
Bibliografia breve sulla depoliticizzazione della democrazia
In origine c'è la “Repubblica” di Platone, poi il “Catechismo degli industriali” di Henri de Saint-Simon e il “Sistema di politica positiva” di Auguste Comte. Ma anche Pierre-Joseph Proudhon, Karl Marx e Friedrich Engels, in fondo, avevano l'idea che con l'abolizione dello stato e della proprietà privata si potesse passare dal governo degli uomini alla pragmatica amministrazione delle cose. E' poi Max Weber a prevedere, prendendo le mosse dall'evoluzione del sistema industriale di inizio Novecento, che il modello organizzativo della burocrazia continentale, quello dello stato prussiano e del capitalismo renano, si sarebbe affermato in tutto il mondo.
In origine c’è la “Repubblica” di Platone, poi il “Catechismo degli industriali” di Henri de Saint-Simon e il “Sistema di politica positiva” di Auguste Comte. Ma anche Pierre-Joseph Proudhon, Karl Marx e Friedrich Engels, in fondo, avevano l’idea che con l’abolizione dello stato e della proprietà privata si potesse passare dal governo degli uomini alla pragmatica amministrazione delle cose. E’ poi Max Weber a prevedere, prendendo le mosse dall’evoluzione del sistema industriale di inizio Novecento, che il modello organizzativo della burocrazia continentale, quello dello stato prussiano e del capitalismo renano, si sarebbe affermato in tutto il mondo. Per Weber infatti “il paradigma burocratico-monocratico” è la forma in assoluto più efficiente di organizzazione” (è il saggio “Der Sozialismus”, in italiano in “Scritti politici”, Donzelli, del 1918). Ma con la sua previsione Weber non vuol dire necessariamente che la tecnocrazia si imporrà alla democrazia. Per l’economista tedesco saranno piuttosto i partiti a doversi modellare sullo schema “prussiano” inventato dalla Spd.
Un ulteriore passo sulla questione fu fatto nel 1941 da James Burnham, con la sua “The Managerial Revolution” (l’unica traduzione italiana fu editata da Mondadori nel 1946, e il titolo fu tradotto in “La rivoluzione dei tecnici”). L’idea di Burnham era che sia la forma esteriore della proprietà che quella della politica erano ormai un involucro vuoto, nel quale il potere concreto era passato ai tecnocrati, e questo era ben visibile sia nella versione americana del New Deal che in quella dell’Urss staliniana e perfino nell’Europa sotto il controllo di un nazismo che Burnham identificava ancora con l’efficientismo degli Schacht e degli Speer.
Oggi però siamo nell’èra del post fordismo. L’ipotesi di un collegamento diretto tra crisi del modello fordiano e crisi del modello di partito tradizionale – così come era stata formalizzata nel classico lavoro di Roberto Michels “Sociologia del partito politico” – si legge nel recente volume “Finale di partito” di Marco Revelli (Einaudi, 140 pp., 10 euro), che nello stesso tempo cerca di costruire una storia della crisi. Secondo Revelli la saturazione dei mercati avrebbe imposto il dimagrimento delle unità produttive e l’invenzione del just in time. Interpretabile sia a destra come deregulation che a sinistra come rivoluzione antiburocratica, questa evoluzione si estende alle organizzazioni politiche, proprio perché anch’esse richiedono costi fissi ormai insostenibili. La fuoriuscita, però non è vista da Revelli solo in chiave tecnocratica, ma anche come rivendicazione di una nuova forma di democrazia diretta, ovvero ammettendone il rischio populista. Concetti su cui da almeno una ventina d’anni insiste il francese Pierre Rosanvallon, di cui Castelvecchi ha appena pubblicato in italiano “Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia” (279 pp., 22 euro). Dello stesso tenore è pure il libro appena uscito “Non ti delego. Perché abbiamo smesso di credere nella loro politica”, di Aldo Schiavone (Rizzoli, 128 pp., 15 euro). La crisi dei partiti tradizionali è invece oggetto degli studi di Rinald Inglehart (“Valori e cultura politica nella società industriale avanzata”, Liviana, 1993).
In Italia vediamo che la stessa crisi ha prodotto sia Monti che Grillo, e prima ancora sia Berlusconi che Di Pietro. E’ Bernard Manin che in “Principi del governo rappresentativo” (Il Mulino, 2010) osserva come nel passaggio dalla democrazia censitaria ottocentesca al suffragio universale, il voto diretto all’individuo è stato sostituito da quello per il partito, mentre nella società post industriale si torna al voto per il leader. Noto soprattutto per il suo saggio del 1998 sull’“Uomo flessibile”, già nel 1977 il sociologo americano Richard Sennett aveva fotografato “Il declino dell’uomo pubblico” (in italiano edito da Bompiani nel 1982), attribuendolo all’“apocalisse culturale” di un io ipertrofico che, facendo saltare la differenza tra pubblico e privato, avrebbe portato all’“erosione della vita pubblica” – una profezia 27 anni prima di Facebook. E’ avvenuta una specie di sostituzione delle élite democraticamente elette da parte di élite decidenti irresponsabili e addirittura invisibili, un fenomeno che è stato descritto con efficacia da Zygmunt Bauman, il creatore del famoso slogan sulla “società liquida” (in particolare “Dentro la globalizzazione”, Laterza, 1999). E la società è “liquida” perché governata da un potere immateriale (finanziario, ma non solo) capace di agire secondo una logica di flusso che sottomette i luoghi. D’altra parte, secondo la tesi di Cristopher Lasch in “la ribellione delle élite” (Feltrinelli, 2001), anche le élite legate ai luoghi avrebbero perso il contatto con le masse.
In un “mondo liquido”, è evidente che ogni forma di “programmazione” è diventata impossibile, e senza programmi non esiste più il partito classico, praticamente non esiste più la politica. Di qui la necessità di un “capitano” che sul “liquido” sia in grado di “navigare a vista” correggendo la rotta in continuazione, sia egli il capitano di lungo corso diplomato (cioè il tecnocrate), o il navigante di chiara fama che riceve la delega non sulla rotta ma sulla fiducia che riuscirà ad arrivare comunque in porto (ovvero il leader del partito personalizzato). Due facce della stessa medaglia depoliticizzante.


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