Parla Roberto Vitale

Frustare la borghesia e chiudere Confindustria. O addio ripresa in Italia

Marco Valerio Lo Prete

A forza di commentare i “piccoli passi” compiuti dal governo in politica economica, rischiamo di arrivare – quasi senza accorgercene – davanti al “redde rationem a cui i mercati prima o poi richiameranno l’Italia”. Per questo Guido Roberto Vitale, banchiere d’affari con un’esperienza trentennale, presidente della società di consulenza finanziaria Vitale e Associati, in passato anche presidente di Rcs Mediagroup, è un sostenitore di “cure choc” per il paese. In una conversazione con il Foglio, Vitale legge le vicende più attuali – dalla vita della grande coalizione alla battaglia sul Corriere della Sera, dai rapporti di forza in Europa alla lamentatio continua di Confindustria – come tante sfaccettature di una “crisi di capitali e di cultura”, di “mancata leadership politica” e di scarso “ego e volontà della borghesia”.

    A forza di commentare i “piccoli passi” compiuti dal governo in politica economica, rischiamo di arrivare – quasi senza accorgercene – davanti al “redde rationem a cui i mercati prima o poi richiameranno l’Italia”. Per questo Guido Roberto Vitale, banchiere d’affari con un’esperienza trentennale, presidente della società di consulenza finanziaria Vitale e Associati, in passato anche presidente di Rcs Mediagroup, è un sostenitore di “cure choc” per il paese. In una conversazione con il Foglio, Vitale legge le vicende più attuali – dalla vita della grande coalizione alla battaglia sul Corriere della Sera, dai rapporti di forza in Europa alla lamentatio continua di Confindustria – come tante sfaccettature di una “crisi di capitali e di cultura”, di “mancata leadership politica” e di scarso “ego e volontà della borghesia”.

    Il ragionamento di Vitale, che oggi ha partecipazioni anche nell’editore Chiarelettere e nel giornale online Linkiesta.it, parte dallo stato della cosa pubblica: “Un’azienda entra in crisi perché i suoi prodotti sono obsoleti o per degli squilibri patrimoniali. A quel punto, si reagisce operando su costi e ricavi, così da rimborsare debiti eccedenti. Ma si ragiona in termini drastici, cioè di riduzione di almeno il 10 per cento delle poste di bilancio. Lo stato italiano dovrebbe fare altrettanto, partire da una riduzione della spesa pubblica di 8-10 punti percentuali”. Su uscite totali di circa 800 miliardi di euro l’anno, non pare una missione impossibile, ma difficilissima per un sistema politico che non trova coperture di 4-8 miliardi di euro per il rinvio di Iva e Imu: “A differenza di quanto avvenuto in Germania in anni passati, la nostra per ora pare una grande coalizione tra debolezze che si sostengono a vicenda e finiscono per sommarsi”. Il Pd non schioda da una difesa classica dei “problemi occupazionali”, il Pdl dei “problemi della rendita”. Il raggio d’azione dell’esecutivo così si restringe troppo: “La forza politica necessaria a uscire dall’impasse nasce dalla credibilità, anche dal protagonismo di persone nuove”, dice Vitale, classe 1937 e non certo ascrivibile tra i rottamatori scalpitanti. Facile a dirsi ma anche a farsi, secondo il banchiere: “Con un po’ d’immaginazione e competenza, si possono aggredire anche le principali voci di spesa come quella della sanità. Come è possibile che il settore privato sostenga, per acquistare beni strumentali e di consumo, prezzi infinitamente più bassi del settore pubblico? Glielo dico io, raccontando l’esempio di un’azienda sanitaria lombarda – di cui non è necessario fare il nome – che ha riaggiustato il bilancio semplicemente chiedendo ai fornitori di poter pagare il 30 per cento in meno le stesse quantità di merci”.

    “Tutti i fornitori, tranne due, hanno accettato l’operazione di contenimento dei costi. Se avessimo direttori generali delle Asl responsabili e obbligati a rispettare le decisioni dell’esecutivo, cosa impedisce al governo e alle regioni di ridurre così del 5-10 per cento il costo della sanità?”. Poi ci sarebbe un’altra strada, più drastica: “Il blocco della spesa pubblica e dell’indebitamento a una certa data, con eccezioni possibili solo per fare fronte al servizio del debito esistente. E’ possibile che oggi, con una deflazione in corso, nei conti dello stato teniamo ancora conto di un aumento dei prezzi fisso per calcolare la spesa pubblica?”. Solo risparmi di spesa consistenti, infatti, tornerebbero utili a “ridurre il peso contributivo del lavoro, altro che politica dei piccoli passi o del cacciavite”.

