Eros non le uccide mai

Pietrangelo Buttafuoco

Anche se ci sono più vedove che vedovi, ebbene, sì: se ne ammazzano di più di donne. Più degli uomini. Ed è per questo che la legge sacra della Cavalleria impone all’uomo di dare alla donna una corte – sia essa un harem, una domus, un chiostro regale – dove tutto può accadere, perfino l’amore, fuorché ucciderla perché quell’odalisca, quella sposa, quella regina è domina e vale per lei la regola di Shakespeare: “Piano, toccatela piano, perché fu donna”. Se ne ammazzano di donne. Ma prima che il cercarsi tra femmine e maschi diventi un tabù, qualcuno ci gioca. Osservate la scena. E’ notte. Tutto si svolge sulla balaustra della terrazza di Castelmola, sopra Taormina.

    Anche se ci sono più vedove che vedovi, ebbene, sì: se ne ammazzano di più di donne. Più degli uomini. Ed è per questo che la legge sacra della Cavalleria impone all’uomo di dare alla donna una corte – sia essa un harem, una domus, un chiostro regale – dove tutto può accadere, perfino l’amore, fuorché ucciderla perché quell’odalisca, quella sposa, quella regina è domina e vale per lei la regola di Shakespeare: “Piano, toccatela piano, perché fu donna”.
    Se ne ammazzano di donne. Ma prima che il cercarsi tra femmine e maschi diventi un tabù, qualcuno ci gioca. Osservate la scena. E’ notte. Tutto si svolge sulla balaustra della terrazza di Castelmola, sopra Taormina. E’ un’estate di qualche anno fa. Sono gli anni 80. Lei è affacciata e attende. Lui avvita il silenziatore sulla canna della pistola. Lei si sporge e si porge. Lui mette il caricatore e si avvicina a lei. Lei, vestita di hot pants, si mette a cavallo della pistola. La bocca dell’arma, col silenziatore, sbuca dalle sue gambe e lui spara. Sono sette, otto colpi che viaggiano nella notte di Taormina. Tra le cosce. Tutto questo per fare calore, torneo e ghigno. Lei si sfinisce di stantuffo. Lui non controlla più il rinculo del ferro. Rischiano che il cane dell’arma azzanni le carni morbide ma lui l’ha già abbracciata e lei inala tutto quello svaporare di piombo. Una notte, quella, dove tutto può accadere fuorché finire uccisi, piuttosto sparati, ma per approssimazione.

    Se ne ammazzano di donne ma le signore dell’impegno, purtroppo per loro, ripudiano il codice d’amore cortese. Vogliono tutto eccetto il benedetto malinteso della natura, quello che fa sovrano il ruolo di signore & signori. E’ quel mondo dove finalmente arriva la figlia femmina e la casa diventa tana di felicità e gioia; come quando poi s’apparecchia per lei il matrimonio o perfino il noviziato perché è più di una benedizione il suo comando, il suo desiderio e il suo volere. Comando, desiderio e volere affidati al padre, l’esecutore materiale. Giammai alla madre, vestale gelosa.
    Il mondo degli antichi non fa più testo, peggio per tutti noi, nel mondo degli antichi (ancora cinquant’anni fa, in Sicilia) si applicava naturaliter la legge speciale della morte più che speciale per chiunque si fosse macchiato del sangue di una donna. Si disponeva l’uccisione dell’assassino e i parenti del malacarne non si osavano di reclamare vendetta. Per la troppa vergogna.
    L’antico non sbaglia mai ma queste donne impegnate hanno ragione a temere la statistica del “femminicidio”, un termine preso in prestito alla banalità del politicamente corretto in attesa di trovare parola più precisa; hanno ragione perché il maledetto malinteso della civiltà snaturata ha ormai fatto dei padri, dei fidanzati, dei figli perfino, la parodia dell’essere maschio.
    Ci sono più donne che uomini, il calcolo è questo, ma se ne ammazzano a non finire mai di ragazze, di mamme, di fidanzate, di soldatesse, di prostitute, di professioniste. Qualcuna, come Lucia Annibali – avvocato, 35 anni – è stata sfregiata dall’acido muriatico. Cercate su Internet la sua foto. E’ bellissima. Violarne la grazia è tipico di chi, al pari del maiale, altro sguardo non regge che quello del fango dove si specchia.

