Il re dei maschi

Pietrangelo Buttafuoco

Pensate: proprio nel giorno in cui Silvio Berlusconi è condannato a sette anni per concussione e prostituzione minorile, Gigi Rizzi, a Saint-Tropez – giusto nel luogo che l’aveva eletto a leggenda – muore. Più che una coincidenza, un segno. Muore l’uomo che ha avuto Brigitte Bardot, non una Ruby Rubacuori, e se ne va mentre festeggia i suoi sessantanove anni. Una nemesi più che un dettaglio. Si spegne dunque il campione dei maschi – il playboy – mentre il tribunale di Milano, al più mozartiano degli uomini politici, certifica un destino, questo: “Nessuno più tra gli statisti nel mondo” – sono parole sue – “accetterà di farsi una foto con me”.

    Pensate: proprio nel giorno in cui Silvio Berlusconi è condannato a sette anni per concussione e prostituzione minorile, Gigi Rizzi, a Saint-Tropez – giusto nel luogo che l’aveva eletto a leggenda – muore.
    Più che una coincidenza, un segno. Muore l’uomo che ha avuto Brigitte Bardot, non una Ruby Rubacuori, e se ne va mentre festeggia i suoi sessantanove anni.
    Una nemesi più che un dettaglio.
    Si spegne dunque il campione dei maschi – il playboy – mentre il tribunale di Milano, al più mozartiano degli uomini politici, certifica un destino, questo: “Nessuno più tra gli statisti nel mondo” – sono parole sue – “accetterà di farsi una foto con me”.
    Gigi è padre mentre Silvio è un figlio, così si potrebbe raccontare la storia degli italiani innamorati delle donne perché poi i vecchi fanno sempre meglio dei loro discepoli. Abitano la leggenda i padri, non la cronaca. E se pure l’uomo che ebbe BB è perfino più giovane del Cav., questi non può che arretrare nella condizione di minore rispetto a quello perché, gerarchicamente, fa testo la conquista. Ebbe anche Veruschka, Gigi Rizzi. Altro che le Olgettine. Peggio per chi non se la ricorda. Fu anche la donna di Carmelo Bene.
    Silvio è la modernità mentre Rizzi – mettiamola così – è il modernariato di un codice estetico dove lo stile del perdigiorno si fa romanzo, epica addirittura, infine resa allo spirito del tempo come quando poi, da anziano reduce, Gigi Rizzi viene reclutato in un reality e sembra quello venuto dalle campagne in visita ai parenti diventati troppo in fretta ricchi e famosi.
    Gigi è dunque padre perché fu mastro. E maschio. E Silvio gli resta figlio perché somiglia a tutti gli italiani che hanno perso l’appuntamento con la femmina.

    Come la tivù s’è mangiata la politica evirandola di carisma e di ogni principio d’ordine, così l’estetica del “Drive In” ha fatto strame del latin lover polverizzando tutto un parco monumentale fatto di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Carmelo Bene. Una sterpaglia d’ometti la cui vitalità, nella metà d’Italia impresentabile, s’è misurata nella bava da bar che non smuove il cuore delle donne, piuttosto consuma la risata nella comitiva del Sanbittér e dare così il suo imprinting a queste giornate di commedia.
    Tutto ciò mentre l’altra metà civile, quella che si definisce adulta nella sensibilità, emancipata dal machismo, dopo gli irrimediabili maschi dell’album nazionale – dove c’erano, oltre ai mattatori, anche gli Amedeo Nazzari, i Renato Salvatori e i Walter Chiari – all’immaginario delle donne oggi offre i modelli di un Fabio Volo, per esempio, di un Massimo Gramellini o di un Luca Argentero giusto a voler spingersi in un ambito più ardito che però certifica la propria scorza maschia in un cortocircuito di aggiustamento d’origine. E’, infatti, questi, una sorta di Isabella Ferrari al maschile. E così come quella s’è redenta del suo essere stata una minorenne del ninfeo di “Non è la Rai”, Argentero – ninfo battezzato nientemeno dallo stucchevole Ozpetek – si lascia alle spalle “Il grande fratello” perché infine, nel berlusconismo, come in Hegel, c’è una destra e c’è una sinistra, sono però intrecciate e fanno radice comune nell’equivoco assai noto del “corpo delle donne”, variando però di target, non di business.
    Non più la femmina per i fischi maschi, quindi, ma un’idea di donnetta la cui unica metafora è la trappola, quella che rovina irrimediabilmente, fermo restando che sulla questione in sé – essendo la donnetta pericolosa come neppure la più fatale delle femmine – nessuno può ergersi a censore: a tutti, diocenescampi, può capitare.
    Non capitò a Gigi Rizzi perché fu maschio e mastro e l’elogio del maschio – a questo punto – coincide con l’elogio del padre.

