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Controinchiesta, ovvero una lettura laica dell'affaire Mps
A gennaio, nemmeno cinque mesi fa, il Monte dei Paschi di Siena era la culla della “finanza opaca e massonica” (Fatto quotidiano), lì dove si stava realizzando “la nuova Tangentopoli che sta terremotando l'Italia”, o così almeno si leggeva su Repubblica. Lunedì scorso invece, sullo stesso quotidiano del gruppo Espresso, le perdite trimestrali di Rocca Salimbeni sono state descritte molto più pacatamente, anzi con un pizzico di enfatica benevolenza: “Poche volte 100 milioni euro persi con tanto sollievo”. Perdite che generano sollievo, quelle della banca che dall'aprile 2012 è guidata da Alessandro Profumo, insomma.
A gennaio, nemmeno cinque mesi fa, il Monte dei Paschi di Siena era la culla della “finanza opaca e massonica” (Fatto quotidiano), lì dove si stava realizzando “la nuova Tangentopoli che sta terremotando l’Italia”, o così almeno si leggeva su Repubblica. Lunedì scorso invece, sullo stesso quotidiano del gruppo Espresso, le perdite trimestrali di Rocca Salimbeni sono state descritte molto più pacatamente, anzi con un pizzico di enfatica benevolenza: “Poche volte 100 milioni euro persi con tanto sollievo”. Perdite che generano sollievo, quelle della banca che dall’aprile 2012 è guidata da Alessandro Profumo, insomma. Ancora: nemmeno cinque mesi fa, molti osservatori italiani - a destra come a sinistra - si scoprirono liberisti tutti d’un pezzo, ansiosi di fare piazza pulita del “groviglio armonioso” senese, quell’intreccio decisamente italiano (e quantomeno inefficiente) tra fondazione bancaria, istituto di credito, enti, associazioni e istituzioni varie, che in realtà non caratterizza soltanto la città di piazza del Campo. Dopo cinque mesi, oggi i toni si fanno più miti: la Fondazione che controlla il 33,5 per cento di Mps riappare d’un tratto più legittimata, addirittura lungimirante nella sua “scelta” di diluire la sua partecipazione azionaria, avendo “il più grande interesse a sorvegliare e condividere - scrive sempre Repubblica - la scelta del prossimo azionista forte”. Ma cosa è cambiato davvero in questi cinque mesi? Meno di quanto sembri dalla lettura dei giornali (dove l’affaire Mps appare e scompare in maniera carsica) o dalla visione dei telegiornali (dove di Mps non si parla praticamente più).
Il punto è che sulla vicenda Mps, come dimostra l’inchiesta di Alberto Brambilla pubblicata in queste pagine, cinque mesi fa si è messo in moto un circo mediatico-giudiziario affatto nuovo nella storia recente del nostro paese. Ora la bolla mediatica, gonfiata per settimane a suon di titoli pirotecnici, numeri a casaccio e dichiarazioni poco meditate, si è ridimensionata con il tempo, e addirittura il rischio è che se ne gonfi un’altra nella direzione opposta: dopo i “cattivi” della vecchia gestione, nelle cui mani anche un’operazione classica di finanza derivata (al di là del risultato) assumeva a prescindere contorni diabolici, arrivano i “buoni” del nuovo management, nei cui libri contabili anche le perdite provocano “sollievo”. Nel frattempo, cosa resta davvero di tutta questa orchestrazione, alimentata pure dalla ricerca spasmodica di pistole fumanti che dimostrassero già in campagna elettorale un inciucio (magari un po’ delinquenziale) tra Pd e Pdl? Sensazionalismi a parte, come spiega per esempio Brambilla, il sequestro di 1,8 miliardi di euro depositati da Mps in favore della banca d’affari giapponese Nomura a titolo di garanzia del finanziamento ricevuto, sequestro voluto dalla procura di Siena ma che il gip ha respinto – in attesa che il tribunale nei prossimi giorni decida definitivamente cosa accadrà – rischia di condizionare in peggio il clima nel quale si svolgono regolarmente queste operazioni in Italia. Quale banca internazionale, un domani, si fiderà di compiere operazioni simili e chiedere per queste una normale contropartita? Come se fare affari in Italia non fosse già oggi abbastanza complicato. Senza contare che Nomura è “banca sistemica” per il nostro paese, acquirente dei nostri bond statali per conto del governo giapponese, e quindi questa richiesta della magistratura potrebbe avere contraccolpi finora nemmeno immaginati.
Come ha già dimostrato il caso del dibattito sugli “esodati”, nel corso del quale abbiamo assistito per mesi all’uso estensivo e truffaldino di un termine tecnico nel tentativo di scardinare la riforma Monti-Fornero delle pensioni, oggi una lettura più distaccata e demistificatrice del caso Mps è quanto mai necessaria. Ne va dell’igiene intellettuale del nostro dibattito pubblico. Il che non vuol dire, ovviamente, non continuare a seguire le vicende giudiziarie e operative del Monte dei Paschi, e più in generale di un modo di fare banca tutt’altro che impeccabile, anzi spesso clientelare e inefficiente (altro che “piccolo è bello” o “territoriale è bello”, come si sentiva dire durante la caduta degli dèi di Wall Street, oggi praticamente già tornata ai fasti pre crisi). Come ripetono in molti, infatti, la strada per evitare la nazionalizzazione dell’istituto presieduto da Profumo è stretta, strettissima.
Entro il 17 giugno, l’Unione europea dovrà ricevere il piano di ristrutturazione di Mps, per poi decidere se autorizzare definitivamente o meno i 4 miliardi di euro di Monti bond. Trattandosi di un potenziale salvataggio pubblico (già deciso dall’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, per rafforzare la patrimonializzazione di Mps prima ancora che emergesse la vicenda dei derivati, della “banda del 5 per cento”, e via dicendo), esistono delle linee guida da osservare, per esempio sul tetto ai compensi dei manager e in generale sul piano industriale messo in campo. Un altro “tetto” che dovrà saltare sarà quello del 4 per cento per il diritto di voto degli azionisti; questo limite, contenuto nello statuto e valido per tutti eccetto che per la Fondazione Mps, ha garantito finora il dominio dell’ente no profit - e quindi della politica locale e nazionale - nell’istituto di credito. Con l’abolizione di tale limite, anche la “senesità” della banca non sarà più garantita a lungo, considerato pure che il presidente Profumo non ha fatto mistero di cercare “un socio forte” per rafforzare l’istituto. Non è detto che questo passaggio, per quanto necessario, sia indolore, anzi: come ha scritto Cesare Peruzzi in un articolo sul Sole 24 Ore, infatti, “a rallentare i tempi per sciogliere questo nodo che tutti sembrano voler affrontare, dalla Banca alla Fondazione, sono considerazioni di opportunità politica in sede locale, dove a fine maggio si voterà per eleggere il nuovo consiglio comunale e il nuovo sindaco. Un bel pasticcio”. Le vicende giudiziarie, poi, non potranno comunque funzionare da esimente per un istituto che, complice una gestione deficitaria, si trova oggi a pagare allo stato un milione di euro al giorno per gli interessi sui Monti bond. Se la banca non riuscirà a generare sufficiente cassa nei prossimi mesi, la restituzione delle risorse pubbliche diventerà impossibile, e quindi il Tesoro entrerà nell’azionariato. Allora le esagerazioni mediatiche di oggi potrebbero sembrare piccola cosa.


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