    Il calcolo è impari. E se pure c’è stato un solo caso di donna che ha scannato la propria donna (a Gussago, in provincia di Brescia, Angela ha ucciso con due colpi di pistola Marilena), è sempre un parodiar del maschio a far cadere l’eros dentro thanatos che non è più il baratro di concupiscenza del romanticismo ma la botola del più sanguinoso luogo comune, un computo da cronaca nera prossimo a diventare mappazza d’ideologia.
    Più degli uomini, dunque, sono le donne a crepare nella guerra dei sessi. Ovviamente non se ne può fare una mobilitazione di coscienza o una raccolta firme perché già l’adesione di Adriano Celentano e Claudia Mori alla campagna di Concita De Gregorio per la costituzione degli Stati generali sulla violenza contro le donne rende tutto molto piritollo. Lui, oltretutto, è meritatamente autore del manifesto del possesso amoroso qual è “Una carezza in un pugno”, la canzone dove da geloso giustamente dice “mia, mia e mia” e sparge pugni in luogo di carezze, perché il tema dei temi – oggi, oggi che gli uomini uccidono le donne – è l’uso e l’abuso del possessivo mio.
    Il senso del possesso è di certo il sesso. C’è anche un che di “ossesso” nell’intimo etimo del principio generatore della volontà di potenza che diventa volontà di volontà per poi sciogliere le trecce all’Essere innanzi alla volontà di verità. Con questo non voglio rubare il mestiere a Michela Marzano, torno presto nei miei ranghi di oplita, ho ben letto l’Idòla di Loredana Lipperini e Michela Murgia “L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!” (Laterza, euro 9,00) ma tutto questo uccidere perché si ama per fortissimamente amare e meglio marchiare di “mio” ogni “mia” non riguarda l’uomo antico, piuttosto quello più profondamente moderno, il maschietto più autenticamente etico, quello più amico delle donne, quello arrivato dritto dritto dalla promiscuità militante, insomma: l’impotente.

    Succede che Bertrand Cantant, l’amico di Manu Chao, artista impegnato, fa di Marie Trintignant, la sua fidanzata, una maschera di sangue. Lui non è un criminale, per Libération è “bisognoso d’aiuto”. L’amore confina con la follia. Qui non c’è gioco. Magari c’è il disagio. Ecco, c’è un’altra vittima, per dirla con l’onorevole Boldrini, che diventa carnefice. E c’è la compassione per automatismo libé. Bruno Carletti, direttore artistico dello Sferisterio di Macerata, uccide Francesca Baleani, l’ex moglie. La carica in macchina e la scarica in un cassonetto. “Francesca”, dirà padre Igino Ciabattoni, responsabile della comunità di recupero che ospita l’assassino, “non troverà più un uomo che possa amarla così tanto”. Ancora una volta: “Un atto d’amore, cieco come la morte”. Lipperini e Murgia sono riuscite a costruire con il loro pamphlet un catalogo dell’orrore dove però – dicono – “è mancato il collegamento: sono, anzi, mancate le parole che tenessero insieme morti atroci quanto ritenute isolate, non ripetibili”.
    Provo a metterci delle parole – oltre l’amoricidio – e spiegare che quelli che non sanno prendere le donne se non uccidendole non sanno dire “mio” perché sono ubriachi di “io”. Hanno un’erezione cerosa e zero colpi in canna e non si tratta certo della pistola del femminicidio, il capitolo sociale di un’umanità maschia senza più forza, il “vir”, zero colpi nel senso proprio di mancare al principio ordinatore del venire al mondo con responsabilità, amore cortese e dovere perché solo il rito – con la sua liturgia di possesso – conserva l’eros dentro le sue pulsioni buie senza incappare nel codice penale.

