Teologia politica di Napolitano

Giuliano Ferrara

Il discorso di Giorgio Napolitano non era un’omelia, era un discorso politico schietto, severo, un brusco richiamo al principio di realtà che ha stordito un Parlamento in preda a una sindrome adolescenziale, incapace di districarsi. Se indagate su questa sindrome (sarebbe meglio dire: su questo morbo) vi accorgerete che quel discorso aveva come contenuto un concetto teologico fatale, che percorre tutto il Novecento, passa attraverso il Vaticano II, le leggi su pillola, divorzio e aborto, la mutazione di costumi, la bioingegneria del bimbo bello biondo e sano, e arriva ai giorni nostri. Insomma, quel che ha detto Napolitano non era un banale monito protocollare (ovviamente gli è capitato di monitare secondo il rito più che secondo il concetto): era una sparata filosofica e teologica.

    Il discorso di Giorgio Napolitano non era un’omelia, era un discorso politico schietto, severo, un brusco richiamo al principio di realtà che ha stordito un Parlamento in preda a una sindrome adolescenziale, incapace di districarsi. Se indagate su questa sindrome (sarebbe meglio dire: su questo morbo) vi accorgerete che quel discorso aveva come contenuto un concetto teologico fatale, che percorre tutto il Novecento, passa attraverso il Vaticano II, le leggi su pillola, divorzio e aborto, la mutazione di costumi, la bioingegneria del bimbo bello biondo e sano, e arriva ai giorni nostri. Insomma, quel che ha detto Napolitano non era un banale monito protocollare (ovviamente gli è capitato di monitare secondo il rito più che secondo il concetto): era una sparata filosofica e teologica.
    Nel libro eccellente di Roberto de Mattei sul Concilio troverete citato a pagina 87 un articolo scritto nel 1946 dal domenicano francese padre Réginald Garrigou-Lagrange. Siamo in piena stagione pacelliana, e questo grande teologo poco più che sessantenne se la prende con la Nouvelle théologie, cioè con il pensiero cristiano progressista ricalcato, a suo giudizio, sulla vecchia eresia “modernista” che nei primi del Novecento era stata condannata da san Pio X nella enciclica Pascendi e in altri sapidi documenti apostolici. Quel pensiero, dopo la morte di Pacelli, invaderà il Concilio di Giovanni XXIII e Paolo VI.

    Sono gli anni Sessanta, e in qualche decennio viene giù tutto, il mondo si gira su sé stesso ma non ritrova il punto di partenza, l’origine, la sostanza delle cose, il loro essere: in termini filosofici, il cambiamento dei costumi e del linguaggio e delle ansie e delle nevrosi contemporanee (sesso incluso, matrimonio incluso, donna moderna inclusa, morte del padre inclusa, politica spappolata inclusa, disciplina razionale abrogata inclusa) trova invece il fenomeno, quel che appare e che ha vita non in ragione dell’essere immutabile, dell’essenza, ma del divenire e dell’evoluzione storica. La filosofia della Rete, dell’immateriale, dell’immaginario, dell’intimo messo in piazza è solo la suprema manifestazione a sfondo religioso di quello slittamento teologico dall’essere al fenomeno. I partiti inconcludenti, i grillini demenziali e “alieni”, le vanità e le nevrastenie degli intellettuali della gauche sempre distruttivamente indignata, il ciclo dell’odio personale cieco (che c’è sempre stato) divenuto etica sociale di massa o variante anarchica della democrazia: tutto questo e molto altro si spiega con filosofia e teologia, altro che. E non mi dite che sono cose difficili, sono concetti facilissimi.

    Seguitemi, per favore, nella lettura dell’articolo di padre Garrigou-Lagrange. Polemizzando con i teologi riformatori che hanno dato una nuova veste secolare e secolarista allo spirito umano, contribuendo a emancipare chiesa e mondo da tante brutture dottrinarie intenibili ma anche dalla robusta sostenibilità dell’intelletto adeguato all’essere, il domenicano discepolo di san Tommaso d’Aquino (un tipo forte nella comprensione della realtà, un po’ diverso – diciamo – da un cazzabubbolo come Odifreddi o da un Flores o da un Mancuso) così scrive: la Nuova Teologia (cioè il progressismo preconizzato e sintetizzato dalla chiesa conciliare degli anni Sessanta) “ha accettato la proposta che le è stata fatta: quella di sostituire alla definizione tradizionale della verità, adaequatio rei et intellectus, come se fosse chimerica, la definizione soggettiva: adequatio realis mentis et vitae. La verità non è più la conformità del giudizio con la realtà extramentale (oggettiva) e le sue leggi immutabili, ma la conformità del giudizio con le esigenze e l’azione della vita umana, che si evolve continuamente”.
    Non dite che non avete capito, ipocriti lettori, miei simili, miei fratelli (come diceva Baudelaire). Non fate spallucce, non fate gli snob, non tradite la missione di questo giornale, un social network di carta fatto per i pochi intimi che hanno deciso di cercare. Avete capito benissimo. E’ chiarissimo. E’ chiaro che senza questa svolta nel modo di definire la conoscenza del reale non ci sarebbe spazio, non dico per Vito Crimi, non dico per i fessi che urlano Rodotà-tà-tà, non dico per gli adoratori del Deus banalis savianeo, non dico per i teorici della abolizione della differenza di genere tra maschio e femmina, non dico per gli abortisti libertari, non dico per i dottor Mengele dei laboratori biologici alla “cerco un bimbo”, non dico per i cretini politici che pensano possibile fare i governi parlamentari o i presidenti senza i numeri parlamentari, ma invece lo dico, lo dico e ridico esattamente questo. La rivoluzione modernista e postmodernista di cui siamo figli, e che ci spinge a scherzare con YouPorn come se fosse il paradiso delle Uri, con la pillola come se fosse la libertà dai figli, con il multiculturalismo come resa al caos, ha le sue radici in questo modo di conoscere cinematografico e televisivo (in senso cattivo), cinetico, nevrotico, evolutivo, instabile, parossistico. Invece di “ho famiglia”, mitico emblema longanesiano, abbiamo messo sulla bandiera nazionale un “senza famiglia”, e ci sentiamo single appartenenti a una comunità o società civile che è fatta di disconoscimento della realtà, intesa come conformazione dell’intelletto alla cosa. E lo abbiamo fatto perché ce lo ha insegnato un geniale ma devastante pensiero filosofico, quello della filosofia dell’azione di Maurice Blondel.

    Vabbè, chiuso con la pazzia o mania filo-teologica. Torniamo a bomba. Da qualche parte dobbiamo ricominciare a essere seri, a lasciare il fenomeno alla sua apparenza, a confrontarci con la realtà, in politica, nella cultura, nella civile convivenza di diversi. Questo riguarda partiti e stampa, social network e persone. La società non esiste, esistiamo noi con il nostro intelletto da adeguare alla cosa, e alla realtà, anche quella dei numeri quando si sta in Parlamento. Un vecchio comunista come Napolitano, che non a caso ha l’età del secolo passato, ci ha dato una lezione politica stringente, il cui significato non è nemmeno scalfito dalle divertenti rimbeccate di un Travaglio contro il Minculnap. Chi vuole intendere intenda. Basta pippe. E ho detto tutto.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.