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Strette intese e larghe incognite
Alle loro spalle si scorge la figura attenta e severa di Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica osserva, non ha intenzione di intervenire, sa che i ministri e il presidente del Consiglio devono ancora prendere le misure, l’uno dell’altro e ciascuno del suo impegno. “Entro questa settimana ho intenzione di mettere in campo la riforma dei regolamenti parlamentari. Alla fine del mese avremo il piano, cadenzato, degli interventi anche per rinnovare il sistema istituzionale”, dice con piglio sicuro il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello, mentre la Convenzione per le riforme è già tramontata prima di nascere e il suo ministero, dal nome così altisonante, diventa motore delle iniziative del governo.
Alle loro spalle si scorge la figura attenta e severa di Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica osserva, non ha intenzione di intervenire, sa che i ministri e il presidente del Consiglio devono ancora prendere le misure, l’uno dell’altro e ciascuno del suo impegno. “Entro questa settimana ho intenzione di mettere in campo la riforma dei regolamenti parlamentari. Alla fine del mese avremo il piano, cadenzato, degli interventi anche per rinnovare il sistema istituzionale”, dice con piglio sicuro il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello, mentre la Convenzione per le riforme è già tramontata prima di nascere e il suo ministero, dal nome così altisonante, diventa motore delle iniziative del governo e strumento utile, anche per Napolitano, in quella terra di confine che, pur sfumata com’è ai tempi delle larghe intese, collega il Quirinale, il Castello di Silvio Berlusconi e la casa di Enrico Letta, cioè Palazzo Chigi. Ma il presidente della Repubblica teme il “lumacare”, il capo dello stato è l’attore più consapevole e preoccupato sul gramo proscenio della politica italiana, conosce le pigrizie furbe del ceto parlamentare, non si cruccia per l’eclissi della Convenzione, ma teme la prevalenza della corazza, quel guardarsi dalle insidie, quel democristiano scansare gli attriti, quell’incedere a singhiozzo che non porta mai a nulla. Nessuno più del capo dello stato, lui che ha spinto Letta nella sua recente missione diplomatica in Europa, sa che un governo minimalista può sopravvivere per un po’, forse per qualche mese, ma non ha destino.
All’Italia non serve una coda politicante della tecnocrazia montiana, per durare davvero, per incidere, non basta pittarsi in volto il carattere grigio dell’austerità. “Bisogna dirsi la verità e ci vuole coraggio”, dice Luciano Violante. “La domanda è una sola: si vuole cambiare il sistema, o no? Forse c’è chi pensa che sia meglio tenere tutto così com’è, perché riformare lo stato significa togliere un’alibi alle forze politiche. Se un sistema funziona non si può più dare la colpa delle inefficienze alla farraginosità dei meccanismi decisionali”, viene meno una scusa e si rivela l’incapacità della classe dirigente, l’inettitudine degli uomini al comando.
Molte le insidie, confuse le idee, fragili le sponde. Silvio Berlusconi è per natura il più inafferrabile degli interlocutori, e il contesto non lo aiuta. Il Cavaliere si chiede se nel centrosinistra ci sia davvero una propensione a legittimarlo, come vorrebbe Napolitano, il presidente che lo sprona, che ne conosce le vanità e dunque lo blandisce e pure lo contiene nei suoi eccessi (“lei guardi oltre, si elevi, lei è uomo di stato, lei deve vedere tutto da una dimensione più alta”). Berlusconi coltiva le sue paure più o meno razionali, un po’ vorrebbe assecondare il gioco delle larghe intese, si impone il silenzio anche di fronte alla corte di Cassazione che mantiene i suoi processi a Milano, si morde la lingua e frena la piazza, ma vede pure avanzare la logica incoercibile dei tribunali, e dunque si chiede, gravido di dubbi: ma nel Pd fanno sul serio, o vogliono solo prendere tempo, aspettare che i magistrati facciano il loro sporco lavoro per togliermi di mezzo? E la domanda, con tutte le sue allusioni e lugubri conseguenze, cade nel vuoto. Non ci sono interlocutori nel Pd sfilacciatissimo, in lotta intestina e senza guida: dunque chi mai può garantire? Con chi è che si deve parlare nel partito che appare incapace di rispettare patti minimi, come l’elezione dell’ex ministro Nitto Palma alla commissione Giustizia?
