_492x275_1598134359276.jpg)
Non è mica male un vescovo descamisado vestito di bianco
Ho un difetto. I papi mi piacciono tutti. Pio XII, sotto il cui regno fui partorito in Roma, ed era vivo ancora perfino Stalin, non lo afferravo, salvo la bellezza sacrale della sua postura e il gesto protettivo delle mani al cielo in San Lorenzo. Poi ho sposato per amore un’americana che lo aveva visitato con la scuola Marymount, la mia Selma che durante la visita, accarezzata che il Papa le ebbe la testa dopo il bacio dell’anello, scoppiò in pianto per l’emozione, la piccina. Inoltre ho letto un paio di sublimi encicliche, quella di cui fu coautore il cardinale Agostino Bea sul metodo storico-critico e quella sulla chiesa come corpo mistico, e sono rimasto pietrificato dalla forza di dottrina.
Ho un difetto. I papi mi piacciono tutti. Pio XII, sotto il cui regno fui partorito in Roma, ed era vivo ancora perfino Stalin, non lo afferravo, salvo la bellezza sacrale della sua postura e il gesto protettivo delle mani al cielo in San Lorenzo. Poi ho sposato per amore un’americana che lo aveva visitato con la scuola Marymount, la mia Selma che durante la visita, accarezzata che il Papa le ebbe la testa dopo il bacio dell’anello, scoppiò in pianto per l’emozione, la piccina. Inoltre ho letto un paio di sublimi encicliche, quella di cui fu coautore il cardinale Agostino Bea sul metodo storico-critico e quella sulla chiesa come corpo mistico, e sono rimasto pietrificato dalla forza di dottrina. Poi ho letto che gli augurava una rapida morte durante le sue preghiere lo storico del Concilio che ha abolito la continuità con i papi Pii dell’otto-novecento, il Vaticano II, quell’Alberigo inteso come Giuseppe di cui non disconosco le qualità di erudito e non mi permetterei mai di discutere le credenziali di credente (io che non lo sono): lo storico a me laico ma laudatore della tradizione cattolica stava sulle palle, un po’, e così Pio dodici, come si dice a Roma, s’innalzò ancora di più. Quanto alla campagna merdaiola di Rolf Hochhut e compagnia sulla complicità di Pacelli con la shoah, niente mi è più estraneo del fanatismo settario, perfino quando si manifesta in funzione filosemita e filosionista, e di semitismo e sionismo sono un genuino cultore, devoto anche in questo caso. L’uso che della cosa fecero le mezze cartucce progressiste tra gli storici e i parastorici, poi, mi convinse del tutto che Pio aveva fatto bene, con Hitler dico, altro che con Videla. Mi spiace sia morto di singhiozzo e abbia sbagliato archiatra pontificio, quel bastardino che lo fotografò da salma e diede le foto ai giornali.
Ecco, vedete. Mi piacciono. Giovanni XXIII, come dissi una volta convivialmente a un esterrefatto direttore dell’Osservatore Romano, aveva perso la brocca. Non perché fosse buono o povero, era cattivissimo e ricchissimo, pesante a portarsi sulla sedia gestatoria, carico di ori e luccicante di gioielli nel suo triregno che nemmanco un faraone. Aveva perso la brocca perché succede a tutti, di perderla, e poi le cose, come diceva Machiavelli, si fanno da sole, e il caso le governa. Sicché Giovanni è morto al momento giusto per la storia e per la leggenda: lui ha aperto la strada, il profeta, e il successore, Paolo VI, ebbe il compito immane e doloroso di farla, la storia, con un Concilio che appena partito si era imbizzarrito, nella fashion degli anni Sessanta, e con la pretesa di innovare su Pio IX, l’inventore di Twitter con il suo Sillabo degli errori di quei cretini dei moderni, liberali compresi. Il giudizio è limitativo, dunque, ma il discorso della luna e della carezza ai bambini, in apertura di Vaticano II, resterà nella storia dello spirito umano, e lodo la sua virtù di attore, il suo sentimento di padre universale, la sua vicinanza ai carcerati, l’aver lui per primo oltrepassato le mura vaticane.
