Il senso del gran gesto che, per il Foglio, non è un fulmine a ciel sereno

Giuliano Ferrara

Anticipare una notizia di portata millenaria come le dimissioni del Papa è un buon servizio reso all’informazione. Ci è capitato, il 10 marzo dell’anno scorso, di scrivere e pubblicare precisamente questa anticipazione. E ripubblichiamo senza variazioni, e con amorevole premura verso quel grande vecchio, la pagina su Ratzinger che lascia il pontificato. Avremmo potuto scriverla ieri, a dimissioni annunciate. Perché non era un pettegolezzo monstre. La fonte era Benedetto XVI in persona, in un passaggio della sua limpida intervista al giornalista della Süddeutsche Zeitung, Peter Seewald.

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    Anticipare una notizia di portata millenaria come le dimissioni del Papa è un buon servizio reso all’informazione. Ci è capitato, il 10 marzo dell’anno scorso, di scrivere e pubblicare precisamente questa anticipazione. E ripubblichiamo senza variazioni, e con amorevole premura verso quel grande vecchio, la pagina su Ratzinger che lascia il pontificato. Avremmo potuto scriverla ieri, a dimissioni annunciate. Perché non era un pettegolezzo monstre. Non era una delle tante vociferazioni maligne che costellano da sempre la vita minore delle sottocurie vaticane, e dei topi che in quel formaggio pasteggiano. Non era una notizia riservata. La fonte era Benedetto XVI in persona, in un passaggio della sua limpida intervista al giornalista della Süddeutsche Zeitung, Peter Seewald, nel quale era detto che sotto certe condizioni di inadeguatezza della sua condizione fisica, psichica o anche soltanto spirituale, inadeguatezza a reggere il grande peso del governo della barca di Pietro, la coscienza libera del Papa poteva, e in certi casi doveva, suggerirgli di abbandonare il campo nella dignità, nella responsabilità e nella consapevolezza.

    Nemmeno un anno dopo il Papa questo ha fatto. Né più né meno. E secondo la testimonianza del fratello Georg, risale proprio ad alcuni mesi addietro la meditazione di coscienza del gesto prossimo venturo. E adesso il Papa si è deciso al passo, crediamo, per le ragioni illustrate dal Foglio in quella pagina laicamente provvidenziale che ripubblichiamo all’interno, e che in parte risuonano nell’annuncio in latino fatto al cospetto di un pezzo del collegio cardinalizio. Intanto l’età, con tutto quello che essa significa. Notavamo che Benedetto XVI è il più vecchio pontefice regnante dalla morte di Leone XIII, che lasciò il mondo a novantatré anni nel 1903. Tutti gli altri, tra Leone e lui, non hanno raggiunto in carica la sua età. Poi la salute. Si fa fatica, ci si deve riposare, i viaggi sono ogni volta una sfida, sono sfide e azzardi i programmi troppo impegnativi del calendario liturgico e di altri calendari a cui è vincolata questa figura monocratica, onnicentrica, assoluta e sacrale. Lo spazio per la preghiera, per la riflessione storica e teologica, per la scrittura deve essere ricavato in sempre maggiori ristrettezze, tra un’urgenza pastorale e l’altra.

    Ma al di là del complesso psico-fisico, che è poi la dolente umanità che ogni vecchio si porta con sé, c’è il fattore spirituale. E qui si apre il vero capitolo di storia che riguarda questo gesto, capace di bruciare secoli di protocolli inossidabili, una prassi canonistica con una mezza dozzina di eccezioni in due millenni, che pone questioni teologiche non risolte nemmeno dal Dante Alighieri commentatore di Celestino V e del suo gran “vile” rifiuto. Ratzinger parte dal coraggioso e saggio riconoscimento di una mancanza personale oggettiva. Ha vissuto da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nella fase della sua maturità di vescovo e nella sua integrità di perno in acciaio della curia romana, gli anni sfolgoranti di Giovanni Paolo II. In accordo o in dissenso da lui, ma sempre porgendogli in battaglia un prezioso aiuto sia di dottrina sia di spada, si è reso conto di quanto abbia galoppato la chiesa nella sua stagione polacca, di quanto certe ambizioni, non a caso definite “atletiche” dagli storici del pontificato giovanpaolino, fossero onorate in virtù di una spinta energetica, vitale, che travolgeva i media, i cuori, le chiese territoriali, le altre confessioni, i regni e la terra tutta in un progetto di amore cristico e di assolutizzazione della salvezza per la cui trama il cardinale tedesco organizzava l’orizzonte concettuale e di fede, e il pontefice polacco lo slancio umano e storico, oltre il particolare vigore della fede mariana. Nel momento in cui si è reso conto che erano venute meno le energie dell’inizio del pontificato, quelle concentrate nell’omelia del decano contro il relativismo o, a elezione da poco avvenuta, del discorso di Ratisbona, il Papa ha cominciato a interrogarsi sul futuro della chiesa sotto la sua supervisione.

    La campagna sugli abusi sessuali del clero americano e di altri segmenti delle chiese europee, fino alla messa in stato d’accusa dell’episcopato belga e alla dissacrazione della tomba del cardinale Leo Suenens, uno dei padri del Concilio Ecumenico Vaticano II, aveva contribuito a mettere sulla difensiva un pontificato di guerra alle pretese di onnipotenza della cultura occidentale, che da due secoli vuole invadere la chiesa, laicizzarla e democratizzarla per uniformarla al mondo. Il ratzingerismo non è mai stato un atteggiamento moralistico o retrogrado, è originato da una grande e moderna sensibilità della fede e della ragione, da un autentico illuminismo cristiano, predica un apostolato che contribuisca a mettere il mondo sulla strada della sua “giusta forma”, relativizzando umanisticamente la scienza e la sua deriva scientista, la tecnologia, l’ingegneria biologica, il diritto eutanasico, le pretese delle culture di genere e gay, e sottraendo invece a ogni forma di relativismo filosofico ed etico le questioni di bene e di male che sono il sale della vita umana.

    Il Papa era stato umile, in specie nella bella lettera al clero irlandese dopo la tempesta dell’attacco governativo ai conventi sulla scia dei casi di pedofilia, e aveva decretato una stagione espiatoria valida per tutta la chiesa. Era stato severo, come non poteva non essere, e attento a spuntare gli artigli dell’aggressione al clero. Ma si sentiva che il fulgore di un discorso sul cristianesimo e la cultura europea, come quello tenuto nel collegio parigino dei bernardins, o la forza costruttiva delle teorie di politica, teologia e diritto esposte al Bundestag di Berlino in un’altra grandiosa allocuzione, si capiva che tutto questo fronte di battaglia aveva bisogno, nei pensieri del generalissimo chiamato a combatterla sul soglio di Pietro, di una riserva di forza e di spiritualità profetica che non sono esigibili da un venerabile teologo interamente formatosi e invecchiato nel Novecento. Quest’uomo di ragione, di fede e di buonumore non poteva ingannare sé stesso. E ha escogitato con l’abbandono la più radicale e simbolica riforma della chiesa da secoli a questa parte. Un atto di implicita modernizzazione che preserva il Papa, paradossalmente relativizzandolo come persona, e tutto quello che egli significa nella cattolicità, dal sospetto di declinare come una stella cadente, di finire nella marginalità della storia. C’è stata invece la virtù di una reazione che, a costo di un tremendo strappo alla tradizione, ha riaffermato centralità e capacità di guida del vescovo di Roma nella chiesa universale. Fino a qui ho potuto, si è detto, oltre sarebbe un errore.

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    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.