Come non farsi fregare dai Maya e da chi dice che il cinema è morto

Mariarosa Mancuso

Dalla caduta dell’Impero romano la fine del mondo è stata annunciata 183 volte. Le ha contate lo storico Luc Mary, nel suo libro “Le mythe de la fin du monde, de l’antiquité à 2012”. La prossima è prevista per il 10 aprile 2014, secondo la Cabala (non nel senso della mistica ebraica: il riferimento è alla setta che vantava tra i suoi adepti Madonna Ciccone e altre celebrità in cerca di guru). Superfluo segnare la data sull’agenda.

    Dalla caduta dell’Impero romano la fine del mondo è stata annunciata 183 volte. Le ha contate lo storico Luc Mary, nel suo libro “Le mythe de la fin du monde, de l’antiquité à 2012”. La prossima è prevista per il 10 aprile 2014, secondo la Cabala (non nel senso della mistica ebraica: il riferimento è alla setta che vantava tra i suoi adepti Madonna Ciccone e altre celebrità in cerca di guru). Superfluo segnare la data sull’agenda. Ci sarà sempre qualcuno pronto a ricordarci con mesi d’anticipo che il mondo sta finendo, per volontà di Dio oppure per mano degli uomini che inquinano il pianeta. Come nel caso della scampata apocalisse Maya. Popolo che peraltro si è estinto ben prima della data fatidica: il dettaglio avrebbe dovuto farci dubitare delle loro qualità divinatorie.

    Ancora più cagionevole del pianeta è il cinema, dato per morto assieme al romanzo ogni volta che un critico si sveglia con la luna storta o un regista (o scrittore) inciampa in un insuccesso. Ogni tanto però qualcuno imbraccia la mitraglietta contro i profeti di sventura, facendo il lavoro sporco. Per questo teniamo come cosa cara il link (i ritagli non usano più, per gli apocalittici è un altro segno che il mondo sta finendo) a un articolo dell’Orange County Weekly. Titolo: “Breve storia di una lunga morte”. Quella del cinema, appunto, che cominciò a trapassare negli anni Dieci del secolo scorso. Già allora infatti era opinione comune che il mezzo avesse disatteso le sue potenzialità artistiche, riducendosi a divertimento per “gli illetterati, gli scrofolosi e i malnutriti”. Si pensava fosse anche pericoloso per la salute, a causa del nitrato d’argento che provocava incendi e avrebbe avvelenato le star.
    Passano vent’anni e arriva il cinema sonoro, di nuovo additato come un pericolo. Il cinema era sul punto di dare il suo contributo all’arte, e ’sti deficienti cominciano ad aggiungere i dialoghi che rovinano ogni cosa. Era il pensiero dominante, non solo negli Stati Uniti ma anche in Italia (dove ancora esistono specialisti di cinema muto arroccati sulle loro posizioni). Il Chicago Tribune addossa al cinematografo la responsabilità del mondo che va male: “Invece di contribuire alla pace universale, i film parlati creano conflitti”.

    Nel 1950 l’assassino del cinema si chiama televisione. Sessanta milioni di apparecchi casalinghi hanno l’effetto di dimezzare i biglietti venduti negli Stati Uniti. Stavolta sono tutti concordi: è il punto più basso mai raggiunto dall’industria e non si vede all’orizzonte nessuna ciambella di salvataggio. Dwight Macdonald, a noi caro per aver inchiodato alle sue responsabilità il midcult (che esisteva ben prima di Fabio Fazio), chiede su Esquire: “Perché non sappiamo più fare film?”.
    “Perché oggi i film non sono più belli come una volta?” è infatti la frase preferita di chi ha smesso di andare al cinema e vuole che qualcuno gli firmi la giustificazione (per il resto non può non dirsi “amante del cinema di qualità”, frase che a noi subito indispone). Nel 1980 tocca a Pauline Kael: “Quando vedo la gente che fa la fila al botteghino, penso che sia un pubblico ereditato dai tempi passati, più che conquistato”. Vale forse per l’Italia, dove gli incassi sono calati del 30 per cento. Non per gli Stati Uniti che stanno chiudendo un anno grandioso. Eppure nel 1996 Susan Sontag aveva pronunciato il suo “cento e non più cento”: il primo centenario del cinema è anche l’ultimo, tanto vale chiudere bottega, visto e considerato che oggi i film non sono più belli come una volta. Con l’incrollabile certezza che dagli errori non si impara, aspettiamo a braccia aperte (e con un randello in mano) il prossimo della lista.