L'affumato di Londra

Pietrangelo Buttafuoco

Bianche. Dopo di che, accende un sorriso macinato in uno sbuffo di toscano. “Che cosa, bianche?”, chiedo. “Le pareti di casa Malagò, a Sabaudia”. Il sigaro disegna una voluttà: “Una villa, quella, con muri bianchi più dei denti di Berlusconi… un bianco così è qualcosa che non trovo a Londra…”. Il famoso fumo di Londra. Eccolo, Mario Sechi. Giornalista, ex direttore del Tempo, il quotidiano di piazza Colonna, dunque il centro del centro di ogni centro di Roma eterna e dunque successore di Gianni Letta. Ebbe la bislacca idea di candidarsi con Mario Monti (“è un italiano come gli altri…”) per ritrovarsi senza più giornale e senza il seggio parlamentare.

    Bianche. Dopo di che, accende un sorriso macinato in uno sbuffo di toscano. “Che cosa, bianche?”, chiedo. “Le pareti di casa Malagò, a Sabaudia”. Il sigaro disegna una voluttà: “Una villa, quella, con muri bianchi più dei denti di Berlusconi… un bianco così è qualcosa che non trovo a Londra…”. Il famoso fumo di Londra.
    Eccolo, Mario Sechi. Giornalista, ex direttore del Tempo, il quotidiano di piazza Colonna, dunque il centro del centro di ogni centro di Roma eterna e dunque successore di Gianni Letta. Ebbe la bislacca idea di candidarsi con Mario Monti (“è un italiano come gli altri…”) per ritrovarsi senza più giornale e senza il seggio parlamentare.
    Eccolo, è il più rammentato tra i più dimenticati. In un “Dizionario degli italiani illustri scomparsi sebbene viventi” la lettera S di Sechi sarebbe di sicuro tutta sua. I passanti di una mattina di Trastevere lo salutano e gli stringono la mano. Qualche semi Vip, tra la gente, cerca d’intrattenerlo e molestarlo ancora con qualche invito in serate coi camerieri carichi di fritti al cartoccio sparsi tra gli alberi di ville per semi ricchi dal passo sempre troppo lungo rispetto alle loro gambe. “Grazie, grazie”, risponde cortese, “verrei volentieri ma sarò a Londra”.
    Sechi, ancora qualche mese fa, aveva il telefono pazzo. Più “di un rivelatore di radioattività”, tante erano le chiamate. Adesso? “Chiamano gli amici. E aspetto la telefonata di Mario Calabresi. Feci recensire il suo libro e lo cercai per chiedergli una breve per il mio più modesto tomo. Risposero dalla Stampa: il direttore la richiama subito! Attendo ancora con ansia la recensione. E la telefonata”.
    E’ un autore Mondadori, Sechi. Ha pubblicato “Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta. Storie di italiani che non si arrendono”. Gli chiedo, dovevi già saperlo di che pasta siamo fatti noi per meravigliarti. “Ma io non mi meraviglio”. E, infatti, sghignazza al ricordo della “miriade di colleghi blasonati, Cazzullo, Stella, Floris, praticamente tutto il catalogo Rcs… sarò a Londra, però…”.
    Sechi ha un’irresistibile vena. Mi propongo come spalla in questa conversazione ad alta curiosità antropologica e con scarso uso di mondo. Mi provo e lo rassicuro: Cazzullo ti cercherà ancora, ha gran modi. Anche Stella, lo farà. E’ un gigante del giornalismo. Magari Floris no, chiamerà Gianni Letta per farsi recensire il prossimo libro sul Tempo. “Hai ragione, non chiamerà: ha quel sorriso con troppi denti… magari gli consiglio un buon dentista di Londra…”.
    Eccolo, è Sechi. Era il più gettonato nei talk show di prima scelta. Il più intelligente, il più brillante, il più informato e, non guasta, era anche il più elegante con le sue bretelle e le camicie, a volte tipo J. Edgar Hoover, in perfetto stile Cia. Altre volte quelle bicolore, tipo Tom Wolfe. Non però il cappello, solo i Borsalino. Da “Porta a Porta” a “Ballarò”, da “Agorà” a “Linea notte”, non c’era conduttore che non lo chiamasse per averlo ospite. “Non però da Michele Santoro”, ricorda Sechi, sempre sghignazzando perché, gatto com’è, se la sta godendo un mondo: “Non ero sufficientemente idrofobo come da copione dev’essere il giornalista berlusconiano… m’invitò solo una volta per poi farmi restare a casa. Per non starmene inattivo, quel giovedì, partii per Londra…”.
    La tivù, era la sua protesi. “Dopo un ‘Ballarò’, per dire, mi chiamavano tutti. Il più divertente era il Cav. Mi voleva convincere che non c’era mai stato sesso nelle sue serate eleganti. E, per meglio intortarmi, partiva con le lusinghe ‘ciò che scrive lei, Sechi, è sempre credibile, come se lo scrivesse il Corriere della Sera…’. Anche Walter Veltroni si complimentava quando mi incontrava dicendomi che ero un esempio di destra civile. Di destra a me che non lo sono mai stato…”.
    Che cosa sei?
    “Sono liberale, occidentale, nel senso proprio della tradizione…”.
    Londinese?
    “Ecco, giusto”.

