
Di chi è nemico Mario Monti?
Mi è venuto in mente che una volta l’Avvocato, cioè Giovanni Agnelli, cioè il re di un establishment che nonostante la Fiat e le banche e Cuccia e il Corriere pesava come una piuma, e che dopo la scomparsa del re non ha avuto eredi al trono, disse di Berlusconi e delle sue invenzioni politiche travolgenti: se vince lui vinciamo tutti, se perde lui perde solo lui. Meschinello, no? Una volta poi che Berlusconi perse, nel 1996 contro l’Ulivo, mi confidò in modo divertente ma piuttosto cinico che era ironicamente d’accordo con la mia proposta di fare di Berlusconi una specie di Chirac italiano, con la presa della carica di sindaco di Milano, per ripartire da quella base alla conquista del paese perduto (uno dei tanti consigli respinti dal Cav.). Disse Agnelli: ma sì, al posto della Madonnina è perfetto, ci mette tutti di buon umore. Frivolo, no?
Mi è venuto in mente che una volta l’Avvocato, cioè Giovanni Agnelli, cioè il re di un establishment che nonostante la Fiat e le banche e Cuccia e il Corriere pesava come una piuma, e che dopo la scomparsa del re non ha avuto eredi al trono, disse di Berlusconi e delle sue invenzioni politiche travolgenti: se vince lui vinciamo tutti, se perde lui perde solo lui. Meschinello, no? Una volta poi che Berlusconi perse, nel 1996 contro l’Ulivo, mi confidò in modo divertente ma piuttosto cinico che era ironicamente d’accordo con la mia proposta di fare di Berlusconi una specie di Chirac italiano, con la presa della carica di sindaco di Milano, per ripartire da quella base alla conquista del paese perduto (uno dei tanti consigli respinti dal Cav.). Disse Agnelli: ma sì, al posto della Madonnina è perfetto, ci mette tutti di buon umore. Frivolo, no?
C’è un dettaglio curioso della nostra storia recentissima, a proposito di spirito rinunciatario, di timori, di irresolutezze, di cinismi e frivolezze dell’establishment. Coloro che in teoria avrebbero dovuto essere i beneficiari del montismo, se non i suoi ispiratori e i suoi araldi, e che sono accusati spesso di essere il partito obliquo del Bilderberg, il club che espropria la sovranità dei popoli, in realtà bofonchiano, cincischiano, esitano e in certi casi si desolidarizzano dall’impresa, nel suo momento culminante, con toni anche forti, netti. L’operazione Monti, e cioè la sospensione dell’autogoverno politico-elettorale in favore di una soluzione di emergenza fondata sul ceto tecnocratico, è stata voluta da Giorgio Napolitano, presidente con un senso acuto della propria autonomia istituzionale ma di formazione politica comunista, di partito in senso stretto (a prescindere dalla cultura personale e dall’esperienza civile del presidente della Repubblica); ed è stata resa possibile dall’assenso del capo del partito di centrosinistra all’opposizione e del capo eletto del governo di centrodestra (come servizio di conoscenza al lettore, cominciamo con questo numero di inizio d’anno del Foglio, per la penna di Sergio Soave, una serie politica di ricostruzioni del profilo di Giorgio Napolitano, a partire dalla più celebre e celebrata delle sue scelte di uomo di stato, il governo Monti).
E l’establishment? Si intenda: poteri finanziari, editoriali, bancari, industriali, enclave di cultura alta e di accademia, economisti, specialisti del diritto civile, alta pubblica amministrazione, authority, grandi professionisti del ramo amministrativo, ceto giornalistico e varia altra umanità, bene, che cosa hanno fatto? Hanno solidarizzato: ma fino a che punto? Hanno criticato: ma con quale scopo? Hanno seguito la parabola del successo europeo e nazionale del governo nella protezione dei conti pubblici, nell’accenno riformatore, ma poi, al dunque, che posizione stanno prendendo, ora che si avvicina la resa dei conti del 2013 e il testimonial di tutta la faccenda, Monti in persona, si mette in gioco con minime misure di cautela nel tentativo di fornire una legittimazione alle idee di governo, all’orizzonte europeo, allo stile che è stato proprio di questa fase? Sergio Marchionne, il manager che ha salvato la Fiat annullandone le vecchie caratteristiche anche politiche, internazionalizzando l’impresa, uscendo da Confindustria, rompendo con il sindacalismo di classe al servizio della concertazione, è stato ed è tifoso di Monti, ma è uno che tira sassi in piccionaia. L’identico invece si ripete nell’establishment: se vince lui vinciamo tutti, se perde lui perde solo lui. Quanto al mettersi di buonumore, bè, Monti è spiritoso a suo modo ma non è gioviale proprio come Berlusconi.
Monti ha licenziato in fine d’anno un breve documento in sette punti, abbastanza chiaro, in cui non c’è il paradiso liberale, non ci sono proclamazioni riformiste e cifre da capogiro per qualificarle e incardinarle, non c’è nemmeno l’obiettivo di un drastico ridimensionamento del pubblico e delle sue prerogative come base fondante di un programma di governo rivoluzionario, in vista dello stato minimo perentoriamente rivendicato da Giavazzi e Alesina, tutte queste cose non ci sono; c’è invece una modestia di tono, di stile, per una proposta di continuità con il già fatto e il già detto, considerando l’esperienza del governo Monti non già come la premessa di una manovrina neocentrista ma come un segno di seria adesione, oltre la linea divisoria destra-sinistra e oltre tentazioni populiste e antipolitiche di vario segno, al governo dell’innovazione e delle riforme dell’economia sociale di mercato, uno sforzo concertato in Europa secondo i ritmi e le necessità imposti dalla grande crisi. E’ quella “democrazia depoliticizzata” di cui parlava nel febbraio scorso un commentatore sveglio come Nathan Gardels, critico della democrazia americana modello Diet Coke (“la gente vuole consumare senza risparmiare e ottenere servizi di stato senza pagare tasse così come vuole sapori dolci senza calorie”).
Il premier continua a stupire per l’understatement. E a questo punto la vera domanda è la seguente: di chi è avversario Mario Monti? Nemico di Bersani no, perché il Pd si pone naturalmente come l’interlocutore di sinistra, lavorista e sicuro del primato della politica di partito, di un senatore e accademico borghese che cerca una legittimazione dal basso dopo un anno in cui l’ha ricevuta dall’alto e dalla sovranazionalità che è la nuova forma della sovranità in Europa (lo dice anche Guido Rossi, a proposito di establishment). “Trattare per governare” è una cosa che nella cultura comunista, post comunista e di sinistra democratica fu sempre messa nel conto e risolta in un modo o nell’altro. Ma nemmeno tanto nemico di Berlusconi. Il quale ora lo attacca, parla di complotto, danna recessione e tasse, ha bisogno di farne un idolo polemico, ma tutti sappiamo quanta aria ci sia nella bella voce tenorile del Cav. quando si costringe a queste corvée di demagogia elettorale. Il vero avversario di Monti forse è l’ambiente da cui la sua esperienza di governo nasce o almeno una parte cospicua di quell’ambiente, e forse la parte più sorprendente (come mai Montezemolo non si presenta? Mah!). Forse i malmostosi sono e saranno quelli di Confindustria, che non devono essere tanto contenti di un progetto battezzato con Marchionne ed Elkann alla Fiat di Melfi, e che nasce – unica certezza – nel segno del rigetto della vetocrazia e della concertazione.


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