Il broker d'Europa

La storia politico-tecnocratica del prototipo di Monti

Giulio Meotti

Se un’Europa unita verrà realizzata nel nostro tempo, allora Jean Monnet sarà considerato dalle generazioni a venire come il suo santo patrono”, scriveva il giornalista americano Theodore White negli anni Cinquanta. “Questo gigantesco, piccolo uomo, mai eletto da nessuna istituzione, è la figura pubblica più misteriosa dei tempi moderni”. Jean Monnet, che aveva iniziato la sua carriera con la vendita del cognac, era anche noto come il più incorreggibile panglossiano di Francia, l’ottimista a oltranza. A chi gli chiedeva cosa lo ispirasse nel perseguire la costruzione di una Europa unita, l’economista e diplomatico rispondeva “le rovine dell’Alsazia e della Lorena”, regione da sempre contesa fra Parigi e Berlino e causa di guerre.

    "Se un’Europa unita verrà realizzata nel nostro tempo, allora Jean Monnet sarà considerato dalle generazioni a venire come il suo santo patrono”, scriveva il giornalista americano Theodore White negli anni Cinquanta. “Questo gigantesco, piccolo uomo, mai eletto da nessuna istituzione, è la figura pubblica più misteriosa dei tempi moderni”. Jean Monnet, che aveva iniziato la sua carriera con la vendita del cognac, era anche noto come il più incorreggibile panglossiano di Francia, l’ottimista a oltranza. A chi gli chiedeva cosa lo ispirasse nel perseguire la costruzione di una Europa unita, l’economista e diplomatico rispondeva “le rovine dell’Alsazia e della Lorena”, regione da sempre contesa fra Parigi e Berlino e causa di guerre. “Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse Monnet nelle sue memorie. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”.

    Dall’intuizione di Monnet nacquero la Ceca (Comunità europea per il carbone e per l’acciaio), la Ced (Comunità europea di difesa), il Mercato comune, il Mercato unico, l’euro e il trattato di Schengen. Ovvero dalla Seconda guerra mondiale la politica ufficiale delle democrazie vincitrici. Ovunque c’è inciso il nome di Jean Monnet.
    Secondo François Duchêne, che fu assistente del celebre funzionario francese, “sarebbe naïf indicare un solo leader che ha forgiato la nuova Europa, ma Jean Monnet è certamente quello che più ci si avvicina”. Per questo Monnet oggi riposa tra gli immortali del Pantheon francese. Alla deposizione delle sue ceneri nel monumento dove sono custodite anche quelle di Voltaire, Rousseau, Victor Hugo ed Emile Zola, erano presenti capi di stato, capi di governo e ministri degli Esteri. Insomma tutta l’Europa dei dodici. Fu un rito di messianesimo laico in occasione del centesimo anniversario della nascita del primo presidente della Ceca che per trent’anni, fino alla sua morte nel 1979, aveva consacrato la sua attività alla costruzione dell’Europa.

    Il barone Robert Rothschild disse che “Monnet non è né un politico né un pubblico ufficiale, ma una categoria a parte”. Alcuni lo hanno chiamato il “vate dell’Unione europea”, altri semplicemente “Mr. Europe”, altri ancora il “santo laico” che ha forgiato le fondamenta politiche e ideologiche del nuovo Vecchio continente. Monnet non fece mai parte di governi eletti, ma come scrive Duchêne, “veniva giudicato in possesso di un potere occulto, cospiratorio, misterioso, quello del tecnocrate”.
    “Monnet faceva parte di una élite intellettuale che fu la reazione post bellica contro il nazismo”, ci spiega Roger Scruton, il filosofo conservatore inglese che ha dedicato molte pagine alla figura di Monnet. “Questa élite ha lavorato in segreto ed era formata da intellettuali come Alexandre Kojève, il vero ispiratore della prima generazione di tecnocrati e civil servant. E’ un fenomeno che nasce dalla Rivoluzione francese, dall’idea cioè che il governo debba restare nelle mani di una élite. Monnet era machiavellico, desiderava cioè influenzare il processo decisionale e il suo diabolico progetto ha avuto un successo immenso. Il collaboratore di Monnet era Walter Hallstein, un tecnocrate tedesco per il quale la giurisdizione internazionale era l’erede naturale delle leggi dello stato-nazione. Questa élite ha fondato l’Europa sulla non-appartenenza. Secondo loro la sovranità nazionale sarebbe scomparsa e un blando democratico capitalismo si sarebbe diffuso come un fungo”. Hans Magnus Enzensberger, in un pamphlet appena pubblicato da Einaudi col titolo “Il mostro buono di Bruxelles ovvero l’Europa sotto tutela”, scrive che il metodo Monnet “non attribuiva alcun valore alla garbata invenzione della sovranità popolare”. 

