
Cassetti pieni
Perché la Bicamerale per le riforme non fa rima con Rodotà (tà-tà)
"Ma sono sempre le stesse cose, dai tempi della commissione Bozzi…”, e ogni volta che Augusto Barbera pronuncia queste parole, in pubblico e in privato, nei convegni e tra gli amici, dicono che il costituzionalista, lui che fu capogruppo del Pci in quella prima Bicamerale per le riforme, quella che nel 1982 portava il nome di Aldo Bozzi, antico signore liberale dal pizzetto gentiliano, ebbene dicono che ogni volta Barbera si faccia sempre più amaro.
"Ma sono sempre le stesse cose, dai tempi della commissione Bozzi…”, e ogni volta che Augusto Barbera pronuncia queste parole, in pubblico e in privato, nei convegni e tra gli amici, dicono che il costituzionalista, lui che fu capogruppo del Pci in quella prima Bicamerale per le riforme, quella che nel 1982 portava il nome di Aldo Bozzi, antico signore liberale dal pizzetto gentiliano, ebbene dicono che ogni volta Barbera si faccia sempre più amaro. “Il tema delle riforme è ampiamente istruito, basterebbe recuperare i testi di una delle tante bicamerali, commissioni, gruppi di saggi che hanno animato l’eterna illusione italiana per le riforme. Enrico Letta e gli altri devono solo decidere se vogliono fare le cose o non farle”, dice Cesare Salvi, che nel 1997 fu relatore della Bicamerale dalemiana.
Così, mentre la nuova Convenzione si avvita e si svita, fa capolino nelle interviste di Dario Franceschini e poi s’inabissa nella fantasia ambigua del Cavaliere e nei dubbi di Giorgio Napolitano, in questa danza così antica l’Italia politica riscopre ancora una volta il brivido di esercitare a vuoto il suo piglio riformista. Gaetano Quagliariello, il ministro delle Riforme, telefona a Stefano Rodotà per coinvolgerlo e reclutarlo in una commissione governativa – guarda un po’ – “di saggi”. E Giuliano Urbani, lui che siglò con Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema il famoso patto della crostata, principio e fine di ogni patto di sistema nella Seconda tragica Repubblica, oggi dice che “noi vecchietti siamo sempre tentati da un vivificante protagonismo, ma Rodotà evidentemente non fa rima con Bicamerale”. Anche Urbani, come Salvi e come Barbera, si è forse convinto che l’Italia è un paese le cui febbri di crescita si accompagnano a spasmi sociali e mai a riforme. E per questo si cerca sempre una via speciale, una camera di compensazione, un’artifizio teatrale, si insegue la strada più tortuosa, Bicamerale appunto, parola dotata di magica permanenza.
E dunque Rodotà e Michele Ainis, in un nuovo labirinto politico, tra altri costituzionalisti e giuristi, che il governo delle larghe intese immagina di costruire per promuove nuove architetture istituzionali, tra i cespugli di un’attività istruttoria, quella sulle riforme, già pronta, finita, realizzata prima nel 1982 con Bozzi, poi nel 1997 con D’Alema, dai saggi di Lorenzago nel 2005 (chi non ricorda Calderoli e Tremonti in bermuda?), e ancora da Quagliariello e Violante nel 2008 e infine dai saggi di Napolitano nel 2013. “Anche se Rodotà e Bicamerale fossero un magnifico esametro, sarebbe comunque una cosa inutile”, dice Urbani, “le riforme, ammesso che in Italia si possano fare, non passano da questi meccanismi. Ormai è chiaro. Più si gioca alle convenzioni e alle commissioni speciali più si complica tutto”. E Salvi ricorda: “Nella mia prima Bicamerale c’erano De Mita e Nilde Iotti. Già allora parlavamo di togliere la fiducia al Senato, di eleggere direttamente il presidente della Repubblica e di modificare la legge elettorale. E quella commissione, assieme alla successiva di Berlusconi e D’Alema, fu una cosa seria”, quelli erano i tempi della politica, difficili e aspri, ma tempi ancora politici. Erano tentativi di una trasformazione intelligente, ordinata, profonda e reale in un paese che è sempre andato avanti per contrazioni violente, dai tumulti di Bava Beccaris al maggio del 1914, dal boia chi molla di Reggio Calabria a Valle Giulia, senza dimenticare Brigate rosse, Brigate nere e stragi, sino alla Lega, a Mani pulite, allo sparatore Preiti e a Beppe Grillo.
“Stanno sbagliando tutto. Il materiale è tantissimo. Basterebbe chiedere a Luciano Violante di aprire uno dei suoi cassetti”, dice Salvi. “Devono solo tirare fuori una delle tante riforme pronte. Sono già tutti d’accordo, nessuno si oppone più al superamento del bicameralismo perfetto e tutti vogliono cambiare la legge elettorale. Che lo facessero e basta”, insiste Urbani. E Salvi ancora: “Tocca al governo agire, attraverso i disegni di legge. Se questa strana maggioranza e questo governo s’ingarbugliano ancora una volta tra commissioni e comitati, Rodotà o non Rodotà, offriranno il fianco ai rigurgiti livorosi dell’antipolitica, a quelli che brandiscono come un’arma la parola ‘inciucio’”. E l’ex senatore, passato dal Pci al Pds ai Ds (ma mai al Pd), è forse anche lui avvilito perché il fallimento delle riforme dimostrerebbe ancora una volta che non c’è niente, né sul tavolo né sotto il tavolo della politica, niente che si possa fare per salvare quel che resta del sistema.


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