
Il welfare in Italia lo gestiscono meglio tecnici e grandi coalizioni. I numeri
Il welfare in Italia lo gestiscono meglio i governi tecnici e di grande coalizione piuttosto che i governi politici (pur molto coesi). E’ quanto emerge da uno studio di Maurizio Ferrera, professore di Scienza politica all’Università di Milano ed editorialista del Corriere della Sera, che verrà presentato lunedì a Bologna a un seminario sull’Oxford Handbook of Italian Politics curato da Erik Jones, Gianfranco Pasquino e Mark Gilbert della Johns Hopkins University. L’esecutivo guidato da Enrico Letta e i tre partiti che lo sostengono (Pd, Pdl e Scelta civica) farebbero bene a prendere nota, soprattutto se – tamponati i dossier emergenziali di Imu e Cassa integrazione in deroga –, vorranno superare la fase della mera sussistenza e trovare una ragione di vita (politica) per i prossimi mesi.
Il welfare in Italia lo gestiscono meglio i governi tecnici e di grande coalizione piuttosto che i governi politici (pur molto coesi). E’ quanto emerge da uno studio di Maurizio Ferrera, professore di Scienza politica all’Università di Milano ed editorialista del Corriere della Sera, che verrà presentato lunedì a Bologna a un seminario sull’Oxford Handbook of Italian Politics curato da Erik Jones, Gianfranco Pasquino e Mark Gilbert della Johns Hopkins University. L’esecutivo guidato da Enrico Letta e i tre partiti che lo sostengono (Pd, Pdl e Scelta civica) farebbero bene a prendere nota, soprattutto se – tamponati i dossier emergenziali di Imu e Cassa integrazione in deroga –, vorranno superare la fase della mera sussistenza e trovare una ragione di vita (politica) per i prossimi mesi.
Ferrera e il collega Matteo Jessoula iniziano la loro ricostruzione storica dalla svolta del 1957-1963, quando “il ‘miracolo econonico’ portò con sé maggiore benessere nazionale, il che a sua volta produsse un ‘dividendo fiscale’ crescente nel bilancio pubblico. In un nuovo clima culturale e politico, i problemi e le politiche sociali ricevettero maggiore visibilità e attenzione”. Fu però solo nel 1968 che il profilo istituzionale del welfare italiano si avviò a cambiare radicalmente, “sull’onda di nuovi e surriscaldati conflitti sociali”. Fino ad allora le Ipab (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) “erano parzialmente o totalmente nelle mani dei privati”; seguì invece la statalizzazione delle stesse, e nel 1978 la nascita del Servizio sanitario nazionale. Poi la riforma delle pensioni del 1968-’69 introdusse un sistema retributivo, con la pensione che si basava sulle ultime retribuzioni del lavoratore, “molto generoso”. Ai dipendenti si assicurava l’80 per cento dello stipendio, completamente indicizzato, dopo quarant’anni di lavoro conclusi a 60 anni o a 55 per le donne. Risultato: se alla metà degli anni 50 la spesa sociale era pari al 10 per cento del pil, essa salì fino al 22,6 per cento nel 1975.
Già allora, scrive Ferrera, emersero i cinque “peccati originali del sistema”: “Distorsione allocativa” (nel 1950 le risorse per pensioni e famiglie erano allo stesso livello, nel 1980 la spesa per pensioni era sette volte maggiore di quella per le famiglie, meglio soltanto della Grecia); “distorsione distributiva” (con i lavoratori dei principali settori industriali privilegiati rispetto agli altri e ai disoccupati); problema di “finanziamento”, con uno squilibrio tra uscite in espansione ed entrate stagnanti; infine i problemi di legalità ed efficienza, come dimostra il fatto che tra 1960 e 1980 il numero delle pensioni di invalidità si è quintuplicato, fino a superare le pensioni di vecchiaia, caso unico in occidente. Nel 1980 il processo di cambiamento fu piuttosto “caotico”, spiegano Ferrera e Jessoula facendo l’esempio dell’incredibile aumento delle esenzioni per la spesa sanitaria e farmaceutica.
Il “ciclo delle riforme” occupa infine gli anni ’90 e 2000, ma non tanto grazie agli esecutivi politici. Nell’autunno 1994, il governo Berlusconi cadde proprio per un’ambiziosa riforma delle pensioni osteggiata da sindacati e Lega nord. Nel 1997 si arenò la commissione Onofri del governo Prodi. Il secondo governo Berlusconi (2001- 2005) iniziò a rendere più stringenti i criteri di accesso al trattamento pensionistico, ma quasi tutto fu vanificato dall’abolizione dello “scalone” da parte del nuovo governo Prodi. A non sfigurare, in definitiva, sono stati soltanto le grandi coalizioni e i tecnici: nello studio si ricorda la stretta di Giuliano Amato sulle “baby pensioni” (1992-’93), l’introduzione del sistema contributivo (con le pensioni calcolate in base ai contributi versati) da parte del tecnico Lamberto Dini (1995), e soprattutto la riforma Fornero durante il governo Monti (2011) che è riuscita a ottenere risparmi anche nel breve termine. I cinque “vizi originali” del nostro welfare non sono del tutto sanati, conclude Ferrera, ma certo il sostegno politico trasversale, l’esaltazione della competenza tecnica e la pressione dei mercati internazionali sono stati i più efficaci ingredienti riformatori nel nostro paese.


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