
La renuntiatio romana è stata uno sport dei Papi antichi a partire da san Clemente
In materia di rinuncia al papato, di letteratura ce n’è più di quanta si immagini. La contempla il Canone 332 del Codice di diritto canonico, che non la subordina ad alcuna accettazione, perché sopra il Papa non c’è nessuno. Niente a che fare con le moderne dimissioni, ma una romana renuntiatio. E poi c’è la storia. San Clemente, mandato in esilio da Nerva, abdicò indicando come suo successore Evaristo. Lo stesso fecero i papi Ponziano, Silverio e il più celebre Celestino V.
di Alessandro Gnocchi, Mario Palmaro
Dal Foglio del 10 marzo 2012
In materia di rinuncia al papato, di letteratura ce n’è più di quanta si immagini. La contempla il Canone 332 del Codice di diritto canonico, che non la subordina ad alcuna accettazione, perché sopra il Papa non c’è nessuno. Niente a che fare con le moderne dimissioni, ma una romana renuntiatio. E poi c’è la storia. San Clemente, mandato in esilio da Nerva, abdicò indicando come suo successore Evaristo. Lo stesso fecero i papi Ponziano, Silverio e il più celebre Celestino V. Nel libro “Luce del mondo”, Joseph Ratzinger dice che, nell’impossibilità di svolgere il proprio compito per ragioni di salute fisica o mentale, o per ragioni spirituali, per un Papa la rinuncia potrebbe persino essere un dovere.
Ma qui non si fa un caso di scuola, si parla di Benedetto XVI. La sua rinuncia, si dice, sarebbe la via più sicura per dare compimento a un papato che, pur avendo tracciato le linee di un ritorno all’ordine, fatica nel governo di una chiesa sempre più impermeabile alla romanità. Sarebbe il modo più sicuro di tirare la volata a un nuovo Papa fidato che governi la fase 2 della restaurazione.
Scenario suggestivo, se solo si pensa ai clamorosi casi davanti ai quali Roma non sa più mostrare la fermezza che ci si aspetterebbe: dalla nomina del vescovo austriaco rispedita al mittente dalle lobby progressiste alla rivolta dei preti austriaci e belgi che vogliono l’addio al celibato e le donne sacerdotesse, passando per lo sfacciato boicottaggio planetario della ricostruzione liturgica.
A un tale disastro, dicono alcuni, si può rimediare solo con l’elezione di un Papa più ratzingeriano di Ratzinger, un Benedetto XVII giovane, energico e risoluto. Un evento così poco scontato da indurre più d’uno a ipotizzare quella miscela tra un colpo di genio, un colpo di scena e un colpo di mano che sarebbe la renuntiatio.
Però ci sono da mettere in conto i però. Un simile gesto potrebbe trasformarsi nella riduzione del Papa a vescovo tra i vescovi che va in pensione per raggiunti limiti di efficienza. Un Papa che piacerebbe più a Nanni Moretti che a Nostro Signore, per la gioia di quella teologia che vorrebbe togliere di mezzo l’insegnamento ininterrotto della chiesa sul primato petrino. Basti dire che il Papa è organo supremo della potestà di giurisdizione e che in lui si assommano il potere legislativo, esecutivo e amministrativo, alla faccia della tripartizione di Montesquieu: ma proprio per questo, perché la chiesa non è una democrazia, la rinuncia di Benedetto XVI potrebbe suggellare il fatale abbraccio del cattolicesimo con l’essenza democratica della modernità.
Oltre a quello istituzionale, c’è un però soprannaturale che induce il cattolico a guardare il Papa e il papato oltre l’efficienza, la salute e il successo immediato. Non per nulla l’atto più importante del pontificato di Benedetto XVI è il motu proprio Summorum Pontificum che ha ristabilito la Messa in rito antico nei suoi pieni diritti. Questo Papa considera più decisiva per le sorti del mondo una sola Messa celebrata con devozione e fedeltà alla tradizione, che un summit di capi di stato per la pace. Perciò, senza fare rumore, incoraggia e difende i preti che la mattina in San Pietro celebrano la Messa nella forma antica. E spiega che la crisi della chiesa è frutto di una crisi liturgica, cioè dell’incapacità di adorare correttamente Dio e, insieme, di educare il popolo cattolico.
Già, il popolo. Bisogna pure che qualcuno lo svegli toccandogli il cuore, che lo chiami a raccolta per dare il fatto loro ai responsabili della narcosi in cui la chiesa si è addormentata. Ma questo non può farlo un eventuale Benedetto XVII, che si dovrebbe assumere l’onere di governare il quasi ingovernabile. Il richiamo al popolo, che qui non ha nulla di populistico, tocca al venerato predecessore. Magari brandendo come un’arma la minaccia della renuntiatio, davanti alla quale il popolo dovrebbe scegliere: con i pifferai magici che lo hanno addormentato o con il Bianco Padre che da Roma suona la sveglia.
di Alessandro Gnocchi, Mario Palmaro


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