Paolo VI, ne vado pazzo. Ho assistito alla sua ultima messa di Natale. Ero a Santiago de Compostela, affetto da un attacco di gotta, quando morì l’estate successiva (Murio Pablo era il titolo, se non ricordo bene, del giornale galiziano). Ricordo la sua figura esile, l’anello del pescatore più grande della mano, il fascino ieratico di un papa alla fine dei giorni terreni, un tizio che avevo visto, sotto un sombrero rosso squillante, ritto sulla sua Mercedes, attraversare tra due ali di folla una piazza del mio quartiere romano, Ponte Milvio, nella sua funzione pastorale di vescovo della città. Paolo era il grande Papa intellettuale, colto, scrittore impareggiabile in un italiano fine come la sabbia chiara dei caraibi, tormentato, innamorato di Maritain e dunque dell’incontro con il moderno ma come lui convinto che a mezzo del cammino la chiesa aveva incontrato il diavolo, che la seduceva. E’ tra molte altre cose l’autore della Humanae vitae, e se ho speso anni, fatica, soldi e parole per combattere laicamente l’aborto, dopo esserci cascato personalmente e colpevolmente, lo devo anche a lui, che laico non era.
Luciani era fantastico, ho assistito all’inaugurazione del suo pontificato e ho appreso sbalordito della sua “rimorte” per peso eccessivo della carica poco dopo aver visto in televisione quel dolce e indifeso pastore che spiegava a una platea stordita dalla parabola semplice in che senso Dio sia in fondo più madre che padre. Pazzesco, un po’ vero, allegoricamente, e comunque grandissimo. Peccato.
Il Papa polacco non ne parliamo proprio. Ero con Giuliano Procacci, grande storico, in un albergo di Torino, arriva la notizia per televisione. Mio Dio, un polacco. Lo vidi danzare sul sagrato del Duomo, Torino fu una delle sue prime visite: un gigante del linguaggio corporeo e liturgico. Non ebbi dubbi sul fatto che erano i compagni del Kgb ad aver dato l’ordine bulgaro-turco, sul confine dei suoi tremendi e grandiosi viaggi polacchi (la nascita dell’Europa come la conosciamo, salvo il massonismo brussellese, è opera sua); chiaro che Mosca aveva brigato per impedire quel che poi è avvenuto, lo dissi tanti anni dopo in tv davanti a Andreotti, al cardinal Bertone e sua eccellenza Bruno Vespa: mi guardarono come un criminale, Bertone disse che era la Provvidenza con la complicità salvatrice della Madonna di Fatima (una storiona alla Messori-Gibson) e Andreotti, sapendo che con me non attaccava, la buttò sui trafficanti di droga, Omar Celik e balle varie. Vespa, episcopale, diede un po’ ragione a tutti, e fece glissare l’argomento. Comunque ventisette anni di John Paul II all’arrembaggio di tutti i continenti e di tutti i cuori, con il mondo ridotto a palestra infuocata dell’atleta di Dio, sono stati il fulcro della mia vita. E se vi aggiungo il cardinale Ratzinger, il suo nutrimento di illuminista cristiano e il suo prefetto della fede e il suo successore, il più grande talento intellettuale che abbia mai dovuto riconoscere tra i viventi, autore di libri e discorsi che dureranno oltre un paio di secoli, come vedete, da Pio a Benedetto non fa eccezioni il mio fervente papismo.
