La vittima non c'è, il colpevole sì

Mario Sechi

Calma e gesso. E’ la regola dei giocatori di biliardo. Berlusconi deve tenerla bene a mente in queste ore. E’ un giudizio di primo grado e la sua partita con la magistratura si disputa sulla lunga durata, non sullo sprint di una procura che voleva arrivare in fretta a questo verdetto per esibire il trofeo e dare alle ipocrite coscienze della buoncostume regressista un capro espiatorio perfetto. Non scomoderò René Girard per spiegare il meccanismo psico-collettivo che da vent’anni cerca di fare di Berlusconi una vittima predestinata né proverò a citare tomi di teoria generale del diritto per ribadire il rovesciamento costituzionale all’italiana.

    Calma e gesso. E’ la regola dei giocatori di biliardo. Berlusconi deve tenerla bene a mente in queste ore. E’ un giudizio di primo grado e la sua partita con la magistratura si disputa sulla lunga durata, non sullo sprint di una procura che voleva arrivare in fretta a questo verdetto per esibire il trofeo e dare alle ipocrite coscienze della buoncostume regressista un capro espiatorio perfetto. Non scomoderò René Girard per spiegare il meccanismo psico-collettivo che da vent’anni cerca di fare di Berlusconi una vittima predestinata né proverò a citare tomi di teoria generale del diritto per ribadire il rovesciamento costituzionale all’italiana. Bastava ascoltare la requisitoria dell’accusa per comprendere che non serve a niente metterla sul piano giuridico. Quando un procuratore riduce il suo impianto accusatorio a un trattato di telefonia mobile, analisi dello spettro elettromagnetico e moralismo da mutandoni, il tentativo di arrivare alla verità processuale con lo strumento della legge è una chimera. L’esito è una ciclopica stramberia processuale: non c’è una vittima, ma c’è un colpevole.
    All’inizio della vicenda Ruby, sulla prima pagina del Tempo feci questo titolo d’apertura: “Cercano U’ Pilu”. Era un calembour ispirato al linguaggio surreale del personaggio di Cetto La Qualunque, interpretato da Antonio Albanese. Mi appariva adeguato (oggi ancor di più) al clima da caccia alla sottana, alla spiata dal buco della serratura, perché fin dalle prime battute l’inchiesta aveva preso una stramba e inedita direzione, degna di un B-movie, un canovaccio da buoncostume in una commedia all’italiana. Con una differenza rispetto ai registi di quella stagione cinematografara: gli sceneggiatori della procura di Milano si prendevano sul serio.
    Si sono presi tutti tanto sul serio che un collegio di sole donne (altro elemento rilevante ai fini dello squilibrato giudizio, della sua qualità e quantità) ha sentenziato come da copione: colpevole. Più di quanto avesse chiesto la pubblica accusa. Non poteva andare in maniera diversa: quel sinedrio doveva per forza mostrarsi arcisevero e non eccentrico rispetto alla vulgata del presunto colpevole. Per terra ci sono i cocci di una magistratura prigioniera del correntismo a senso unico e di un autogoverno a uso della casta. Il giudizio non si forma in aula, ma nella piazza elettronica. E la prova non è un elemento cardine del dibattimento, ma un optional nel corredo sacrificale dell’accusa.
    Così l’inchiesta sul burlesque ha un epilogo grotesque: proprio nel momento in cui si discute di pacificazione e si vorrebbe da più parti un sereno giudizio non solo per il cittadino Berlusconi ma anche e soprattutto per un ventennio di storia italiana in cui nessuno può scagliare la prima pietra, viene scaricato sulla scena un macigno che avrà esattamente l’effetto contrario. Quella che poteva essere una ordinata transizione verso una nuova stagione politica, rischia di riaccendere il fuoco del conflitto, il guelfighibellinismo che anima lo spirito italiano.
    E ora? Un colpo in buca non è la fine della partita. Calma e gesso.