“E’ fondamentale che la situazione nel Pd si chiarisca. Il rischio di non avere interlocutori è esiziale”, sussurra Quagliariello con l’aria mite, ma doppia, del diplomatico. E Violante, che fa parte del triangolo istituzionale, lui che forse quel ruolo di ambasciatore alla corte del Cavaliere potrebbe svolgerlo, ma che pure è in apparenza defilato, accarezza le corde giuste, rivelando una sensibilità sempre in bilico, ma sospesa e in affanno all’interno del centrosinistra: “E’ necessario un processo di reciproca legittimazione da parte delle forze politiche”, dice Violante. “La differenza tra la guerra e l’attività parlamentare è che in guerra ci si spara, in Parlamento ci si parla”. Con una subordinata, allusiva, eppure non ostile, quasi un invito: “L’onorevole Berlusconi muta troppo frequentemente opinione. Lo rispetto ma è sempre dipesa da sue decisioni la paralisi delle riforme condivise, sia durante la Bicamerale sia al termine della scorsa legislatura”. Ed è un gioco di specchi che fa impressione, la sinistra non si fida ma non è in grado di garantire niente, difetta di interlocutori affidabili e non ha una parola sola. Tutti parlano pensando di essere autorizzati, ma nel caos in realtà nessuno ha titolo per chiudere degli accordi o negoziare e dunque il grande inaffidabile, Berlusconi, perché mai dovrebbe fidarsi lui per primo?
Letta cerca di tenere insieme il marasma che lo circonda, ma tanto più si addentra nella ragnatela politica con l’aria di voler piacere a tutti e a nessuno dispiacere, tanto più si affatica e intuisce di poterci restare impigliato dentro per sempre, soffocato nei tanti fili che prova a recuperare, e ritessere, uno per uno. Il premier ha caricato di enormi aspettative il Consiglio europeo del 26 e 27 giugno, quello che dovrebbe sbloccare i fondi europei contro la disoccupazione giovanile, prepara anche la revisione della riforma Fornero sul mercato del lavoro, e spera pure di poter convincere la feldmarescialla Merkel a scorporare dal computo del deficit gli investimenti infrastrutturali, una mossa abile che darebbe fiato all’economia, agli appalti, ai lavori pubblici, insomma posti di lavoro. Ma tutto questo è Monti-bis, gestione ordinaria di una situazione straordinaria ed emergenziale, mentre l’iniziativa politica delle larghe intese è tutt’altro affare, e si complica, lambisce pericolosamente i confini della palude, in un disordine che non rinvia alla luce di un pricipio ma al principio della fine. E’ per questo che Napolitano si preoccupa e pensa che giugno sia il limite massimo, dopo di che il presidente tirerà il guinzaglio finora tenuto lasco, e ancora una volta, di mala voglia, si farà supplente e lui stesso motore riluttante dell’azione politica. “La settimana prossima ci sarà l’agenda delle riforme. Tutto l’ingranaggio può essere attivo per la fine del mese”, dice Quagliariello che pensa anche all’articolo 49 e al finanziamento pubblico dei partiti. “Il mio ministero dev’essere il motore del processo, deve incentivare l’azione”, dice Quagliariello, “dobbiamo subito sconfiggere il rischio che il dibattito sulle riforme si riduca alla cantilena sulla Convenzione e su chi debba presiederla”. Ed è evidentemente un gioco di complicati equilibri, che allude alla virtù ma potrebbe anche nascondere le insidie del calcolo di vantaggio personale e politico di ciascuno degli attori sulla scena, sia del Pd in stato confusionale sia del Pdl che trattiene – a stento – i suoi istinti elettoralistici forse soltanto perché i sondaggi, pur lusinghieri, non danno la certezza di una solida maggioranza nel sempre instabile Senato.
Ed è per questo che al Quirinale tira un’aria non del tutto favorevole alla riforma elettorale, almeno non come intervento da avviare subito, per via preferenziale. Letta si è sbilanciato sulla riforma del sistema di voto, e Violante insiste anche con il Foglio, precisando i termini della proposta: “Basta un solo articolo di tre commi. Comma uno: eliminare il porcellum e reintrodurre il mattarellum. Comma due: eliminare lo scorporo. Comma tre: se vengono fuori due maggioranze diverse alla Camera e al Senato si va al ballottaggio per l’attribuzione del premio di maggioranza in entrambe le Camere”. Ma al Quirinale non sono convinti, anzi pare che Napolitano sia rimasto un po’ sorpreso dall’iniziativa di Letta sulla legge elettorale: se le ambizioni sono davvero grandi, se bisogna sul serio dare un senso alle larghe intese, allora la riforma del sistema di voto, quella, dovrebbe arrivare per ultima, alla fine di un profondo rivolgimento dei meccanismi istituzionali, e solo quando si è finalmente deciso che si può andare alle urne, a lavoro completato. Più facile, per iniziare, l’abolizione delle province. Il Quirinale suggerisce di cominciare dalle cose semplici. Ma di cominciare.


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