    I padri non ci sono più perché non ci sono i maschi, quelli capaci di fare una storia d’amore con un solo sguardo; quelli saputi di Cointreau e di Marlboro; quelli che facevano felici le figlie con un sorriso aprendo con loro al tavolo una mano di ramino; quelli che sapevano cosa fosse mezzanotte per aprire i balconi alla notte e convocare i cani, guardiani di quel mondo maschio che, con un Beretta sulle spalle – questo sapevano fare i padri – è vigore, camicia slacciata e polso fermo.
    L’ultimo ciao sussurrato da un mio amico, Sergio Nuti, a sua figlia, l’ultimo suo ciao prima di morire, è stato: “Amore mio”. E questi padri, così maschi – uomini attraversati da tante vite, come quelle Mercedes ad ali di gabbiano – sono quelli che poi conoscono la dolcezza del tempo, come il lasciarsi invecchiare e brillare di luce innamorata. E così morire.
    Più che un segno, un contrappasso. Da Saint-Tropez alla Tavernetta, questa la parabola. Un mondo di seduzione ed eleganza cede il passo al travestimento preso in prestito da Lino Banfi. Infermiere, poliziotte, letterine mai partite prendono il sopravvento su donne che sono il mito. E il mito danza a piedi scalzi sulla sabbia della Costa Azzurra, il mito cerca il cielo della notte e certamente no la palla colorata della discoteca, peggio che mai montata sul soffitto della sala hobby di una villa in Brianza adibita a discoteca dove ballare la lap dance. Su tacco dodici. E il mito, ovvio, sa essere troia. Mai puttanella.

    Più che un contrappasso, la disfatta. I padri hanno armadi che custodiscono i sogni. E’ “l’odore di brillantina”. I figli, noi figli, invece abbiamo in tasca lo squallore di una vita presa in prestito. Disonoriamo il nome con la bugia beffarda del simulacro del sentimento: l’automatismo di mangiare carne, comandare carne e fottere carne. E noi che siamo figli non riusciamo nel mestiere di padre perché non siamo maschi e l’unico amore in cui possiamo incappare è solo un intercalare. E’ “amoore”. Quello tipico dei trans sudamericani. E c’è la canzone adatta: “Uomini innocenti dagli istinti un po’ bestiali, cercano l’amore dentro i parchi e lungo i viali”.
    Il padre è tale perché uomo di altri tempi. Noi, siamo così, perché siamo di questi e se il ragionamento è più storicista che ontologico il motivo è nel tempo tutto nostro della tristezza erotica, mesta fino ad arrivare alla parodia. Forse nel Bunga-Bunga si sarà fatto un trenino sulle note di Brigitte Bardot Bardò, tutto è preludio, è vero, ma l’epoca arcitaliana sta scivolando nel sabba. E gli italiani innamorati delle donne, manca poco, troveranno la loro Regina del Sabba. Manca poco, appunto. Solo che mancherà il maschio.