    Per dirla con Petrolini, “i londrini vanno matti per te”. Dicevi delle telefonate.
    “Pier Ferdinando Casini mi faceva divertire. Ogni volta che mi incrociava mi gracchiava  ‘sei uno stronzo, attacchi sempre l’Udc’. Quando poi decisi di candidarmi per Scelta civica, mentre stavo a cena con una mia amica, lo ricordo bene, interruppe una dolcissima serata… Ecco, mi squillò il telefono per sentire Pier Ferdinando dirmi: ‘Cazzo, l’ho detto io a Monti che sei uno dei più lucidi analisti della politica’. Tanto lucido che mi sono lucidato da solo, vorrei dirgli adesso. Fabrizio Cicchitto commentava, commentava, commentava e si disperava sulle sparate del ‘Pazzo’, ovvero…”.
    Ovvero?
    “Berlusconi. Per lui era il pazzo. Mi chiamava Zanda che, non so perché, dopo aver detto ‘ti ho letto, sono d’accordo con te’, prima del clic mi diceva: ‘Devo offrirti un piatto di vongole’. Alfano poi, Angelino Alfano si faceva vivo per il suo mantra: ‘Domani leggiamo e commentiamo insieme’”.
    Mai chiacchierato tu, ma non ti sono mancate le chiacchierate.
    “Con Caltagirone, l’editore del Messaggero. Ottime chiacchierate sulla politica e sull’economia. Mi colpì di lui una qualità rara: l’arte, quella di capire e amare davvero l’arte più di Diego Della Valle, un altro che pure doveva averne di sensibilità per sponsorizzare nientemeno che il Colosseo. Sostenni quella buona causa. Diego ringraziò e un giorno mi disse: ‘A volte ho la tentazione di non farlo più’. Pure io, confesso”.
    Il direttore del Tempo è il direttore del centro del centro di tutte le relazioni.
    “Giampaolo Angelucci, poi, fu così carino da inviarmi una collezione di foto Alinari sulle continue trasformazioni di piazza Colonna. E pensa un po’, stavo per andarmene. Mi vedevo con Cesare Geronzi, poi. A lui piaceva sentire il mio punto di vista sui fatti della politica. Con l’ingegnere De Benedetti trattai, per conto del Tempo, il passaggio alla concessionaria di pubblicità Manzoni con una stretta di mano. Senza carte. Un vero signore, lui. Con altri non sarebbe stato possibile. E mi ricordo di tanti pranzetti consumati – litigando e amandoci al contempo – con Giulio Tremonti, nel suo studio di commercialista. Infine il pranzo più solenne…”.
    Col Santo Padre?
    “E che sono io, Vittorio Messori? No, non con il Papa, ma con Marina Berlusconi. Con gli editori, infatti, con quelli con cui ho lavorato ma anche con quelli…”.
    … con cui lavorerai?
    “Suvvia, fammi finire: con gli editori ho avuto sempre ottimi rapporti. Dunque anche con Marina Berlusconi che fu mio editore in Mondadori. Ebbi questo pranzo e mi fece questa confidenza: ‘Mio padre dice che lei sarebbe il direttore ideale per il Giornale…’”.
    Novità, dunque?
    “Ma che dici! E’ già un buon motivo per non farlo…”.
    Ecco, Sechi. Si diverte a non essere più in vetrina, già potente in questa Roma che per lui è – comunque – la città della “grande bellezza”.
    Alludi al film di Sorrentino?
    “Non vedo l’ora di andare a vederlo. Com’è?”.
    La giraffa c’è. E’ Marcello Mastroianni che manca. Lui, il protagonista, ti somiglia. Giornalista, autore di un solo libro ma padrone assoluto della scena mondana, decide sulle feste: se farle riuscire o, soprattutto, se non farle riuscire.
    “Ma non mi somiglia per niente, non so nulla di feste! Me le guardo su Dagospia. E poi io non sono autore di un solo libro, ne sto preparando un altro”.
    Però sei pur sempre un ragazzo di paese, sardo, capitato a Roma. A momenti, se non ricordo male, dopo aver rifiutato l’offerta di Lorenza Lei per la direzione del Tg2, diventavi governatore del Lazio.
    “La Lei pensava si potesse fare quella nomina senza problemi. Io avevo più che rifiutato, fiutato che no, non era possibile. Ah, i partiti. Questa è una palla che mi alzi, vuoi proprio che ti racconti dei congiurati, anzi, degli scissionisti?”.
    Io ricordo che i berlusconiani volevano candidarti e tu…
    “… e io dissi no perché non mi convinse la situazione e poi perché tutti loro, ovvero gli Alfano, i Quagliariello, i Cicchitto, tanti premevano per ben altro. Togliere di mezzo Berlusconi. Li ricordo discettare di scissioni e me li ritrovo tutti gallonati nel governo Letta, e va bene, mi va benissimo, ma non riesco a togliermi dalla testa tutte le volte che sulla soglia dell’ufficio di Mario Monti, a Palazzo Chigi, Gianni Alemanno m’inchiodava per…”.
