglia potesse essere un ottimo presidente del Consiglio. Ha le qualità per candidarsi. Se Monti non accetterà, vedremo”.
Alberto Bombassei aveva lanciato una sfida pulita alla successione di Confindustria e ne era uscito sconfitto, su una piattaforma liberista e anticonsociativa, con il sostegno, lui veneto con azienda a Dalmine, Bergamo, degli imprenditori nordestini. Diversamente da Emma Marcegaglia era stato uno dei pochi imprenditori italiani a essersi speso per Marchionne, e al contempo uno dei pochi a sposare convinto il rigore montiano. E alla fine lui si è candidato, con Lista civica. Ora fa il vice vicario di Monti, ma dopo soli pochi mesi è anche uno dei più assenteisti in Parlamento (53 per cento delle presenze), e a chi lo conosce dice di essersi pentito della scelta di entrare in politica. Ha più in mente di delocalizzare in Thailandia, e stare a discutere in Aula o in commissione su come salvare i posti di lavoro in Italia non dev’essere proprio la sua tazza di tè. Non sarà la politica a salvare le aziende ma, con tutto il rispetto, nemmeno Bombassei a salvare la politica. Del resto il clima in cui era maturata la discesa in campo di Bombassei era quello in cui il capo degli imprenditori veneti Tomat tuonava: “Se c’è qualcuno che ha qualche idea la tiri fuori alla svelta. Se fossimo al pronto soccorso, nel vedere un paziente come lo stato italiano direbbero ‘lo stiamo perdendo’”. Padova era stata scelta dalla Confedercontribuenti come luogo simbolico da cui indirizzare alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia un appello per una “commissione d’inchiesta internazionale” per accertare l’entità del fenomeno dei suicidi dovuti alla crisi in Italia. Non solo antipolitica. In passato in Veneto ci sono stati imprenditori di rango come Massimo Calearo, sceso in campo con Walter Veltroni, o Ettore Riello sceso in campo per il Pdl. Meteore. Come un Matteo Colaninno, o tanti altri. Se vogliamo, il nord-est è un caso limite. A lungo locomotiva d’Italia, ora arrancante, “la sua unica vera occasione di costruire uno sbocco politico che avesse rilievo nazionale il Veneto l’ha persa ai tempi di Toni Bisaglia. Poi la borghesia veneta ha puntato sulla Lega-Pdl, incanalando la spinta antipolitica nel modello autonomistico. Ora c’è solo delusione, non a caso anche Monti alle elezioni qui è andato male”, commenta Cacciari. Ma non è solo questione veneta, “è tutta la borghesia del nord a non avere mai avuto un rapporto vero con la politica. In Italia gli industriali al massimo fanno il sindaco. E’ un capitalismo alveolare, velleitario ogni volta che prova a guardare oltre i suoi limiti”, spiega invece Sapelli. Il malcontento degli imprenditori del nord (altro filone tematico corrierista, del resto) che negli ultimi anni ha marciato come un sol uomo accanto al sentimento antipolitico del popolino è insomma stato il trampolino di lancio per alcune velleità che, nel migliore dei casi, non hanno intercettato la realtà. (O dobbiamo parlare delle magnifiche performance di utopie politiche a trazione liberista-elitaria come Fare per fermare il declino?).
