
L'Italia si autoesclude dalla grande torta dei format tv, ed è un peccato
Uno dei ritornelli che si sente spesso ripetere a proposito della televisione italiana è che si fanno pochi programmi originali e che viene importato tutto dall’estero. Le cose non stanno affatto così. I programmi made in Italy sono molti, forse anche troppi. Il punto è che, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di programmi sbagliati. E perché sono sbagliati? Perché non sono basati su una storia, uno sviluppo narrativo, dei meccanismi solidi: non sono cioè dei veri e propri format. Sono invece quasi tutti basati su un “volto”. Si prende cioè un personaggio (più o meno) famoso, gli si mettono attorno un po’ di figure di contorno et voilà, il programma è fatto.
di Axel M. Fiacco
Uno dei ritornelli che si sente spesso ripetere a proposito della televisione italiana è che si fanno pochi programmi originali e che viene importato tutto dall’estero. Le cose non stanno affatto così. I programmi made in Italy sono molti, forse anche troppi. Il punto è che, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di programmi sbagliati. E perché sono sbagliati? Perché non sono basati su una storia, uno sviluppo narrativo, dei meccanismi solidi: non sono cioè dei veri e propri format. Sono invece quasi tutti basati su un “volto”. Si prende cioè un personaggio (più o meno) famoso, gli si mettono attorno un po’ di figure di contorno et voilà, il programma è fatto.
Cosa c’è di male in questo modo di procedere? Varie cose, a dire il vero, tutte però riconducibili a due motivazioni principali. La prima è che, molto semplicemente, questi programmi molto spesso vanno male. O, perlomeno, non vanno così bene come la popolarità del personaggio famoso attorno a cui il programma è stato costruito farebbe sperare. Un format propriamente detto, infatti, se è ben progettato, ha un forte “tirante” che lo spinge verso una direzione, un fine ultimo che “trattiene” il telespettatore alla visione del format stesso. Se non altro per vedere “come va a finire”, date le premesse e la situazione iniziale. Il format, sempre che sia ovviamente un buon format, è come un perno, attorno a cui tutto il programma gira, rendendo tutto coerente, chiaro, consequenziale. Così funzionano i game show, i reality, i talent: o almeno i migliori tra questi. I programmi di “volti” (che format non sono) invece no.
Questo tipo di programmi hanno una costruzione che si può definire “ad accumulo”, altrimenti detta “cose a caso”. Attorno al personaggio famoso si mettono un po’ di ospiti o situazioni della più frusta tradizione televisiva (il siparietto comico, il numero musicale…) in modo più o meno ragionato e questo è quanto. Un tale modo di procedere, oltre a rendere i programmi di questo tipo quasi tutti uguali e fungibili, li rende deboli, dannatamente deboli. Mancando infatti uno sviluppo e un finale narrativo a cui tendere, il telespettatore se ne va al primo momento di stanca o di calo d’interesse. E quindi, se non si hanno personaggi davvero molto forti, come Fiorello o Benigni, la cui apparizione in video si caratterizza già di per sé come un vero e proprio evento, ottengono raramente risultati d’ascolto interessanti.
La seconda ragione è invece di natura economica. I format, basati su meccanismi e snodi strutturali originali, si possono vendere all’estero, generando profitti; i programmi di volti invece no. A chi può mai interessare, al di fuori dei nostri confini, le performance di Max Giusti, di Fabio Volo o di Geppi Cucciari, tanto per citarne solo alcuni e senza alcuna offesa nei loro confronti? I programmi di volti sono, molto semplicemente, invendibili e inesportabili. I meccanismi-base su cui lavorano molti dei format in circolazione hanno infatti un’efficacia quasi universale, al pari di certe fiabe e intrecci narrativi che attraversano con forza pressoché inalterata secoli e nazioni. I volti, invece, sono relegati nei confini angusti del loro paese (questo almeno per quanto riguarda l’intrattenimento; per la fiction il discorso è ovviamente diverso). E così l’Italia, confezionando quasi solo programmi di volti, è fanalino di coda di un mercato – quello dei format, appunto – che genera ogni anno qualcosa come dieci miliardi di euro.
Ma perché allora ci si ostina a sfornare questo tipo di programmi se non ottengono risultati esaltanti sul piano degli ascolti e sono controproducenti dal punto di vista economico? Molto semplicemente perché è più facile. E’ più facile, in primo luogo, per i dirigenti e i funzionari delle varie reti, quelli che decidono cosa deve andare in onda e cosa invece no. Un volto lo “capiscono” tutti, tutti sono capaci di dire: sì, il signor X o la signorina Y mi piacciono, oppure: no, il signor W e la signorina Z non mi piacciono. E’ più facile giudicare un volto piuttosto che un format “astratto”. Di un format bisogna infatti capire i meccanismi, la struttura, la tenuta potenziale e un sacco di altre cose; di un volto basta invece dire se è simpatico oppure no. E siccome molti di questi funzionari non sono proprio preparatissimi da un punto di vista tecnico, preferiscono prendere decisioni alla loro portata. (Breve considerazione tra parentesi: perché si mettono in posizioni strategiche di altissimo livello persone con poca o punta competenza televisiva? E’ come se mettessero come amministratore delegato di un’azienda automobilistica una persona che non sappia riconoscere un’utilitaria da un autoarticolato).
In secondo luogo è più facile per gli autori e tutti quelli che devono fare il programma. Se infatti si è deciso di puntare tutto su un determinato personaggio come esclusivo elemento di successo, perché rompersi la testa a inventarsi chissà cosa? E’ lui infatti a essere stato “venduto” alla rete, non il programma che gli sta intorno, che ci deve evidentemente essere, ma che, alla fine dei conti, non viene considerato così importante. Ci si limita così al minimo sforzo creativo, ricorrendo, come s’è detto, al solito repertorio di situazioni consuete.
Infine i programmi di questo tipo sono molto appaganti per la star principale. A un artista piace molto di più poter dire: “Questo è il mio programma” (badando bene a sottolineare il “mio”), piuttosto che mettersi al servizio di un programma già preconfezionato, o comunque che rischi di metterlo un po’ in ombra. Per questa ragione sono molto spesso gli stessi vip (che qui da noi hanno ancora un fortissimo potere contrattuale) a spingere in questa direzione, al contrario di quanto avviene nei paesi più avanzati dal punto di vista televisivo, i cui migliori presentatori non considerano affatto sminuente mettersi alla guida di un bel format, anziché ambire a tutti i costi a uno show costruito su misura per loro.
E così, grazie alla complicità di dirigenti, autori e artista, i programmi di volti continuano a moltiplicarsi su tutte le maggiori reti generaliste. Rendendole vecchie, inefficienti e poco competitive.
di Axel M. Fiacco
L’autore insegna all’Università Cattolica di Milano e oggi – dopo Mtv e Mediaset – lavora per Endemol. Ha appena pubblicato “Fare televisione. I format” (Laterza) e questo intervento esce in contemporanea sul sito www.laterza.it


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