    La verità dell’amore, nelle mani di chi ci sa fare, è uno squarcio dove da fuori c’è il sangue vivificante della vita mentre – dentro – nella carne, c’è il fuoco. Mai la messa a morte. Certo, “meglio morta che puttana”, questo predica l’antico della propria donna se questa poi ha fatto del proprio nome strame. Ma quel “meglio morta” non è assassinio, al contrario: è un continuare a vivere nel dolore disperato del disonore. Mai perdonare, mai, non si può perdonare. E la stessa donna ha disprezzo di chi cicatrizza la ferita del tradimento. Mai dimenticare perciò, mai, non si può scordare ciò che fa nell’anima uno scempio perché l’amore, come il sangue coi figli, s’avvelena forse ma non si disperde. Il soffrire d’amore è spirituale, un atroce friggere cieco delle carni, non un trauma della psiche. E non è paritario il dolore, non conosce uguaglianza, è debolezza propria del portatore di seme, biologicamente inferiore a chi, al contrario, è donna generatrice di nuova vita.
    Non si può disinnescare la tossina dell’innamoramento, quel farmaco omeopaticamente salvifico, con l’edificazione di un tabù culturale contro il maschio. Capisco che a qualcuno sia venuto in mente il mettere da parte l’istinto a favore di una civilizzazione della copula. Dopotutto neppure gli stalloni riescono a coprire le giumente senza l’ausilio del veterinario che, oplà, guanti pronti, posiziona ciò che c’è da posizionare.
    Piano piano arriverà questa civiltà del rapporto paritario. Pare che non ci sia più la donna, non c’è l’uomo, c’è solo la persona. E’ facile sospettare che il tentativo di trasferire la rivoluzione – la donna in luogo del proletariato – abbia preso il sopravvento su altri fallimenti ideologici ma desiderare è avere e il maschio, non la “persona”, nel recinto sacro dell’Amor cortese, prende possesso di quella carne in ragione dei due punti di suggello e sigillo: l’osso sacro e la ghiandola pineale. E la copula, ovvero il contatto con il coccige e con la nuca – come fanno i gatti quando acchiappano la micia da dietro per addentarla al punto da denudarne, dei peli, la cuticagna –, altro non è che il cogliere la rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state.

    Come si faceva l’amore di una volta. Quando gli dèi s’affacciavano dall’Himalaya per compiacersi degli innamorati fradici di desiderio e di respiro. Tutto ciò non è il porno. Qui si procede di fisiologia. E di furor sacro. Mircea Eliade alla mano. Altro che la delicata Costanza Miriano, autrice di “Sposati e sii sottomessa”, fustigata non poco da Lipperini e Murgia.
    L’amplesso è però un dettaglio. Il mettere carne sopra carne è, infatti, solo un abito dell’istinto: quello della sopravvivenza e – come da codice platonico, ossia il “Simposio” – ci si riproduce solo nel bello. Non potendo generare carne, si genera l’idea. Mai la messa a morte.
    L’amplesso è la vera astuzia della storia se solo fosse la storia matrice delle generazioni mentre invece è la sopravvivenza, la vera padrona delle erezioni e degli umori, dunque tutto un aggiungere piani al grattacielo del destino a due, quello del maschio e quello della femmina, dove ogni cosa è chiara, chiara assai. Don Rafaele Cutolo, ’o Camorrista, lo diceva fuori da ogni metafora: “Quando si fotte riesce sempre bene perché ciascuno sa che cosa vuole l’altro”.
    Le donne si fanno femmine e selezionano il patrimonio cromosomico più forte, più ricco, più potente. Nel benedetto malinteso della natura si è sempre femmine e – nel proprio harem, nella propria domus, nella propria reggia – dunque nel sottinteso benedetto della loro più segreta natura, le donne svelano il primo punto: quello della ghiandola pineale, dunque l’anima. E poi ancora l’altro punto: l’osso più sacro. Quello che nella risulta ancestrale dei secoli dei secoli è solo l’ombra di ciò che fu coda.
    Come si fece sempre. Furono i missionari cristiani, abusando della credulità dei selvaggi, a riposizionare gli incastri della conoscenza carnale. Abrogarono il posizionarsi al modo del “more ferarum” e dannarono per sempre come animalesco, dionisiaco e peccatore il principio del piacere. L’abito non fa il monaco, il New York Times avrà avuto i suoi motivi per dire che la moda italiana, fatta eccezione per Bottega Veneta, Prada, Gucci e Marni, è fatta solo per le zoccole (“italian fashion in the Time of the Trollop”) ma la minigonna non fa la scostumata. Tra collo e schiena, tutto quel percorrere di aulente malia non può che avere migliore rappresentazione nella Valentina di Guido Crepax. Provate a ricordare quel suo incedere inesorabile, non sarebbe stata a suo agio nella tavernetta del bunga-bunga ma avrebbe fatto la felicità di Cielo d’Alcamo.