    Togliere di mezzo Berlusconi?
    “La politica, la politica!”.
    Tu sei entrato in politica.
    “Sono entrato in politica lasciando un posto e me ne sono andato senza prendermene uno, di un qualunque posto. Non potevo forse farmi dare un qualcosa, essere oggi uno dei tanti sottosegretari, un vice-ministro? Me ne sono andato perché non sono riuscito a interessarmi alla disputa ciclopica tra montezemoliani e riccardiani, laicisti e baciapile. Ho incontrato Monti, ci siamo parlati, ci siamo salutati, l’ho ringraziato per avermi dato l’opportunità di aver conosciuto la ferocia degli amici, di avermi aiutato a capire che io nasco giornalista, muoio giornalista, e non ci siamo visti più”.
    Mai più, mai più sentiti?
    “Me ne sono andato a Londra, anzi, sono rimasto a Londra”.
    Sei più un rovinato da Monti o un rovinato da Berlusconi?
    “Il Cav. è l’interprete numero uno del carattere degli italiani. Monti è solo un’aspirazione a diventare qualcosa di più dell’essere un italiano. Ma è il più italiano di tutti. Tenersi alla larga da tutti e due è cosa santa. L’Italia pensata da Monti è irrealizzata, così come non si realizzerà la rivoluzione liberale di Berlusconi”.
    Che effetto ti fa essere stato il successore di Gianni Letta al Tempo, sei stato suo amico?
    “Molto sorridente Letta, affettuoso a suo modo. Quando lasciai la direzione lui parlò all’assemblea dei colleghi. Non ha mai smesso di sentirsi direttore di quel giornale”.
    Bianche, dunque. C’era il racconto della villa di Giovanni Malagò a Sabaudia, lasciato a metà. “Ama ospitare le persone, le star, Monica Bellucci. Altro che. Io ero fuori, decisamente fuori posto, ma la stagione è proprio questa. Un magnifico sole e tutto quel bianco. Io sono lì perché giurato del Premio Sabaudia. Malagò è proprio un bel tipo: è simpatico, aitante, bravissimo nelle relazioni. Il migliore per il suo meritato posto, quello di presidente del Coni. Osservando lui ho capito come in questa città sia fondamentale tessere le relazioni. Adesso che sto a Londra, invece…”.
    Vai troppo spesso a Londra…
    “Non avendo amici a Heidelberg! Insomma, a Roma è il primario istinto quello di mettersi a tavola, incontrare, conversare, telefonare. La stagione è proprio questa. Ogni anno, in questi giorni, mi arrivavano gli inviti per il Premio Strega…”.
    A proposito, chi voti, quale romanzo?
    “Sai che non ricordo se ho mai premiato o no per lo Strega?”.
    Nel caso ti arrivi la scheda vota per Alessandra Fiori, “Il cielo è dei potenti”. Fa d’uopo in questo caso.
    “Farò come dici tu. Ma non ho fatto altro che premiare in questi lunghi anni di lavoro. Ero giurato in un’infinità di premi, l’Ischia, l’Agnes, ma… lo capisco: non si è chiamati per quello che si è, ma per quello che serve. Il mio telefono è muto e io, per non sbagliare, non chiamo nessuno. In Italia funziona così, spariscono tutti. Non è come a Londra”.
    La gente, intanto, continua a salutarlo: “Che piacere vederla in tivù, direttore”. Sechi sa che la ruota gira. Non coltiva astio e pratica il sogghigno come arte del saperla lunga, ma proprio lunga sulle umane cose del carattere degli italiani. “Se non fosse per Enrico Mentana e qualche altro intrepido che mi fa invitare o per Luciana Littizzetto che ancora fa spirito sul mio sguardo (ma mi fa ridere proprio, lei, sia chiaro…), non avrebbero proprio dove vedermi, tutti questi gentili signori che si congratulano. Resto per tanti di loro ‘il direttore del Tempo’, il giornale fondato da Renato Angiolillo, con sede a piazza Colonna e forse è una nemesi dover descrivere un mondo in disfacimento”.
    Proprio una “Grande Bellezza”.
    “Ma questo film lo voglio proprio vedere. L’attore protagonista, poi, è un grande”.
    Grandissimo. A proposito di “Grande Bellezza”, poi, Servillo recita nel ruolo di Bebè, anzi, Geggè, quello di “bellezza mia, bellezza mia”, ma tu avrai un altro canone di racconto, no?
    “Altro che. ‘Una cosa divertente che non farò mai più’. Il libro di David Foster Wallace. Così è stato per me: una cosa divertente che non farò mai più”.