    Illuminanti sono al riguardo le parole di Monnet pronunciate nel 1952: “Le nazioni europee dovrebbero essere guidate verso un superstato senza che le loro popolazioni si accorgano di quanto sta accadendo. Tale obiettivo potrà essere raggiunto attraverso passi successivi ognuno dei quali nascosto sotto una veste e una finalità meramente economica”. A udirle Charles de Gaulle disse che Monnet voleva creare delle “mostruosità sovranazionali”.
    L’uomo a cui il generale aveva affidato, dopo il ritorno in Francia, la ricostruzione e la modernizzazione del paese non aveva completato gli studi. Era nato a Cognac, in una famiglia di viticoltori, il 9 novembre 1888, esattamente cinquant’anni prima della Notte dei cristalli in Germania ed esattamente 101 anni prima della caduta del Muro di Berlino. A Londra, durante la Grande guerra, Monnet prese parte ai lavori del comitato interalleato per la distribuzione delle materie prime e lì imparò le arti della diplomazia multilaterale. Quando il generale Marshall annunciò al mondo che l’America avrebbe finanziato la ricostruzione dell’Europa, Monnet intuì che l’industria siderurgica tedesca avrebbe assorbito in pochi anni tutto il carbone della Ruhr e pregiudicato in tal modo lo sviluppo dell’economia francese. Per evitare tale prospettiva occorreva che le due economie crescessero insieme nell’ambito di un “programma concordato e coordinato”, e occorreva che l’uso delle maggiori risorse economiche venisse esteso ad altri paesi europei con cui procedere poi verso altre e più ambiziose forme di cooperazione. L’Europa di Monnet si sarebbe fondata sul polmone economico tedesco e sulla magniloquenza dei pubblici ufficiali francesi. Storici come Robert Ferguson hanno scritto che l’ideale di Monnet non era un “federalismo all’americana”, piuttosto “ogni passo dell’integrazione di Monnet si spiega col principio della ‘greppia tedesca’. I francesi imposero alla Germania di Konrad Adenauer di finanziare con la Ceca le miniere di carbone belghe ormai fuori mercato, poi con la Cee i costi insostenibili del proprio residuo impero coloniale, infine con la Pac i sussidi ai propri coltivatori della Francia profonda. Ma il meccanismo ormai è inceppato”. O per dirla con lo storico americano Tony Judt, autore di “Postwar”, “Monnet prefigurò una soluzione europea a un problema francese”. Quando propose la Comunità del carbone e dell’acciaio, Monnet spiegò così il ragionamento che lo aveva ispirato: “Quando si guarda al passato e si prende coscienza dell’enorme disastro che gli europei hanno provocato a se stessi negli ultimi due secoli, si rimane letteralmente annichiliti. Il motivo è molto semplice: ciascuno ha cercato di realizzare il suo destino, o quello che credeva essere il suo destino, applicando le proprie regole”.

    Monnet teneva sulla scrivania i libri di Max Weber in cui lo stato moderno è descritto come un “opificio di servizi”, ovvero credeva nella nascita di una “amministrazione comune” capace di creare una “unità dal basso”, cioè ascendente, anziché una costituzione comune. Poi l’unità politica sarebbe arrivata naturaliter. La vita di Monnet fu tutta tesa a questo fine, perché, diceva, “la riflessione non può essere separata dall’azione”, così che i fatti salienti della sua vita rappresentano una traccia del suo pensiero. Monnet riteneva che l’Europa dovesse imporsi “per gli appelli all’opinione pubblica e grazie alle abitudini che finirebbero col prevalere”. Gli esperti hanno definito il metodo Monnet come “gradualismo”, contro cui l’italiano europeista Altiero Spinelli contrapponeva il metodo “costituente”. E proprio Spinelli disse che “Monnet ha il merito di aver costruito l’Europa e la grande responsabilità di averla costruita male”.

