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Nichilisti al parlamento
Prodi fatto secco da un Pd allo sbando, ma al buio
Nichilismo politico. Agire senza calcolare le conseguenze dell’azione. Così. Al buio. Spinti da una propulsione oscura, da una logica vendicativa, da un’insopportazione caratteriale, culturale, e da un’ambizione politica che poggia su una sola certezza: distruggere più avversari possibile, scompaginare i giochi, spaccare il partito e la coalizione, fare sponda con chiunque pur di raggiungere lo scopo immediato, distruttivo, anche senza avere una mèta definita. La malattia nichilista è un morbo parlamentare conosciuto, e la Prima Repubblica morì a quel modo, tra le bombe di mafia e l’imperversare di bande in conflitto nel corso dell’elezione di un presidente. Cento e più franchi tiratori, ieri.
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Nichilismo politico. Agire senza calcolare le conseguenze dell’azione. Così. Al buio. Spinti da una propulsione oscura, da una logica vendicativa, da un’insopportazione caratteriale, culturale, e da un’ambizione politica che poggia su una sola certezza: distruggere più avversari possibile, scompaginare i giochi, spaccare il partito e la coalizione, fare sponda con chiunque pur di raggiungere lo scopo immediato, distruttivo, anche senza avere una mèta definita. La malattia nichilista è un morbo parlamentare conosciuto, e la Prima Repubblica morì a quel modo, tra le bombe di mafia e l’imperversare di bande in conflitto nel corso dell’elezione di un presidente. Cento e più franchi tiratori, ieri.
Beppe Grillo incassa il fallimento di Romano Prodi, netto, tragico, carico di conseguenze sul Pd, nella sua dimensione tribunizia bene espressa dal successo della candidatura di Stefano Rodotà e dall’essersi messo Nichi Vendola sulla sua scia; ma Silvio Berlusconi incassa più di lui, perché nel momento in cui Pier Luigi Bersani si dimostra incapace di controllo sul suo esercito, e il Pd rovescia sul paese e le istituzioni un malessere che ha l’aria terminale, la radioattività del Cav., la sua presunta inadeguatezza a discutere, trattare, stare dentro il gioco, e per acclarata impresentabilità, sfuma come un incubo nel buio totale della politica. Berlusconi, che pure aveva reagito con durezza al lancio della candidatura di Prodi, ora è di nuovo tentato dalla via di una intesa costruttiva, che dimostri la sua padronanza del gioco e abbia riflessi sul dopo, sulla gestione della questione del governo o delle elezioni politiche. Il Cav. riapre a caldo un canale di dialogo con Mario Monti, con un incontro notturno alla vigilia della quinta votazione e della riunione dei grandi elettori del Pd che si leccano le ferite e cercano disperatamente una via d’uscita. Fa circolare diverse possibili disponibilità, a partire dal nome scartato della rosa, quello di Giuliano Amato, che è sempre stato, sebbene in una dimensione di concordia discors, collegato a quello di Massimo D’Alema, talora ambiguamente.
(A D’Alema ovviamente si attribuisce la responsabilità massima della congiura, aveva proposto una consultazione a voto segreto e gli fu risposto con l’acclamazione di Prodi. Questi scenari da voto segreto sono sempre difficili da ricostruire, e pende il dubbio su qualunque apparente certezza. Ma certo Prodi era stato un avversario strategico di D’Alema fin dai tempi dei dibattiti di Gargonza, il castello borghigiano in cui venne per la prima volta allo scoperto la grande e mai terminata rissa civile, politica, e di cultura, tra un Prodi ulivista nel senso dello scudo della società civile e della dannazione della politica dei partiti, e un D’Alema suo contrario. E niente era cambiato da allora, se non la lunga serie di affronti che, complice Marini e complici via via molti altri, avevano reso incandescente il conflitto tra i due rispettivi mondi. Fino a quell’applauso per il Prodi candidato identitario chiesto da Bersani, che ha fatto infuriare il vecchio capo ormai fuori dal Parlamento ma non dai giochi parlamentari).
Berlusconi ha dunque un campo di flessibilità e di promesse e di minacce elettorali molto esteso da praticare. E’ incredibile o quasi questo allungarsi della lista dei leader ulivisti pensionati nel corso del lungo, interminabile regno di Berlusconi su un pezzo non proprio trascurabile di Italia. Matteo Renzi, specularmente, incassa i frutti della dissoluzione, e partecipa in modo semidefilato ai giochi di guerra e di nichilismo cercando di rappresentare la speranza di una svolta che metta gli incubi nel dimenticatoio, che faccia pensare al futuro un partito condannato a rivivere il peggio del passato. E i due si sono parlati riservatamente, ormai il disgelo è obbligato. Bersani non si dimette, forse perché nessuno mai vorrebbe oggi il suo posto, ma è questione di giorni. Ha perso le elezioni. Ha perso la sfida del governo e ha paralizzato il settennato di Napolitano con la sua ostinazione contro un’intesa su un governo del presidente. Ha perso con il candidato costituzionale condiviso. Ha perso con il fondatore o cofondatore dell’Ulivo, scelta identitaria. E’ più di un capro espiatorio, è il colpevole oggetto della compassione comune.
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