Tre obiettivi per la crescita da mettere sul tavolo del governo Letta

Ernesto Felli e Giovanni Tria

Limiti e opportunità di una nuova riforma fiscale 

Sono circa 15 anni che l’Italia aspetta una riforma fiscale. L’aspetta anche perché è stata via via promessa, annunciata, dichiarata in atto. Ma la riforma non c’è, pur essendosi affastellati nel tempo interventi fiscali, più o meno rilevanti, di diverso segno e spesso contraddittori, perché ciascuno di essi diretto a perseguire scopi specifici non sempre coerenti tra loro. L’impressione è che la riforma fiscale, quella che è stata chiamata la madre di tutte le riforme, abbia perso lei stessa madre e padre, e dopo il tentativo di adozione da parte del disegno federalista nell’ambito del quale, si è detto per un certo periodo, essa si sarebbe dovuta attuare, oggi essa soffre anche del dissolversi di questo disegno.

  

Può essere il governo di coalizione il genitore di questa riforma? In teoria, ogni riforma importante – strutturale, per usare termini di uso comune – potrebbe essere più facilmente varata da un governo di coalizione, quando essa implica costi elettorali da distribuire equamente. Questa è la ratio che generò il governo tecnico. D’altra parte, ogni riforma seria presuppone un disegno strategico coerente, non è mai solo tecnica, essa deriva da scelte profondamente politiche. E non può non essere profondamente politico il disegno di una riforma del sistema fiscale, che rappresenti il fondamento del patto di governo tra stato e cittadini.

    

Il governo appena nato ha l’obiettivo delle riforme istituzionali, ma la riforma fiscale, che implica fissare regole del gioco chiare tra lo stato le famiglie e le imprese, non ci sembra sia esplicitamente prevista nel programma di governo, anche se la materia fiscale rientra come oggetto dei primi e più importanti provvedimenti per fronteggiare l’emergenza economica. E’ difficile che questi provvedimenti possano corrispondere a principi coerenti con un disegno complessivo di riforma del fisco. Quel che si può chiedere è un’attenzione tecnica, maggiore di quella manifestata nella passata legislatura, alla coerenza tra i diversi provvedimenti fiscali e gli obiettivi di rilancio dell’economia. Essi sono almeno tre, non facilmente conciliabili tra loro.

   

Il primo obiettivo è intervenire sul collasso della domanda interna, che ha molte concause ma che indubbiamente ha risentito dei provvedimenti fiscali degli ultimi due anni, in termini sia di maggior prelievo effettivo sia d’incertezza e di “terrorismo” fiscale che li ha accompagnati. Il secondo obiettivo è quello di intervenire dal lato dell’offerta, cioè di usare lo strumento fiscale per aiutare a ridurre il gap di competitività misurato dal divario accumulato negli ultimi dieci anni nella dinamica dei costi di produzione rispetto agli altri paesi europei. Il terzo obiettivo è quello redistributivo, cioè aiutare la popolazione più esposta alle conseguenze drammatiche della prolungata recessione.

   

La difficoltà di conciliare i diversi obiettivi è inversamente proporzionale ai margini esistenti per diminuire la pressione fiscale, obiettivo principe ma perseguibile in modo limitato nel breve periodo. Per questo motivo la composizione del prelievo, che è l’oggetto di una riforma fiscale diviene l’oggetto di scelta principale anche per l’emergenza. Collegando gli obiettivi esposti a una sintetica tassonomia di tasse e imposte, proponiamo ai lettori le seguenti considerazioni.

   

Per agire sulla domanda si richiede di privilegiare l’azione che al tempo stesso aumenti il più rapidamente possibile la capacità di spesa delle famiglie e riduca incertezza e “terrore” fiscale, al fine di far ripartire i consumi. A questo fine, si dovrebbe agire su Irpef e anche Imu (stando attenti al fatto che i valori delle prime case non dipendono solo dal reddito dei proprietari ma più spesso dal comune di residenza). Non è affatto dimostrato, al contrario, l’effetto dell’Iva sui consumi in un periodo recessivo in cui la causa della caduta della domanda dipende dalla riduzione del reddito e della ricchezza. Per agire sulla competitività, è necessario utilizzare i margini esistenti per perseguire la svalutazione fiscale, cioè ridurre sia l’Irpef, che influenza i salari reali e quindi i costi di produzione, e che impatta nell’immediato i redditi disponibili, sia l’Irap o altre componenti del cuneo fiscale, i cui effetti sono più strutturali e di medio periodo. Naturalmente i margini per la svalutazione fiscale sono estensibili, se si aumentano altre tasse a copertura, come l’Iva e le tasse sulla proprietà. Il terzo obiettivo, in questa fase di disoccupazione esplosiva si gioca molto intorno ai primi due obiettivi, a parte interventi particolari a protezione di nicchie di esclusi. E si torna alle considerazioni precedenti. Ricordando che, per usare un’antica terminologia marxiana, se si tagliano di colpo i consumi improduttivi dei ricchi, nell’ampia accezione del termine, nel breve periodo crolla anche la produzione diretta a soddisfarli, con una redistribuzione del danno immediato sui meno ricchi.

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