    Una favola maschia, dunque, quella di Gigi Rizzi. Bellissime sono state le pagine di Massimo Fini e quelle di Giangiacomo Schiavi, i suoi amici. Perfetto il ritratto che ne ha fatto Giampiero Mughini, coincide con l’affresco di un’epoca. Struggente, infine, il ricordo di Tomaso Staiti di Cuddia e proprio alla festa degli ottanta anni di Tom, a Milano, vidi Gigi Rizzi e ammirai in lui, la piega del sorriso, e perciò il suo stile.
    Una storiaccia perfino ingiusta, al contrario, quella del Cavaliere. E’ braccato nel suo divertimento dal moralismo, giusto lui che se le vedeva arrivare senza neppure allettarle tutte quelle tapine. Giusto lui che a differenza di altri presidenti del Consiglio il cui relax, forte di omertà, si risolveva nel dragare a forza i soldatini nelle caserme o i biondini di redazione, giusto lui che è bengodi e giocoliere di suo, irresistibile miele per tutta la ricotta di buchetti tonici, invece che fermato dalla forza pubblica nel suo più imperdonabile dei delitti – l’aver assecondato l’Italia – è inchiodato al suo vizio. Con la certezza, sono state parole sue, di non trovare più uno statista del mondo disposto a concedere uno scatto accanto a lui.
    Averla fatta ancora più brutta di cosmesi e sovversione questa Italia, non più maschia, questa è la colpa del Cav. sotto il cui ombrello troviamo ancora riparo tutti, amici e nemici, quando alla fine della fiera tutto un ventennio di attese si risolve nel nulla di fatto. Ma di certo sbaglio io a rischiare di diventare rispettabile a furia d’inorridire adesso che dal Bunga-Bunga si finisce dritti al Sabba dell’Arcitalia e però quella favola maschia, dopo tanto priapismo cavato fuori dal buco della serratura, consola non poco la nostalgia perché, diciamolo, ci ammaestra.
    Che favola quella del latin lover. Straordinariamente malinconica. Dove basta un sorriso. A volte sembra di vederla ancora con le mani a raccogliersi quello sproposito messo al fondo della sua schiena. E’ BB e lui è Gigi Rizzi. Lei prepara un’insalata, lui ha solo la sua faccia per prendersi quel frrrrr che s’alza dallo sguardo di lei.
    Che leggenda in un ragazzo che si fa bocciare a scuola, trascorre le ore più piccole a giocare a chemin de fer e poi trovar mattina, ogni giorno, con una ragazza diversa nel letto.
    Che italiano infine, questo italiano che tornava a festeggiare i suoi sessantanove anni nel luogo che lo aveva reso famoso, soprattutto a se stesso. Eroe de les italiens, piantatore di bandiere in terreni francesi, insieme agli amici Beppe Piroddi, Franco Rapetti, Rodolfo Parisi e Gianfranco Piacentini passava le notti a sedurre finalmente le femmine d’oltralpe. Rizzi non era depilato ed era riuscito a conquistare Brigitte Bardot e perfino la copertina di Newsweek. “Tra la bolgia infernale dell’Esquinade, le interminabili notti tra l’‘Escale’ e il ‘Papagayo’, il ventiquattrenne Rizzi, si sentiva moschettiere in terra di Francia”.
    Di quelle estati infinite della cui memoria non si scrollerà mai, raccontava: “Bevevo micidiali Cointreau con Johnny Halliday e giocavo a calciobalilla con Gilbert Becaud nei pomeriggi di place Delice, poi rapivo qualche amica sulla spiaggia di Pampelonne e aspettavo il tramonto come un bambino”.
    Ecco, era anche un poeta, ma episodico, Rizzi. L’incontro con BB fu di piena gioventù smaniosa. Di quelle cose tanto frivole che diventano così serie da macerarti la testa per tutta la vita. Lui a piedi nudi sulla pista da ballo, proprio a Saint-Tropez dove se n’è andato. Entra lei, che non è una donna ma “un extraterrestre di stratosferica bellezza”.

