
President forever
Succede poi che il carattere fondamentale dell’evento storico, l’irripetibilità, va a farsi benedire e mentre si sgranocchiano m&m’s con il cuore di pretzel si osserva dapprima Abraham Lincoln che negozia tenacemente con i meno belluini degli avversari politici per far passare il tredicesimo emendamento alla Costituzione; poi di punto in bianco Lincoln scompare dallo schermo e al suo posto c’è Barack Obama che cerca di convincere i più duttili dei repubblicani ad aumentare le tasse per i ricchi.
Succede poi che il carattere fondamentale dell’evento storico, l’irripetibilità, va a farsi benedire e mentre si sgranocchiano m&m’s con il cuore di pretzel si osserva dapprima Abraham Lincoln che negozia tenacemente con i meno belluini degli avversari politici per far passare il tredicesimo emendamento alla Costituzione; poi di punto in bianco Lincoln scompare dallo schermo e al suo posto c’è Barack Obama che cerca di convincere i più duttili dei repubblicani ad aumentare le tasse per i ricchi. Si vede Lloyd Blankfein alla Cnn che appoggia il grande accordo proposto dal presidente. Ci sono orde di lobbisti in pectore che escono dalla Casa Bianca e vanno a convincere i congressman che la proposta del presidente è l’unico dei mondi possibili. I mondi migliori sono tutti impossibili. La conversazione passa stranamente dall’abolizione della schiavitù al “fiscal cliff”, un’illuminazione interiore svela che Fernando Wood, il democratico “testa di rame” presentato da Spielberg come una testa d’altra natura, è pettinato come John Boehner. Usa argomenti analogamente reprensibili e si diverte a tenere chiuse le porte del paradiso condiviso di Obama e Lincoln. Le storie si sovrappongono, si cerca invano di togliere gli occhiali 3D per vedere se cambia qualcosa, ma nulla: la barba e il cilindro sono quelli di Lincoln, il contenuto del personaggio è puro Obama.
La scena si popola di politici contemporanei in costumi ottocenteschi: c’è il Grover Norquist che fa giuramenti imperituri, ci sono i centristi indecisi e umani à la Susan Collins, i pavidi, i corruttibili, gli intransigenti pazzoidi, quelli che pensano soltanto alla rielezione e quelli che coltivano dubbi nobili circa la trattativa lincolniana sulla schiavitù. Questi ultimi sono i modelli per i repubblicani trattativisti, vedi Linsdey Graham, Peter King e Boehner nei giorni pari. I naysayer sono il male assoluto, la capacità di cambiare idea è il valore supremo. Detto altrimenti: la capacità di negoziare è il valore non negoziabile. Thaddeus Stevens, repubblicano radicale che convive scandalosamente con una schiava, accetta una diminutio del suo massimalismo abolizionista nel nome della fattibilità di un progetto condiviso, accetta di annacquare la sua limitata ideuzza politica per fare spazio all’allampanata incarnazione dello Spirito-del-compromesso-presente. La grandiosa abilità del presidente è quella di annacquare i contenuti dell’accordo politico senza che gli ultrà se ne accorgano. Lo speaker che sputando su tutti i rituali vota in favore del presidente è il trionfo del Lincoln visto da Spielberg attraverso la lente di Obama e il climax contagioso dei legislatori che fanno la cosa giusta ci porta all’incrocio pericoloso fra il fiscal cliff, il Vangelo di Giovanni, Hegel e il signor Scrooge.
Nel quadretto c’è anche quella testa di rame ex post di Donald Trump: nel 1864 andava forte un pamphlet intitolato “Abraham Africanus Lincoln. His Secret Life” e il presidente era rappresentato in copertina in tutta la sua inaccettabile negritudine. Forse nelle pagine interne c’era una copia falsificata del certificato di nascita. Spielberg, insomma, soffia via la polvere dal compendio politico di Lincoln e lo porge al presidente. Si parla al passato perché il presente intenda e l’inquadratura storica è talmente stretta attorno a quelle settimane di negoziati su quello specifico emendamento che tutto il resto viene completamente eliso. Il contesto rimane fuori dal cinema, la sequenza storica è arbitrariamente omessa, a forza di stringere sul dettaglio si isola la particella elementare, quella che si può replicare nel laboratorio della rappresentazione e sovrapporre all’oggi. Nessun contesto storico sta in una pellicola ma nella decisione di tenere questo e scartare quello c’è tutta la faccenda politica. Il presidente di Spielberg e dello sceneggiatore Tony Kushner non è un Lincoln generico che si rivolge a un Obama generico. E’ un preciso momento di Lincoln che si rivolge a un preciso momento di Obama. Non è il presidente del 2008 – i sogni, le mani tese, l’empatia, le colonne ioniche, il treno che dall’Illinois porta a Washington, come aveva fatto il suo idolo, sull’isola deserta mi porterei la più lincolniana delle biografie, “Team of Rivals” di Doris Kearns Goodwin eccetera – e quell’altro non è il divinizzato Lincoln che si incontra al memorial con le manone di marmo appoggiate ai fasci e la scritta di intonazione postpagana: “In questo tempio e nei cuori delle persone per le quali ha salvato l’unione, la memoria di Abraham Lincoln è custodita per sempre”. E’ un peccato che non esista una traduzione adeguata del verbo “enshrine”, che contiene tanto l’idea della custodia quanto quella della venerazione e afferisce a un vocabolario essenzialmente religioso. Si usa per le reliquie, di solito, e in un certo senso Lincoln è una reliquia dell’America, complice il martirio arrivato con tempismo da Antico Testamento, con la terra promessa in vista ma non ancora baciata.
