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Marini è una pecetta, republicones contro, forse regge
Sul Quirinale si prospetta il solito scontro di cui nessuno è in grado di prevedere l'esito. Establishment e lobby militanti di vario ordine, dentro una filosofia dell'intransigenza e della canea antiberlusconiana, contro quel che resta di un sistema dei partiti che cerca e, pare, trova in Berlusconi una sponda ragionevole. Il potere giudiziario d'assalto sta a guardare la preda ambita e i movimenti che si scandiscono intorno a essa. L'incognita è il voto segreto, accordi relativamente trasparenti, nomi indicati e numeri ci sono, ma poi sono i singoli che decidono con la scheda.
Sul Quirinale si prospetta il solito scontro di cui nessuno è in grado di prevedere l’esito. Establishment e lobby militanti di vario ordine, dentro una filosofia dell’intransigenza e della canea antiberlusconiana, contro quel che resta di un sistema dei partiti che cerca e, pare, trova in Berlusconi una sponda ragionevole. Il potere giudiziario d’assalto sta a guardare la preda ambita e i movimenti che si scandiscono intorno a essa. L’incognita è il voto segreto, accordi relativamente trasparenti, nomi indicati e numeri ci sono, ma poi sono i singoli che decidono con la scheda: e non c’è il mandato imperativo, perché il dottor Gribbels ha fatto la Rivoluzione senza ghigliottina ma ancora i rappresentanti del popolo sono soggetti liberi.
Ieri mattina il gruppo editoriale di Carlo De Benedetti, incalzato e fortemente condizionato dalla lobby degli intransigenti e dei moralisti manettari, aveva dato segni di squilibrio. Nel senso che ha cercato di mettere il Pd, partito di riferimento, con le spalle al muro: Bersani, tira fuori un nome antiberlusconiano, gridava in prima pagina nel quotidiano di Scalfari e Mauro una accorata Ecuba, Barbara Spinelli, sempre in lutto per le sorti della democrazia d’assalto, corrotta dai partiti. Un siluro ai nomi pesanti della rosa, tra cui Amato e D’Alema. Su un altro registro, di temperamento evidentemente meno stravolto, si muoveva la candidatura, rilanciata da Mauro con prudenza, di Sabino Cassese, il giurista giusto di cui vi abbiamo fatto ieri il ritratto. Ma il suo declino come alternativa di mezza e non isterica scelta civile ha alimentato i fuochi. Alla fine anche Mauro, direttore del quotidiano, dopo aver un poco pasticciato con il nome di Sergio Mattarella, politico democristiano ora nella Corte costituzionale, figlio del vecchio feudatario politico siciliano Bernardo e fratello del povero Piersanti ucciso dalla mafia, ha virato su Rodotà come minaccia grillesca, addirittura. A mezzo pomeriggio il risultato del tourbillon era questo: Franco Marini candidato a presidente della Repubblica in base a un accordo, che tutti dicevano ragionevolmente chiuso e sigillato, imperniato sui due partiti maggiori, il Partito democratico e il Popolo della libertà. Accordo ovviamente esteso ad altre formazioni parlamentari di centro di sinistra e di destra, grillini esclusi, renziani fortemente dolenti e in rivolta, e altre varie doglianze com’è costume in questi casi. Ci si deve credere? Reggerà fino a stamane? Passerà indenne la notte, codesto accordo? Passerà la prova del voto segreto alle Camere riunite (ore 10 fifa tanta). E poi: quale ne sarebbe il senso?
Il senso è semplice. Un candidato messo in comune deve essere in partenza un riferimento per un numero di parlamentari superiore alla maggioranza qualificata prevista dai primi tre scrutini per il Quirinale, e Giuliano Amato sembrerebbe debole sotto questo profilo per le obiezioni di Vendola, della Lega e di altri settori del corpo elettorale presidenziale. D’Alema forse sarebbe più forte, ma pesa, come pesò sette anni or sono, la difficoltà di Berlusconi di spiegare una simile scelta ai suoi. Forse D’Alema avrebbe una caratura strategica (ma c’è chi ne dubita) per spingere davvero in avanti la situazione, e schiaffeggiare l’antipolitica con riforme di sistema, ma senza l’accordo convinto con il Pdl niente da fare. Franco Marini è un altro discorso. Il cattolico, il sindacalista, l’abruzzese approdato a una onorata carriera di presidente del Senato, l’uomo dell’Ulivo aperto al dialogo con gli avversari, questo è Marini, alla bella età di ottanta anni; è insomma una specie di anti Prodi con spinte caratteriali anche forti ma non risentite e vendicative. E’ un po’ una pecetta, non ha uno standing internazionale persuasivo, non è la cura da cavallo che a molti sembra necessaria, ma è anche un tipo dignitoso, low profile, che non solleva tremende obiezioni se non negli ambienti che tentano la scalata al colle del Quirinale in nome di confusi progetti di palingenesi valoriale e di folli prospettive di assalto al primato e alla serietà della politica, cavalcando una tigre demagogica spesso del tutto irragionevole e guidata solo dall’istinto a uccidere l’Arcinemico. Bisogna vedere come va a finire, però, perché i traumi politici e civili della Repubblica sono tanti, e non è detto che l’accordo regga.


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