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In mezzo a tutti questi atti mancati, la vera storia non raccontata è però un’altra. Ed è l’unica accaduta davvero. In mezzo a tutto questo, a metà della strada tra i mal di pancia anticasta corrieristi e il perpetuo scaldare i motori di una classe dirigente che andava autopromuovendosi a speranza nazionale c’era stata un’occasione unica. Era arrivato, al culmine di una crisi finanziaria devastante e di una crisi di credibilità della politica anche peggiore, Mario Monti. Il tecnico, il bocconiano, l’eurotecnocrate, l’uomo di Bilderberg e di quant’altro. L’uomo dei conti in ordine, della spending review, della serietà e della sobrietà, dell’Italia che parla inglese (e francese, e tedesco). In quattro e quattr’otto aveva fatto la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro e (quasi) dell’articolo 18 e una manovra da farci piangere tutti. E messo in cantiere alcune meraviglie che da sempre tutti i Montezemolo e gli uffici studi di Confindustria (molto meno gli uffici sindacali) sognavano. Ma poi Monti aveva detto e provato a fare anche qualcosa d’altro. Aveva messo in chiaro che “consociativismo” e “concertazione” applicate al mercato del lavoro e delle relazioni industriali erano roba vecchia. Pratiche inefficienti e dannose. Aveva spiegato che le riunioni a Palazzo Chigi con industriali e sindacati non servivano più. Ma allora, quando si era preso la briga di disturbare i manovratori, non era piaciuto più. Mesi dopo, quando ormai era candidato alle elezioni, e già appariva chiaro che la sua non sarebbe stata una cavalcata trionfale, Monti disse la sua sulla reale forza creativa e riformista delle nostre classi dirigenti: “Dispiace andare contro la nozione elegante e piacevole di salotto buono, ma pensiamo che in passato abbia qualche volta tutelato il bene esistente e consentito la sopravvivenza un po’ forzata dell’italianità di alcune aziende, impedendo la distruzione creatrice schumperteriana e non sempre facendo l’interesse di lungo periodo”. Ecco, si era tolto il sassolino. Aveva detto quel che in Italia è il vero tabù: che di fronte a una assunzione di responsabilità da parte di una élite, il salotto buono, ma anche da parte di quello cattivo – insomma Confindustria ma anche Cgil, Cisl e Uil – loro, come Bartleby, preferivano di no. Tagliare i sussidi alle imprese e tagliare la Cig a fondo perso, rivedere i contratti di lavoro in cambio di produttività e soldi e meno regole, la rappresentanza in fabbrica e la burocrazia nello stato. Tutti, giunti al bivio, preferiscono di no.
Non si candida nessuno, a questo. Perché in Italia ci si conosce tutti e non si possono fare le rivoluzioni. Ma anche perché in italia tutti tengono famiglia, soprattutto le imprese famigliari, e quelle con la spa non lo sono di meno. E allora se tieni famiglia non badi a rifare l’Italia. “Non mi candido”. Un po’ perché il velleitarismo delle classi dirigenti è la cifra sempre dominante della borghesia italiana, “sono tutti posseduti dal sogno tecnocratico, ma giunti al dunque non hanno la sensibilità globale per mettere insieme l’interesse complessivo e farlo valere: cioè fare politica – spiega Galli – ma allo stesso tempo non hanno più la stazza dei grandi condizionatori esterni della politica, come erano un tempo gli Agnelli o i Pirelli o i Mattei”. Così da una parte rimane il sogno, dall’altra non sono in grado di manovrare da fuori, “lead from behind”, per dirla con Obama. Ma al di là di un tratto psicologico un po’ provinciale, c’è anche il fatto concreto di una grande industria che non c’è più, di un settore industriale che ha perso nei decenni forza nei settori chiave, metalmeccanico, chimico, energetico. “Sono rimasti solo alcuni monopoli di fatto, e le partecipazioni statali”, ma fare la rivoluzione e guidare un cambiamento strutturale di un intero paese partendo dai poli del lusso, siano le Ferrari o le scarpe, non è proprio un’impresa a portata di mano. “Poi teniamo conto anche della forza di controllo, al limite della minaccia preventiva, che ha la magistratura in Italia”, annota Sapelli che ha affrontato il tema nel suo ultimo libro, “Chi comanda in Italia”, in cui indica proprio la magistratura come l’ultima “vertebrazione” di potere costituito rimasta in piedi in Italia, mentre poteri economici e politica si sono ormai diluiti sotto il controllo di vincoli esterni dei più vari tipi: “Ma andiamo, dopo un caso come quello dell’Ilva, dove lo trovi un imprenditore che si metta davvero in politica? Prendiamo un Diego Della Valle: ha mezzi, è coraggioso quel che basta per prendersi delle belle soddisfazioni, anche giuste, come dire a Bazoli che ormai ha fatto il suo tempo, o per comperarsi una squadra di calcio, che è una cosa che ti mette in mostra. Ma prendere il Corriere, cioè decidere di voler contare su un piano diverso, è un’altra cosa”. Tant’è che alla fine, nell’unico gioco di potere che i gironi alti dell’economia e della finanza si sono arrischiati di giocare, cioè la consueta partita a Risiko per il controllo di Via Solferino – “la riserva editoriale della Repubblica italiana”, il regno dei “padroni dell’Universo”, come l’ha magnificamente dipinto Paola Peduzzi sul Foglio qualche tempo fa – in attesa poi di vedere che farsene, di tanto potere d’influenza, il Corriere della Sera se l’è preso John Elkann. (Coi soldi di Marchionne, ma questa è un’altra storia ancora).