    Uno dei libri a cui Monnet teneva di più era datato 1713, l’autore un tale Charles Irénée Castel, abate di Saint-Pierre, e portava il titolo di “Progetto di una pace perpetua in Europa”. Vi si profetizzava la creazione di un “senato europeo” in cui gli stati membri avrebbero avuto pari diritto di voto. Da buon cattolico, Monnet era ispirato dal concetto di “unità cristiana”. Nello splendido saggio di Richard Mayne, Monnet è chiamato semplicemente “l’eminenza grigia”. L’Unione europea che conosciamo nacque in Avenue Foch, a Parigi, in un loft con il pavimento che scricchiolava e in cui si riuniva l’Action Committee for the United States of Europe diretta da Monnet. Ovvero i rappresentanti dei partiti non comunisti di Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, i fondatori della futura Unione europea. “Monnet era già leggenda”, scrive Mayne. A chi gli chiedeva quale fosse il suo ruolo nel progetto, Monnet rispondeva: “The catalyst”. Il catalizzatore. Per Monnet l’acciaio e il carbone non erano semplicemente materiali grezzi, lui vi vedeva le chiavi della “pax europea” così come erano stati all’origine di due guerre mondiali. Monnet li avrebbe usati per ricostruire l’Europa.
    Il contributo di Monnet alla storia del Novecento è stato talmente profondo che Lord Keynes ripeteva che “Monnet ha ridotto di un anno la durata della Seconda guerra mondiale”. Dopo il primo conflitto mondiale, Monnet ebbe un ruolo pionieristico nella creazione della Lega delle nazioni, l’Onu in embrione di cui fu vicesegretario generale. A Washington fu lui a coniare la frase del presidente Franklin Delano Roosevelt “l’arsenale delle democrazie”.

    Il funzionario francese fu decisivo anche nella messa a punto del piano Marshall e nel 1951 venne reclutato dalla Nato come uno dei “tre saggi”. Willy Brandt lo chiamava “fonte di ispirazione”, Dean Acheson “uno dei più grandi francesi”, mentre John Fitzgerald Kennedy disse che aveva “trasformato l’Europa con il potere di una idea”. Questa idea è la graduale perdita di sovranità nazionale a favore di un super organismo che avrebbe garantito libero scambio e sicurezza ai paesi membri.
    Ian Buruma ha appena dedicato un bel saggio all’Europa di Monnet. “Jean Monnet, uno dei padrini dell’unificazione europea, era il tipico esempio di burocrate nato che diffidava dei politici. La politica democratica è caotica e divisiva, e costellata da compromessi. E Monnet detestava tutto ciò. Era ossessionato dall’ideale di unità. E voleva che le cose venissero fatte senza dover passare per gli intrallazzi della politica. Monnet e gli altri tecnocrati europei non erano esattamente contrari alla democrazia, ma spesso, nel loro zelo di unificare le diverse nazioni d’Europa, sembravano trascurarla. Gli eurocrati sapevano cosa fosse meglio per i cittadini d’Europa, e sapevano cosa occorresse fare. Troppo dibattito pubblico o troppe interferenze da parte dei cittadini e dei loro rappresentanti politici avrebbero solo rallentato le cose. E’ a questo atteggiamento che dobbiamo la tipica parlata di Bruxelles, fatta di ‘treni inarrestabili’ e ‘decisioni irreversibili’. Non spetta ai cittadini mettere in dubbio la saggezza dei grandi visionari. Monnet era un tecnocrate nato con una concezione feticistica dell’unità”. Nel 1940, con Hitler che sembrava inarrestabile, Monnet propose a Winston Churchill addirittura di unire Francia e Gran Bretagna. “L’ideale europeo dopo il 1945 era l’archetipo del pianificatore, una utopia tecnocratica. E per Monnet questo era l’ideale più benigno e nobile”. Anche l’Economist ha dedicato un bel dossier alla “fine di Monnet”, ovvero il deficit di democrazia in Europa. “Il funzionario francese credeva nella unificazione graduale dell’Europa attraverso progetti diretti da una casta di tecnocrati”, scrive il settimanale inglese.