    Era proprio innamorato di quell’estate, Gigi Rizzi. Un “fidanzato della notte” perfetto per accoppiarsi con BB, che però non ebbe il fascino insuperato di un Porfirio Rubirosa, il diplomatico e pilota dominicano che si schiantò in Ferrari al Bois de Boulogne, all’alba, dopo l’ultima festa e cinquantasei anni di scialo e femmine.
    Rizzi, comunque, da uomo villoso e d’altri tempi qual era divenne leggenda. Piacentino, figlio di un imprenditore dei laterizi miliardario (in famiglia si frequentavano gli Agnelli), prende presto la piega fitzgeraldiana dei festoni a base di tutto. Raffaele Selvatico, suo grande amico tra Milano e Saint-Tropez, è rapidissimo nel ricordo. Nato qualche anno dopo Rizzi, era la mascotte del gruppo e a diciannove anni vestiva dal sarto, calzava solo scarpe su misura, lavorava in Borsa per il commendatore Lomazzi (che gestiva i soldi della Dc) e finiva a pranzo con Enrico Cuccia e il ministro Tupini. Rizzi arriva a Milano nel ’66, si scrive pure all’università e forse frequenta finanche un giorno di lezione. Trova subito un mentore, Cesare Spadaccini, marito di Sylvia Casablancas, che lo introduce negli ambienti giusti. L’anno dopo apre insieme a dei soci amici quello che sarà il primo locale ad accogliere il jet set, dopo il Piccolo Bar di Rino Scrigna. Si trattava del Number One. Le mura di via dell’Annunciata erano di proprietà di Paride Acceti, l’unico socialista – dicono a Milano – “che non rubava perchè era già ricco di famiglia”. Il locale, frequentato perfino (ma un poco come pesce fuor d’acqua) da Bettino Craxi e dal suo segretario Cornelio Brandini, dura fino a quando Joe Adonis (soprannome del criminale Giuseppe Antonio Doto) non minaccia Rizzi d’estorsione. Si trasferiscono tutti a Roma, Rizzi e gli amici soci, tra cui il seduttore Paolo Vassallo, e aprono nella capitale un nuovo Number One. Ma la capitale non è Milano, è un’altra cosa. Finisce pure questo locale per via “di certa cocaina nascosta nei bagni”.
    Rizzi che aveva avuto Veruschka, Julie Christie, Jacqueline Bisset, Fiona Lewis, non riuscì mai a liberarsi di BB e sarà autore di un’autobiografia, “Io, BB e l’altro ’68”. Tuttavia se il ’68 di Gigi Rizzi si trovava senza reggiseno fu solo perché lui amava toglierlo alle donne. Era un anno senza politica, esclusivamente vitalistico, anarchico e non ideologico.
    Altro che maggio francese, Rizzi frequentava le bische accompagnato dal gangster Franchino Restelli e quindi il suo era un ’68 perfettamente italiano, però di prima che l’Italia s’impaludasse troppo nel “vorrei portare il mio contributo al dibattito”. Insomma, se quello di Rizzi proprio doveva essere un ”68, era “l’altro”, appunto, quello di chi non fu mai sessantottino né tantomeno post sessantottino.
    Dopo, cioè oggi, è successo che alle donne italiane, quando non guardano la tivù, è venuto a genio il moralismo. E’ così e il mercato lo conferma se uomini lontani dal fascino della vita vissuta, i bonaccioni come Fabio Volo, i fustigatori come Marco Travaglio, i buoni come il pane tipo Massimo Gramellini, si trascinano dietro eserciti di ragazze e di signore tutte perse per la loro estetica non propriamente canonica secondo eros a meno che la severità di Travaglio, l’algida compostezza della sua occhiata, non sia il sottotesto del non detto arrapante di dominio e rigore. E se l’essere semplicemente “famosi” forse è di per sé afrodisiaco è comunque un fatto che Volo trascina file interminabili di ammiratrici più di quanto non possa scatenarne un Alessandro Preziosi, un Riccardo Scamarcio o l’altro, bellissimo, Gassman, ovvero Alessandro. Ed è un fatto che Gramellini impera nell’immaginario in virtù della sua conclamata virtù.

    Mai un Porfirio Rubirosa avrebbe perso tempo sui consigli da dare ai bravi giovani ma proprio bravi, per vivere meglio coi sogni, affrontare la vita con coraggio piccino e avere speranza da una prospettiva nerissima attraverso libri con l’azzurro cielo, il palloncino rosso e la manina di una bambina in copertina. Il playboy, fosse Sachs, Rizzi o Rubirosa, era ancora l’uomo che giocava a biliardo, con la sigaretta in bocca e il whisky maschio di Gigi Proietti sulla sponda del tavolo, tirava a pugni e certamente supercazzoleggiava con gli amici suoi. Così come avevano stravissuto Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Mimmo Modugno, Franco Califano, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni. Tutti diversi, ma dovevano nascondere dolcezze che facevano tremare le carni. La carambola, il poker, le carte, i circoli, i bar di ritrovo, quell’essere ludici ma al tempo stesso solidi professionisti di un mondo che si andava costruendo.