    Vitale però non è un teorico dell’austerity, sottolinea che nuovo gettito fiscale nascerebbe anche da nuovi investimenti: “Un rigassificatore vale 500 milioni di euro l’anno, cioè 100 milioni di Iva in più. Uno store Ikea vale 60 milioni l’anno, e circa la metà andrebbe in stipendi, con maggiore Irpef da incassare. Questi sono progetti bloccati soltanto da ragioni ideologiche”. Poi ci sono progetti che richiederebbero maggiori “immaginazione e visione” da parte della classe politica: “L’Eni in Mozambico pianifica investimenti per 100 miliardi. L’Italia dev’essere in grado di difendere questa’area, anche da interessi concorrenti come quelli cinesi. Investire nell’allestimento di una squadra navale ad hoc tornerebbe utile, oltre a creare lavoro. Dire ciò, però, non è abbastanza politically correct”. Per carità, tutto è possibile dopo forti risparmi di spesa su altri fronti, ma intanto qui e ora ci sono i vincoli europei: “Siamo onesti. Abbiamo le mani legate fino a un certo punto. Non soltanto perché dobbiamo esercitare meglio la nostra forza negoziale con i partner, contrattando un margine per investimenti produttivi al di là del tetto del 3 per cento del rapporto deficit/pil, ma anche perché il 90 per cento dei nostri problemi è di origine domestica”.

    Vitale dal 1997 al 2001 è stato presidente di Lazard Italia, cioè ai vertici di una decisiva camera di compensazione del capitalismo franco-italiano, e in generale ha seguito da vicino innumerevoli partite finanziarie. Se il 90 per cento dei nostri problemi di oggi è di origine domestica, la colpa non è soltanto della politica, come sembrerebbe dalle sempre più rumorose prese di posizione della Confindustria: “Gli industriali infatti dovrebbero essere classe dirigente del paese, cioè esprimere anche forze politiche, invece che succhiare il succhiabile”. Dove il “succhiabile” sono finanziamenti pubblici e favori corporativi che piacciono a tanti, “tranne che a pochissimi”. Al punto che per Vitale, visto che “dalla Confindustria non è mai arrivato del modernismo, la Confindustria andrebbe chiusa. Sarebbe sufficiente avere al suo posto un centro studi di 50 persone, e basta. Gli imprenditori diventino classe dirigente, individualmente”. Anche il sistema finanziario italiano, però, è stato un fattore di freno della crescita, tra penalizzazione dell’azionariato diffuso, esaltazione del controllo famigliare delle aziende, patti di sindacato e scatole cinesi: “Non possiamo dare la colpa del mancato sviluppo di oggi all’occupazione dei Borboni e degli austriaci”. Suona come un’autodifesa: “No. E’ indubbio che i fattori culturali abbiano pesato e molto. Fino alla fine degli anni 70 i due partiti principali erano Dc e Pci. Per il primo il profitto era un peccato, per il secondo un furto. Il messaggio implicito per chi faceva soldi era ‘arricchitevi ma non fatelo vedere’”. Così si spiega l’accondiscendenza con i patrimoni fuori bilancio e le aziende sempre carenti sul fronte degli investimenti. “Oggi però questo non conta più. Ci sono fior di imprenditori arrivati a un livello di ricchezza tale da poter esprimersi con tranquillità e seguire appunto la propria coscienza civile”. Pensa a Diego Della Valle, patron di Tod’s, per esempio? “Anche”. A dire il vero sembra che Della Valle abbia appena dovuto abbandonare l’idea di scalare il Corriere di fronte a un patto di sindacato che ancora controlla il quotidiano di Via Solferino e alla contromossa di Fiat di ieri, salita dal 10,5 al 20 per cento del capitale: “La crisi del Corriere è una crisi di capitali e una crisi di cultura – dice l’ex presidente di Rcs – Il patto di sindacato ha sempre pensato di poter controllare il giornale con pochi soldi. Gli errori di gestione compiuti, assieme alla crisi globale, hanno lasciato però in braghe di tela i membri dello stesso patto. E’ finita l’epoca delle nozze con i fichi secchi. Certo, nel patto ci sono ancora dei resistenti. Adesso però, il fatto che Fiat sia al 20 per cento può voler dire che il Lingotto ha un progetto che va oltre Rcs”. Magari di fusione con un altro quotidiano. Insomma, il settore della finanza ha fatto passi in avanti rispetto a quegli intrecci paralizzanti che furono, sicuramente più dei colleghi imprenditori, ma non ancora abbastanza: “Mediobanca ha preso una decisione storica annunciando l’uscita dalle partecipazioni nel cosiddetto ‘salotto buono’. Ma lo ha fatto con dieci anni di ritardo, sulla scorta di una crisi gravissima. Anche il Corriere ha iniziato a muoversi soltanto quando era vicino al capolinea”. C’è da sperare che il paese nel complesso non si muova con la stessa lentezza.