Non è nemmeno il Lincoln emerso dalla terra di frontiera del Kentucky e cresciuto nell’altra frontiera, a nord, (nascendo alle Hawaii Obama lo ha superato a destra) poi diventato brillante avvocato e oratore imbattibile. I sette dibattiti con il democratico Stephen Douglas per un seggio al Senato sono stati del resto la chiave per arrivare alla corsa per la Casa Bianca, e le posizioni sulla schiavitù dell’Union Cooper speech sono arrivate poco dopo la leggendaria tenzone oratoria. Il Lincoln di Spielberg è un single-issue president. In America ci sono i single-issue voters, quelli che votano soltanto su un singolo punto del programma dei candidati (aborto, immigrazione, tasse ecc.) e il presidente del film è esclusivamente, ossessivamente orientato al passaggio del tredicesimo emendameto. Tutto il resto è arredo. E nella corsa a gomiti larghi per trovare i numeri al Congresso – niente moralismi, la corruzione vale – c’è la lezione per questo preciso e irripetibile Obama, l’Obama di secondo mandato, il negoziatore che ha sostituito il sognatore, quello che è chiamato a lasciare un segno nella storia del mondo libero: e i segni non si lasciano a forza di discorsi. E’ il Lincoln di inizio secondo mandato che dialoga con il successore nello stesso punto della parabola presidenziale.
Meglio stare fuori dal ginepraio dell’accuratezza storica di Spielberg, ma in una scelta il regista si discosta chiaramente da “Team of Rivals”, lo script seguito in modo altrimenti scrupoloso: l’interpretazione del tempismo. Gli storici hanno sempre litigato sul perché Lincoln avesse una fretta maledetta di far passare l’emendamento a gennaio, durante il periodo del lame duck con un Congresso sfavorevole, mentre di lì a poco avrebbe avuto una solida maggioranza che avrebbe votato la proposta senza bisogno di quel mese di penosa ed eroica mietitura di voti in partibus infidelium. Mentre intanto la guerra civile continuava a esigere altissimi tributi umani. Il film su questo prende posizione: la fretta di Lincoln è dovuta al timore che un repentino accordo che metta fine alla guerra possa far sfumare l’occasione per abolire la schiavitù. L’abolizionismo lincolniano è intimamente legato all’andamento della guerra – l’hanno marmorizzato post mortem, da vivo era fatto di carne anche lui – e la guerra diventa anche la circostanza favorevole per approvare un emendamento alla Costituzione che in tempo di pace sarebbe scivolato fuori dal campo del plausibile. Lo vedete anche voi l’idealismo e il realismo che si baciano sulla bocca? Il principio immacolato dell’uomo buono che si innesta sulla furbizia dell’uomo di mondo?
Obama non ha una guerra in casa fatta con i cannoni e le baionette, ma di questi tempi per dividere il paese ci sono armi diverse, il debito pubblico, le tasse, la disoccupazione, il sistema di welfare: tutto cospira alla divisione. E questo a prescindere dagli undici stati che hanno raccolto le 25 mila firme necessarie per presentare alla Casa Bianca la proposta di secessione. A parte i ronpaulismi che ritornano ciclicamente, l’unione di per sé non è in crisi ma c’è un fronte invisibile che attraversa l’America, fatto di un modello sociale in crisi, dell’eterna tensione fra big e small government, del massacrante arrivo alla pensione dei baby boomer, generazione benedetta e maledetta allo stesso tempo. Non c’è soltanto un accordo sul budget da trovare entro la fine dell’anno, con un Congresso per metà a maggioranza repubblicana, c’è un nuovo assetto economico e sociale da costruire.
La depressione non è finita ma l’economia cresce troppo lentamente per ricompattare le anime (e i corpi) dell’America. Serve una magia presidenziale che non somigli però a una magia, che abbia l’ambizione di indurre una rivoluzione culturale (l’abolizionismo d’oggi) propiziata tramite i mezzucci sporchi della politica as we know it (i negoziati d’oggi). La lezione di Spielberg per Obama ha a che fare con l’esclamazione che ricorre all’uscita dalle sale: “Ci vorrebbero dei politici così oggi, altro che quelli corrotti che abbiamo”. E nell’ultima scena, che richiede abbondanti risciaqui con il collutorio per essere sopportata, Spielberg spiega anche qual è il premio per il presidente che trova l’equilibrio perfetto fra ideale e reale: la santificazione.