Francesco è una sorpresa maledettamente simpatica, anche se molto pericolosa. Basta con la ragione, che fa freddo al cuore, via con il romanticismo della fede, avanti con le forzature pauperiste e sognatrici, fervide e febbrili, alla Leon Bloy. Sono anni che studiacchio i gesuiti, e con alcuni tra di loro parlo affabilmente. E faccio incursioni tra i loro avversari storici, i severi, straordinari, ferventi, perfidi, sarcastici, eruditi, gloriosi giansenisti di Port Royal. Le Provinciali di Pascal, opera in cui fede ed eresia si toccano l’un l’altra con amore e rispetto, sono per me un messale laico, sembrano scritte da Molière, essendo notoriamente l’invenzione e stabilizzazione della lingua francese dopo la prosa antica di Montaigne (e non è poco aver inventato il francese moderno e finale, scriveva ammirato Voltaire). Gli Esercizi sono letterariamente meno interessanti, ma la spiritualità dei gesuiti, che s’incontra anche in un bel libro anni Cinquanta di uno dei fratelli Monicelli, Furio, è il mistero libertario di cui è fatto il mondo che conosciamo. Toccare gli estremi limiti della terra, faticare, studiare, morire da martiri, conquistare le anime, magari anche comprarle rivendendo loro un po’ di paganesimo cristianizzato, far sputare il rospo ai re, condizionare i papi senza far mai parte del novero (è la prima volta di un gesutita), relativizzare tutto per l’assoluto della sottomissione a Dio, obbedire prima ancora che te lo chiedano, essere liberi per la gloria del Signore, lasciare che una morale morbida s’insinui per chi non ce la fa o è in istato di necessità tra le costrizioni di una grazia troppo rigida: alla salvezza poi ci pensa il confessore della Compagnia, i sacramenti sennò che ci stanno a fare?
Non è solo che è gesuita, si chiama anche Francesco e ha per sorella la luna e fratello il sole, accipicchia. Non è solo che è povero e di umili origini. Anche Ratzinger lo era, ma un genio di teologo domenicano a Cambridge che doveva spiegare in un libro la sua teologia cominciò il lavoro con un primo capitolo sconcertante, perché il genio è il genio: descriveva minuziosamente la Baviera dei Wittelsbach, la più antica e robusta famiglia aristocratica nella storia secolare della Germania e in particolare della terra di Joseph Ratzinger. I vaticanisti si stupivano per le scarpe rosse, il camauro, la mozzetta di taglio perfetto, gli ermellini e il portamento mite e umoristico ma algido. Io no. Tra università, dignità prelatizia nella terra dei Wittelsbach, distrazione come da professore tra le nuvole, non era possibile essere più intelligenti, più formali e più eleganti. Poi venivano umiltà e buonumore, mitezza, che sono altri tratti di un aristocratico autentico. Non è solo che Francesco parla un italiano da favola, inciampando sugli accenti con spagnolismi incantevoli, usando pause e concetti da grande oratore a braccio, facendo sintesi pedagogica, esercizio spirituale, anche in un’omelia sotto le volte della Sistina. Non è solo che mi è venuto in mente, perché Francesco è un conservatore che ti fornisce idee rivoluzionarie, come tutti i buoni conservatori, il trasloco al Laterano (faccia presto, che tutta quell’affabilità da vescovo di Roma, così poco primaziale, stride con San Pietro, e invece è perfetta in Laterano, e gravida di risultati immediati, pesanti, importanti nell’opinione e nell’anima stessa del mondo cristiano). E’ che se anche avessi avuto un dubbio, visto il mio inchinarmi di fronte al genio dei solitari di Port Royal, nemici giurati dei gesuiti, ecco, sono arrivati subito i più bestiali tra i nemici del cristianesimo della chiesa cattolica, annidati nella faziosità ipercorretta del cretino universale, e subito lo hanno aggredito come complice del boia Videla e dei suoi torturatori. Mi sono detto, ma è proprio destino. Anche questo Papa, che è Papa fino a un certo punto, sarà il mio vescovo, e se viene a Testaccio, come mi accadde con il predecessore, va a finire che corro in parrocchia e gli bacio l’anello di ferro o il braccialetto di gomma giallo. Non è mica male un vescovo descamisado vestito di bianco. Viva il Papa.


Il Foglio sportivo - in corpore sano
Fare esercizio fisico va bene, ma non allenatevi troppo