E così, la grande marcia alla conquista del Palazzo d’inverno da parte delle classi dirigenti pronte a ribellarsi al declino della politica in nome dell’efficienza e della tecnocrazia è finita in niente o poco. A futura memoria, andrebbero ricordati gli sforzi generosi e disinteressati che da queste pagine si sono fatti per mesi, a governo Monti regnante ma anche dopo, con l’aiuto di personaggi come il politologo Nathan Gardels, direttore della rivista New Perspectives Quarterly, e di pochi altri indomiti di una piccola coalition of the willing, per stanare e spronare, se mai si fossero affacciate sulla scena, le élite italiane degne di questo nome e vogliose di prendere in mano il bastone del comando. La solitudine da numero primo in cui è naufragato Mario Monti sta lì tutta da ammirare, e parla da sola.
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Ci sarebbe anche un ultimo capitolo, come in tutti i romanzi d’appendice. Quasi una comica finale. Giusto per raccontare come sia potuto accadere che quel popò di classe dirigente pronta per l’impresa sia poi finita intortata, dopo lunghi preparativi, al momento di sferrare il decisivo attacco elettorale (“le elezioni del 2013 saranno l’appuntamento più importante per questo paese da quelle del 1948”), da un raggiro politico degno di Totò e Peppino ordito con arti da Prima Repubblica da un cattolico oriundo vaticano di media grandezza, l’uomo di Sant’Egidio.
Andrea Riccardi aveva iniziato già un bel pezzo prima – il convegno di Todi, un antipastino volante del governo tecnico in salsa neo democristiana, è dell’ottobre 2011, ma il lavorìo è di almeno un anno prima – a tessere la tela di un ipotetico neo centrismo interclassista in cui far convivere come in un orto botanico quattro specie autoctone completamente diverse: i padroni del vapore, la tecnocrazia laica, l’anima insufflata direttamente dall’alto dei valori ri-negoziabili e il fiato pesante della massa lavoratrice, ovvero le truppe cammellate di Bonanni, della Cisl, del Mcl e del movimentismo e associazionismo cattolico. Il quale movimentismo-associazionismo, ad ogni buon conto: a) non ha mai avuto i voti in autonomia b) se anche li ha avuti in passato, non li ha più da un pezzo c) se pure li avesse avuti a questo giro, non era particolarmente interessato a depositarli nel fienile di Sant’Egidio e, peggio che peggio, di Pier Ferdinando Casini. Così che il famoso mondo cattolico man mano si è sfilato dall’operazione. Siccome poi nella terra desolata del cattolicesimo politico italiano sono decenni che piove sempre sul bagnato, né Andrea Riccardi né Pier Ferdinando Casini potevano immaginare che, nel breve intervallo tra le elezioni e la formazione dell’ipotetico governo della Terza Repubblica, sulla Loggia delle benedizioni sarebbe apparso un Papa che, a occhio e croce, non è particolarmente interessato alle coltivazioni in vitro di progetti politici neo centristi. Un Papa che dà buca ai concerti di musica classica e, se proprio ha voglia di masse popolari, va a cercarsele da solo sul molo di Lampedusa. Per dirla con Gino Bartali, buon terziario francescano: “L’è tutto da rifare”.
Come abbiano fatto serissimi esponenti dell’élite economico-finanziaria come Mario Monti e lo stesso LCdM, scortato da Andrea Romano e da altri luminari del riformismo, a finire impantanati nella palude vaticana allagata da Andrea Riccardi, non è ancora chiaro. Ma fa decisamente molto ridere. Come stia finendo adesso, cioè a stracci, tra i virtuosi di Scelta civica e i vecchi marpioni dell’Udc che avevano scientemente tentato di vampirizzare, onde rifocillarsi, il patrimonio di credibilità vera o presunta dell’Italia tecnica e terzista, lo stiamo vedendo tutti. Questo giusto per dire che, se ci sarà mai una nuova classe dirigente interclassista capace di tenere insieme quei mondi così diversi e lontani, sarà da cercare a un altro indirizzo.
Il politologo Carlo Carboni ha scritto tempo fa un libro (Laterza) per illustrare, a fronte del disastro politico e di rappresentanza italiano, l’esistenza anche di un “settore dell’élite economica a cui si aggiungono settori di borghesia intellettuale, leader del mondo dell’opinione, ma anche una vasta area di cittadini attivi, competenti e acculturati, che si interessano alla vita pubblica”. Chissà se per un eccesso di prudenza o per una premonizione, il libro l’ha intitolato “La società cinica”. Che è un bel modo di descrivere le cose. Molto meglio dell’abusata “casta”. Ditelo a Stella e Rizzo, potrebbero farci una nuova campagna.


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