Se il regista chiude il suo messaggio nel tempo da presidente a presidente con un tasso glicemico troppo alto, si può compulsare il mastodontico volume di Jon Meacham su Thomas Jefferson per ritrovare l’equilibrio pragmatico che serve. L’ex direttore di Newsweek sa cosa significa scrivere biografie presidenziali senza troppi grilli accademici per la testa e sa anche qual è il momento propizio per pubblicarle. Non tutti sono come Bob Caro, che vince premi Pulitzer anche se scrive ossessivamente di Lyndon Johnson dalla metà degli anni Settanta. Agli altri serve la scaltrezza di lanciare il proprio racconto presidenziale quando il contesto lo permette, e come scrivere di Andrew Jackson e della travolgente riscossa sotto le insegne della libertà individuale s’accompagnava bene all’ascesa messianica di Barack Obama, così il pragmatismo di Jefferson s’attaglia di più all’Obama reloaded. Nelle settecento e rotte pagine di “The Art of Power” Meacham ha tempo e spazio per andare negli interstizi, ma “la verità senza tempo” afferrata da Jefferson è in fondo soltanto una: “La politica è caleidoscopica, cambia continuamente, e gli avversari della mattina possono essere gli amici del pomeriggio”. La “politica delle relazioni personali” era un tratto distintivo di quello che gli storici hanno spesso dipinto come un filosofo e sognatore concentrato su una sola idea: l’ostilità all’espansione dello stato federale. Il Jefferson di Meacham è quello che si “concepiva come un animale politico”, quello che al tempo in cui guidava il dipartimento di stato sotto la presidenza di George Washington propiziava addirittura incontri informali con il nemico Alexander Hamilton, il segretario del Tesoro che voleva allungare a dismisura i tentacoli dello stato centrale sulla federazione.
Hamilton aveva appena presentato un piano in cui la Banca centrale si faceva carico dei debiti dei singoli stati, una bestemmia agli dèi politici di Jefferson, il quale odiava l’invadenza dello stato federale con tutte le sue forze. E il sintomo più fastidioso del potere federale erano le tasse, l’antico strumento di dominio esercitato dalla madrepatria.
A livello delle idee Jefferson considerava il segretario del Tesoro molto peggio di un avversario politico, era un cospiratore che voleva cedere la libertà individuale, il gran tesoro dell’Unione, in cambio dell’autoritarismo federale. Che la sicurezza fosse più in alto della libertà era una faccenda inaccettabile per Jefferson. Eppure, e qui Meacham parla all’Obama di oggi, una sera Jefferson e Hamilton si incontrano sulla soglia dello studio presidenziale e il segretario di stato ha l’intuizione che “l’inizio della saggezza politica arriva quando guardi l’avversario negli occhi”. E invita Hamilton a cena. Occorreva trovare un accordo sulle risorse da allocare agli stati e, dice Jefferson, “se tutti rimaniamo fermi e inflessibili sulle nostre opinioni, non riusciremo a fare nessuna legge, e senza finanziamenti lo stato non potrà erogare i servizi”. E’ con una cena ispirata dalla duttilità, dal pragmatismo che Jefferson trova un accordo con il suo peggiore nemico.
Sulla facilità relazionale di Jefferson e le sue capacità di trovare un compromesso Meacham insiste con una foga persino eccessiva, come nota anche la direttrice del New York Times, Jill Abramson, nella sua lunga recensione, ma quello è il senso del messaggio rivolto a Obama. Il presidente è cool per indole e inclinazione culturale. Ma nel giro di quattro anni è diventato “cold”, s’è trasformato da grande animale da campagna elettorale nel presidente che fa conferenze stampa con il contagocce, è diventato l’uomo della guerra pulita e asettica con i droni ordinata clandestinamente dalla Cia; all’inizio della sua carriera politica si vantava di poter convincere chiunque in qualunque dibattito a votare per lui; una volta arrivato alla Casa Bianca ha spremuto il potere esecutivo in tutti i modi possibili. E’ andato dritto anche quando la strada curvava. Jefferson per andare dritto faceva piuttosto una chicane.
“The art of power” racconta di un tempo di divisioni profonde nella politica della giovane America oberata dai costi dell’indipendenza, un tempo dove le abilità conciliatorie di Jefferson erano più potenti di qualunque proiettile intellettuale sparato a bruciapelo. Non è forse anche questo un periodo di polarizzazione e inconcludenza da scontro ideologico? Il terzo presidente americano lavorava il potere ai fianchi, non lo affrontava con la spavalderia delle idee immutabili. Abramson ricorda lo schema jeffersoniano riflesso nei drink che Ronald Reagan beveva assieme allo storico speaker della Camera democratica, Tip O’Neill, tanto per spiegare che l’arte del compromesso non è un’esclusiva dei padri fondatori. Dopo aver preso da Lincoln la tavolozza dei colori ideali, Obama può rivolgersi a Jefferson per ricevere consigli non richiesti su come stenderli sulla tela e diventare un artista del potere.


Il Foglio sportivo - in corpore sano
Fare esercizio fisico va bene, ma non allenatevi troppo