    Nel saggio “Jean Monnet and the ‘Democratic Deficit’ in the European Union”, Kevin Featherstone sostiene che Monnet ha impostato il processo di integrazione europea su due principi: “Tecnocrazia ed elitismo”. Centrale nel progetto del grand commis è l’idea di una “High Authority”, una autorità superiore che è il risultato della “fede di Monnet nel principio di sovranazionalità”. Featherstone definisce il metodo di Monnet come “engrenage”, ovvero si devono coinvolgere tecnici ed esperti non eletti nel processo decisionale. “Monnet era attratto dall’idea di una ‘Alta autorità’ formata non da rappresentanti degli stati, ma da personalità indipendenti scelte per la loro competenza”. Da qui, secondo Featherstone, l’attuale deficit democratico di Bruxelles: “Monnet ha costruito un edificio europeo con una debole rappresentanza politica”.
    A proprio agio nei salotti del suo tempo, Monnet era solito vivere fuori città. Ne fece una regola. Persino nel piccolo Lussemburgo prese una casa non nel centro della capitale, ma a Bricherhof, in mezzo ai boschi. E quando viveva a Parigi faceva la spola con la casa nella foresta di Rambouillet. Senza particolari carismi personali, Monnet diceva di aver preso tutto dalla nonna, nota in famiglia come “Marie la Rabacheuse”, Maria la Monotona. Il generale Chiang Kai-Shek disse che Monnet nel cibo, nel carattere e nel modo di fare aveva un lato “cinese”. Un mandarino dunque.

    Era frugale, c’è chi dice “puritano”. “Se fossi condannato a morte chiederei questo come mio ultimo pasto”, disse Monnet una volta indicando sardine, burro e pane francese. Gli studiosi sostengono che gli anni trascorsi come banchiere in Asia ed Europa abbiano avuto una influenza determinante sul suo lavoro politico. A chi gli chiese se il suo ruolo fosse quello di “fondatore” dell’Europa, Monnet rispose di no: “Sono un broker”. Gli anni trascorsi alla Blair Investment Bank e all’impero del magnate svedese Krueger non solo gli serviranno per i contatti nel Dopoguerra, ma lasceranno una impronta indelebile nella sua forma mentis. Monnet in politica parlava sempre della “linea del credito”. 
    Secondo Frederich Fransen, che a Monnet ha dedicato un importante saggio, “agì tutta la vita per limitare la sovranità nazionale”, in nome di un “empiricismo” che lo rese inviso tutta la vita all’intellighenzia parigina. Alcuni lo hanno definito un “hegeliano”, e François Fontaine scrive che “il libro della Genesi secondo Monnet dovrebbe iniziare così: ‘In principio fu la necessità…”.

    Parlare di Monnet significa parlare di Alexandre Kojève, una delle più affascinanti figure della filosofia del Novecento. Durante la Resistenza, Kojève combatté agli ordini di Jean Monnet, che dopo la guerra lo promosse a grand commis della Quarta Repubblica nel Secrétariat d’état aux affaires économiques. E poi ancora Monnet chiese a questo “homme d’influence” di altissimo rango di fare da segretario dell’Oece (Organizzazione europea di cooperazione economica), lo scelse come consigliere del governo nella creazione della Ceca, primo embrione della Cee, e come negoziatore di accordi commerciali mondiali come il Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade). Kojève fu una misteriosa personalità che credeva nella fine della storia e nel “governo universale e omogeneo”, e che in mancanza di Napoleone venerava Stalin, sino a dichiararsi nel ’38-’39 “staliniano di stretta osservanza”, pur essendo un russo bianco, comunista forse per motivi di storia universale, ma lontanissimo dal partito, e comunque portatore, a dire di Raymond Aron, di un lealismo senza macchia verso la patria francese, liberamente scelta. La leggenda di Kojève nacque intorno ai seminari che tenne fra il 1933 e il 1936 all’Ecole pratique des hautes études, traducendo e commentando la “Fenomenologia dello spirito” di Hegel a un parterre de roi che comprendeva Bataille, Caillois, Lévinas, Lacan e Queneau.

    Nel 1948 il grande intellettuale di origini russe rifiuta una cattedra alla Sorbona, fonda l’Accordo sulle tariffe e sul commercio assieme a Monnet e diventa un super consigliere di Charles de Gaulle e Giscard D’Estaing. Una scelta suffragata dal famoso commento al “Trattato sulla tirannide” di Senofonte, interpretato da Leo Strauss, in cui Kojève difende l’ingerenza attiva del filosofo nel governo, sotto forma di consigli politici. L’aveva detto Kojève, “non sono un bonzo”, e poi la burocrazia, “élite internazionale che ha sostituito l’aristocrazia”, è un “gioco superiore alla filosofia”.
    Eccolo il segreto di Monnet, che si spense a Rambouillet tre giorni dopo l’entrata in vigore del Sistema monetario europeo. L’ultima frase del broker dell’Unione europea, pronunciata poco prima della morte, sembra contenere un pentimento: “Si c’était à refaire, je commencerais par la culture”.
    Se dovessi rifare tutto, comincerei dalla cultura.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.