    L’abito non fa il monaco, figurarsi la memoria della letteratura ma chi più di ogni altro regge la fatica del presagio in questa Italia orba di virtù maschia, in questo precipitare di morte e amore, nella follia e nel lutto è Boccaccio che, nella novella di Nastagio degli Onesti, nella quinta giornata del “Decameron”, “ragiona di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse”.
    Provo a farne il racconto: Nastagio è un nobile ravennate che s’innamora senza tregua della figlia del nobilissimo (più di lui) Paolo Traversari. Per conquistarla ordina feste e cene di gran lusso. Ma quella lo rifiuta con divertimento e lui continua a sperperare energie e denari, fin quando per troppo amore, per evitare di ammazzarsi e di dilapidare tutto, va via dalla città.
    Un venerdì d’inizio maggio, proprio un venerdì come questi, Nastagio vede una scena che Botticelli illustrerà poi per Lorenzo il Magnifico (ne avrebbe fatto un regalo di nozze, quasi un memento: “Amare se non vuoi morire”). Una giovane donna corre nuda, due cani la inseguono e tentano divorarla variamente, mentre un cavaliere armato le urla dietro minacce di morte. Nastagio vuole difenderla, ma il cavaliere si ferma a raccontare la propria storia. Aveva amato quella ragazza follemente, ma non ricambiato, si era suicidato. Lei non aveva avuto nessun pentimento, nessuna pena, ed era stata con lui condannata alla tremenda punizione: tutti i venerdì lui la caccia con i cani feroci, la minaccia di morte, l’ammazza e ne vede ricomporsi il corpo. Il venerdì successivo e per chissà quanto ancora, si ripete la stessa sequenza barbara.

    Devi amare se non vuoi morire. O, almeno, ricambiare. Questo è il succo. E Nastagio, infatti, ha una sua trovata. Il primo venerdì utile, invita l’amata e tutti i parenti a un desinare sul luogo della scena crudelissima che, tempestiva, si ripete. Il cavaliere che strazia la donna e che non è timido, racconta la storia pure ai banchettanti. La più terrorizzata di tutti è proprio la Traversari, che subito riflette sul sentimento negato e sulla mancanza di rispetto verso quell’amore e, insomma, “temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio”. Non solo, con il suo gesto educa le donne di Ravenna, che d’improvviso diventano tutte più gentili e amorevoli con gli uomini.
    Tutto un obbligo d’amore per non dover morire. Sempre nel “Decameron” e sempre in letteratura, c’è anche la tradizione del cuore dell’amato dato in pasto per vendetta, dal marito, alla moglie traditrice, che magari su indicazione del consorte l’aveva pure cucinato a guisa di manicaretto. E in tema di cuori mangiati, ma davvero, ci sarebbe Pasquale Barra, detto ‘o “Animale”, un esponente della nuova camorra organizzata che uccise Francis Turatello in carcere e poi ne addentò gli organi, ma adesso – proprio no – non voglio certo rubare il mestiere a Roberto Saviano, torno nel rango mio di oplita e provo a spiegarmi che uccidere, per questi tapini, è forse un oltrepassare il rito dell’amore, un addentrarsi nel furor, uno stroncarsi al pari di Narciso in tutto quel rimirare se stessi per poi esplodere nelle bolle dell’acqua stagna.

    Approssimarsi d’amore, magari con la pistola in pugno, per volare nella notte di Castelmola, è approssimare la propria dannazione alla morte, controllarne il respiro e lo sguardo di dolore, che è ancora rito, nella rigenerazione di un torneo di pura buia gioia perché, insomma, lo dico da oplita, non esiste una cultura arcaica da sradicare dal nostro guardare negli occhi dell’amore, esiste solo la realtà di Eros che mette a bada Thanatos.
    Esiste la realtà della natura e se proprio la civiltà riuscirà a ucciderla significherà che saranno stati i desideri a determinare i diritti, che si procederà d’inseminazione per tramite di applicazione veterinaria e ci sarà solo la persona, finalmente libera del possessivo ma persa per sempre nella bolla afona e stagna dell’io-io-io che non saprà dire “mio”, anzi, “mia” se non mettendo a morte. Come cosa morta è l’amore di Narciso.

    Post scriptum.
    A proposito dell’episodio di Castelmola. Lui era sì un picciotto malandrino ma la pistola non era la sua. Era della ragazza in hot pants.

    • Pietrangelo Buttafuoco
    • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.