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Il Pd, la separazione tra premiership e leadership
Per l’Spd le cose vanno male. Il distacco con la Cdu viaggia, nei sondaggi, intorno ai 15 punti e la signora Merkel potrebbe superare quota 40 per cento, cosa che non accade dalla vittoria del 1998 di Schröder. In questi mesi l’Spd ha impiegato tutte le sue energie per recuperare. Più di recente, ha accelerato, contro i socialisti francesi e in accordo coi laburisti inglesi, per smantellare la fatiscente Internazionale socialista. Otto mesi fa aveva poi scelto di non candidare il leader del partito, Sigmar Gabriel, alla cancelleria, ma di puntare per la premiership sul più centrista e simpatico Peer Steinbrück. Niente da fare. Il distacco con la Cdu è rimasto inalterato.
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di Antonio Funiciello
Per l’Spd le cose vanno male. Il distacco con la Cdu viaggia, nei sondaggi, intorno ai 15 punti e la signora Merkel potrebbe superare quota 40 per cento, cosa che non accade dalla vittoria del 1998 di Schröder. In questi mesi l’Spd ha impiegato tutte le sue energie per recuperare. Più di recente, ha accelerato, contro i socialisti francesi e in accordo coi laburisti inglesi, per smantellare la fatiscente Internazionale socialista. Otto mesi fa aveva poi scelto di non candidare il leader del partito, Sigmar Gabriel, alla cancelleria, ma di puntare per la premiership sul più centrista e simpatico Peer Steinbrück. Niente da fare. Il distacco con la Cdu è rimasto inalterato.
Anche in passato l’Spd ha provato a giocare la carta della separazione tra leadership e premiership. Ai tempi gloriosi della vittoria del ’98 della Neue Mitte di Schröder, il capo del partito era un altro: il sinistro Oskar Lafontaine. Quella volta il giochino funzionò: dopo sedici anni di Kohl, l’Spd riuscì a riconquistare il potere. Ma non aver risolto prima delle elezioni la faccenda (cruciale) su chi fosse, a conti fatti, il capo tra Schröder e Lafontaine, creò non pochi problemi al neonato governo e al partito. Lo scontro tra i due fu così aspro da ritardare la partenza di quella formidabile stagione di riforme schröderiane che consente, oggi, alla Germania di correre spedita mentre altri vanno lenti (UK), stanno fermi (Francia) o arretrano (Italia). Alla fine la spuntò Schröder (e la Germania): Lafontaine prima lasciò il governo, nel quale era ministro delle Finanze, e poi il partito. Ma la mancata terza vittoria di Schröder alle elezioni del 2005 produsse l’archiviazione della sua linea politica riformista da parte di un Spd che, pur senza Lafontaine, si rispostò a sinistra, regalando i benefici dell’Agenda 2010 alla Cdu della Merkel.
Il caso tedesco non conosce affini nei partiti di sinistra delle grandi democrazie d’occidente, nelle quali che il capo sia uno (capo del partito e capo del governo) è un’evidenza che non necessita di essere codificata. Nei regimi presidenziali, Stati Uniti e Francia, il capo del partito di sinistra è oggi capo di stato. A guidare i due partiti ci sono due coordinatori che non spostano neppure un posacenere sulla loro scrivania senza il suo permesso. Tanto che, fuori confine, nessuno li conosce. La chairperson dei democratici americani è Debbie Wasserman Schultz, ex deputata della Florida; il secrétaire dei Socialisti francesi è Harlem Désir, attualmente europarlamentare.
Anche nei regimi parlamentari, la sinistra non ha alcun problema a mostrare d’avere un solo uomo a capo del partito e del governo (o candidato allo stesso). In Spagna il capo del Psoe all’opposizione è Rubalcaba e tale resterebbe se si votasse domattina. Zapatero fu, d’altronde, segretario del partito dal 2000 al 2011, quindi per tutta la durata dei suoi due governi (2004-11). Nel Regno Unito, manco a dirlo, Ed Miliband è il premier ombra, con tanto di governo ombra che altro non è che l’ufficio di presidenza del gruppo parlamentare laburista. A parte Italia e Germania, a guardar bene, la questione dell’avere un capo soltanto non è messa in discussione da nessuno.
I democratici italiani potrebbero, invece, scegliere di seguire la via della diarchia. E’ in fondo la strada che percorse Romano Prodi, per due volte affossato dalla debolezza di non essere il capo del maggior partito della sua coalizione di governo. O addirittura affidarsi alla triarchia, avendo un proprio uomo che occupa Palazzo Chigi, uno che guida il partito, un altro che si candida a premier alle prossime (vicine) elezioni.
Non è detto che il giochino, ancor più complesso di quello delle diarchie Gabriel-Steinbrück o Lafontaine-Schröder, non possa funzionare. A patto che, come accadde nell’Spd di fine anni Novanta, la mancata scelta del capo prima delle elezioni si realizzi dopo l’eventuale vittoria. Perché, alla fine, comanda uno e ci si deve intendere su chi questi sia. Schröder ci riuscì. Ma il cancelliere tedesco poté valersi di poteri che non sono concessi al presidente del Consiglio italiano, come quello di licenziare i suoi ministri. Toccherà essere, insomma, più bravi di Schröder, senza avere i poteri di Schröder.
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