    Uomini che portavano sicurezza istantanea e futuro. Quei maschi erano in veste epica i nostri padri, che sono stati gli ultimi a stare meglio di chi li aveva preceduti. Sarà questo. Infatti, la facies molliccia di un Fabio Volo è quella di chi non si aspetta niente di meglio del peggio che ormai sta vivendo. Altro che sventatezza, c’è solo quel tono malinconico e sfigato che entra nelle case e le colma di tristezza fino alla puntata successiva. Un po’ di barba a supplire il testosterone, un po’ di pancia raggiunta l’età di vitelloni sposati anche senza esserlo, nessun figlio tantomeno illegittimo, molto divano nel fine settimana e molte copertine.

    L’approdo poi, il porto della salute mediatica, è quello di diventare icona gay. Molta noia. Al biciclettone manca proprio la voglia di vivere maschia e la gioia. O per dire, un Fabrizio Gifuni che da dieci anni – complice uno dei due Bertolucci minor – paveseggia, pasolineggia, carloemiliogaddeggia, fa antibiografie della nazione a tanto al chilo, cose che quei tre grandi non avrebbero fatto né pensato neanche per scherzo (o forse per scherzo sì). Magari si ammazzavano all’hotel Roma di Torino o si facevano ammazzare all’Idroscalo di Ostia, erano tristissimi ma restavano ironici e sorridevano assai, non recuperavano disgrazie altrui e parole grevi per ammassare pubblico. Ma Gifuni, per dire, piace alle donne. Ed ecco che il maschio che si consuma di realtà non c’è più e chi resta non ha orrore di se stesso. Luca Argentero, di cui ho già detto, è appunto la versione femminile di Isabella Ferrari, tutti e due lanciatissimi esponenti radical chic del cinema multigender. Entrambi personaggi confusi di questi tempi che devono essere per forza sfocati, svampiti, senza polso, tra Almodóvar e Ozpetek. Argentero, comunque, piace molto alle donne. Parla della sua monogamia come di una perversione e, quindi, come di cosa attraente. Come di condotta da perseguire. Marco Mengoni, col ciuffo cresta, è il più giovane dei biciclettoni, classe ’88, e segna dunque la totale dipartita del maschio dal paesaggio italiano. Basta cercare le sue foto e le espressioni con cui ci tiene tanto ad apparire umano, autentico e roba del genere. Col turbante. L’uomo che piace oggi è dunque uno che sta alla larga da buttane, cavalli da corsa e cani da caccia.

    Ci sarebbe Tony Servillo che fa lo scrittore Jep Gambardella nel film “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, un titolo subdolo che ti costringe a citare la bellezza dove non la troverai mai. Servillo è una dimenticabile copia di tutti i Marcello Mastroianni felliniani, un riuscito clone di Carlo Croccolo ne “La Grande Bellezza”, ma con punte e cenni di femminiello, giusto nella scena con la nana, che racconta involontariamente lo sfaldamento del maschio. Jep non poteva essere maschio, anche se va a letto con molte donne, perché si muove ormai ben oltre la concezione duale dei sessi, come quando Gmail all’atto dell’iscrizione ti chiede: uomo, donna, altro. Se Jep fosse stato maschio, il pubblico di biciclettoni e compagne non avrebbe più capito. La crisi che vive Gambardella è quella di lenta trasformazione in biciclettone. Ci sarebbe pure una colonna sonora degli anni di Rizzi, la cantano Fred Buscaglione e Paolo Conte (che apre ancora la portiera alle signore dopo averle salutate con il baciamano). Quelle milonghe o quei Max che iniziano a ritmo controllato e con il passare dei minuti si sfogliano. Oggi ci lasciano senza peso e con il silenzio rumoroso. Nel frattempo, va da sé, che in tavernetta, sotto l’occhio della palla di vetro della discoteca, si fa trenino al suono di Brigitte Bardot-Bardò.

    • Pietrangelo Buttafuoco
    • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.