    Post scriptum. Londra, infine. Va sempre a Londra, Sechi. Ogni volta che lo cerco su WhatsApp trovo scritto nel display “Londra”. Due giorni prima della passeggiata a Trastevere era ancora in Gran Bretagna. E’ il caso di raccontarla però, la telefonata.

    Mario, ma dove sei?
    “Alla Freemasons’ Hall, l’officina madre di tutte le logge inglesi”.
    Rito inglese, scozzese?
    “Cossiga ti avrebbe detto: ‘Scozzese rettificato’. Ma lasciamo perdere questi dettagli”.
    Insomma, stai tegolando o ti stanno tegolando?
    “Sto per entrare nell’aula magna per ascoltare la conferenza di Dan Brown. Poi, a cena, me ne andrò a Soho”.
    C’è anche Oscar Giannino lì, con te.
    “No. Oscar va negli Usa. Starà discutendo ancora con Zingales. Io preferisco Londra. E’ la metafora di tutto quello che non può essere Roma: una città ordinata, una società aperta, l’incrocio dei capitali e del sapere da tutto il mondo, un’industria culturale e non una mafietta pseudoletteraria. Vado e vengo da là e trovo tutto questo molto bello. L’ultima volta che sono sbarcato a Fiumicino la prima parola che mi è venuta in mente è stata ‘Africa’”.
    Ma la massoneria conta ancora?
    “Qui sì”.

    • Pietrangelo Buttafuoco
    • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.