Un americano a Roma

Nella geopolitica del Conclave la superpotenza si presenta con la barba lunga, porta un saio francescano cinto in vita con una corda, calza sandali anche quando sulla costa atlantica tira un vento gelido. Ha una particolare vocazione per la risoluzione silenziosa dei problemi, senza eccessi muscolari o complessi di superiorità antropologica: Sean O’Malley, cardinale di Boston, sfoggia il piglio fattivo del problem solver ma senza il fardello del poliziotto globale, profilo che incidentalmente s’attaglia a quello dell’America di Barack Obama, superpotenza in tono minore che si confonde nella cortina fumogena del suo stesso “leading from behind”.

    Nella geopolitica del Conclave la superpotenza si presenta con la barba lunga, porta un saio francescano cinto in vita con una corda, calza sandali anche quando sulla costa atlantica tira un vento gelido. Ha una particolare vocazione per la risoluzione silenziosa dei problemi, senza eccessi muscolari o complessi di superiorità antropologica: Sean O’Malley, cardinale di Boston, sfoggia il piglio fattivo del problem solver ma senza il fardello del poliziotto globale, profilo che incidentalmente s’attaglia a quello dell’America di Barack Obama, superpotenza in tono minore che si confonde nella cortina fumogena del suo stesso “leading from behind”. Se il vecchio veto sulla sovrapposizione fra il potere globale di Washington e quello universale d’oltretevere ha ancora qualche diritto di cittadinanza, non si applica granché alla severità monastica di O’Malley. Il gesuita Thomas Reese, voce influente del cattolicesimo americano di sponda progressista, dice che il Vicario di Cristo non si può confondere con il legato di Washington, non è bene indurre riflessi complottisti intorno a un Conclave segretamente diretto dalla Cia e pagato da Wall Street; serve un “Gesù con un master in business administration” e nel novero delle preferenze progressiste l’attiva squadra nordamericana, quella di Dolan, Ouellet, DiNardo e O’Malley, non presenta alternative abbastanza riformiste. Troppi tratti di continuità con Benedetto XVI, troppo rigore teologico, sostiene la “sinistra” cattolica americana; ma per evitare di affrontare il problema frontalmente si appella al meno corrosivo argomento della superpotenza che, in quanto tale, è unfit to lead la chiesa cattolica.

    “Che l’America di oggi sia una superpotenza in senso classico è tutto da dimostrare”, dice al Foglio un attento osservatore delle dinamiche vaticane, e nella squadra americana che è piombata su Roma con ampio sostegno di portavoce e addetti stampa non c’è cardinale più lontano dall’immagine della superpotenza di O’Malley, il cappuccino che con carità francescana e rigore teologico ratzingeriano ha raddrizzato la diocesi di Boston, fortezza del cattolicesimo di matrice irlandese sbreccata dagli abusi sessuali. Ha venduto i beni della diocesi per risarcire le vittime e le loro famiglie, si è messo all’ascolto dei fedeli, ha rassicurato e corretto, si è ritirato lui stesso in una cella, compiendo un gesto in cui riluce l’analogia con l’abdicazione mistica e monastica del pellegrino Benedetto XVI. Prima di Boston aveva messo ordine nella diocesi di Palm Beach, in Florida ed era stato missionario in quel confine, delicatissimo nel contesto della parabola demografica degli Stati Uniti, fra il popolo cattolico anglofono e quello ispanico e latino. La celebrazione dei funerali dell’abortista Ted Kennedy non è una macchia sull’ortodossia cardinalizia, piuttosto un segno dell’inclinazione caritatevole.
    Il cattolicesimo negli Stati Uniti è un fenomeno in fase di consolidamento: con quasi 78 milioni di fedeli, quella cattolica è la prima denominazione religiosa, e lo storico cattolico e conservatore Joseph Bottum ha scritto un libro – in uscita fra qualche mese – nel quale fissa i tratti del “great awakening” cattolico: dopo i tre risvegli riformati che hanno atomizzato il protestantesimo, la chiesa cattolica ha riempito i vuoti religiosi dell’America Wasp. O’Malley dice da tempo che il suo biglietto per Roma è di andata e ritorno, ma un esegeta delle dinamiche del Conclave dice al Foglio che “questo è il Conclave nordamericano”: mettendo insieme i tratti teologici e antropologici, O’Malley ha il profilo del candidato perfetto. Qualcuno dice anche che il cardinale Camillo Ruini si stia muovendo per sostenerlo; dagli ambienti ruiniani confermano che l’interesse del cardinale è tutto orientato verso gli Stati Uniti ma il suo candidato è Dolan, arcivescovo di New York e presidente della Conferenza episcopale americana, il pastore in battaglia culturale perenne con l’egemonia della secolarizzazione, ma senza complessi da accerchiamento. Dolan è il cardinale che non ha fatto nulla per evitare lo scontro con l’Amministrazione Obama sulla legge che obbliga gli istituti religiosi a fornire ai propri dipendenti (o studenti, nel caso di scuole e università) contraccettivi e farmaci che possono indurre un aborto. Non ne ha fatto una battaglia difensiva, di retroguardia, ma l’ha usata come argomento per spiegare a tutta l’America, non solo a quella cattolica, che il governo stava violando innanzitutto il principio laico e costituzionale della libertà religiosa. Non è un caso che Ruini si stia spendendo per Dolan. E’ nel contesto della “nuova” laicità americana – opposta dal cardinale reggiano all’appiattimento relativista della laïcité francese – che la lezione ruiniana ha dato i frutti più succulenti per la chiesa. Diverse fonti vicine al cardinal Ruini ci dicono che per trovare l’applicazione delle idee ruiniane sul rapporto fra chiesa e mondo bisogna guardare oltreoceano, non oltretevere.

    Dolan è il pastore che è riuscito a conciliare il rigore teologico e la capacità di parlare la lingua del mondo; non lo ha fatto soltanto aggiungendo un banale pizzico di nuovismo a una ricetta vecchia (gli interventi sul blog, il programma radiofonico, i social network) ma cambiando il vocabolario della presenza pubblica della chiesa senza negoziare sui principi. E’ un teologo conservatore stimato da Ratzinger – che lo ha innalzato da una diocesi periferica, seppure importante, al collegio dei cardinali in meno di tre anni – che non osserva il mondo dal bunker di una chiesa votata al gioco difensivo. Ci sono molti punti di contatto fra Dolan e O’Malley, ma anche una differenza: il cardinale di New York, al contrario del più mite cappuccino con la barba, ha il piglio e il potere immaginifico del leader; è un decisionista naturale, un pastore di polso che ha dimostrato di saper mettere ordine all’interno e all’esterno. Per questo è detestato dagli avversari esterni, che lo vogliono capziosamente associare a vecchi insabbiamenti di abusi nella diocesi di Milwaukee, ed è guardato con sospetto nella curia romana che vede nella debolezza del Papa che verrà fuori dal Conclave la chiave per mantenere lo status quo. Alcune fonti dicono che l’ipotesi di un ticket fra il brasiliano Odilo Scherer e l’italiano Piacenza è stata messa in giro da fonti curiali per sgonfiare l’ipotesi nordamericana che felicemente s’accorda con la visione ruiniana del mondo.