Il dandy col pennello

Erano bianco e nero per Degas i colori della vita

Sandro Fusina

Il ritratto del nonno è raffigurato due volte: una volta come illustrazione nel testo del saggio “Degas in Italia” di Beatrice Avanzi; un’altra volta a piena pagina, come numero 3 del catalogo della mostra. Il catalogo, pubblicato dalla casa editrice Skira è intitolato semplicemente “Degas”. Di Degas non è necessario ricordare il nome di battesimo, Edgar. Come per tutti coloro che per un titolo o per l’altro hanno fatto la storia, basta il nome, o il cognome.

    Il ritratto del nonno è raffigurato due volte: una volta come illustrazione nel testo del saggio “Degas in Italia” di Beatrice Avanzi; un’altra volta a piena pagina, come numero 3 del catalogo della mostra. Il catalogo, pubblicato dalla casa editrice Skira è intitolato semplicemente “Degas”. Di Degas non è necessario ricordare il nome di battesimo, Edgar. Come per tutti coloro che per un titolo o per l’altro hanno fatto la storia, basta il nome, o il cognome. Designarli con entrambi sarebbe sminuirli, riportarli nel gregge degli uomini comuni. In copertina c’è però un sottotitolo: “Capolavori dal Musée d’Orsay”. E’ una buona notizia, almeno per chi sa quale raccolta di capolavori dell’Ottocento francese possegga il Museo d’Orsay. Ma non è una buona notizia per chi visiterà il d’Orsay, almeno fino alla fine di gennaio, finché cioè le opere di Degas lasceranno Torino per tornare a Parigi. Senza i Degas, il d’Orsay è mutilo. E’ una strana abitudine, anche se probabilmente conveniente sul piano finanziario e dell’immagine, quella di mandare in tournée le opere d’arte. A me per esempio non farebbe piacere capitare al d’Orsay e scoprire che quello che considero il gilet più elegante della storia della pittura e dell’abbigliamento è in giro per il mondo. Per fortuna in questa occasione è a Torino, nel parco del Valentino, nella sede della società promotrice delle Belle Arti. E’ il gilet che indossa il nonno di Degas nel ritratto riprodotto due volte nel catalogo della mostra torinese. Il titolo è “Ritratto di Hilaire de Gas”. Curiosamente, nelle didascalie il nome del nonno è scritto in due modi diversi. La particella de si legge una volta maiuscola, e un’altra minuscola. Diversamente dai cognomi dell’Italia centrale o da quelli spagnoli e portoghesi, in francese il de è invariabilmente segno dell’origine aristocratica della famiglia: pertanto si deve scrivere con la di minuscola. In realtà, soprattutto nella prima metà dell’Ottocento, in Francia non furono pochi quelli che, approfittando della confusione prodotta negli albi della nobiltà dalla nuova aristocrazia napoleonica, avendo un cognome che cominciava con de (Debray) o du (Dupont) pensarono bene di spezzarlo per spacciarsi per nobili; o addirittura (ci furono casi tra i nomi più prestigiosi della letteratura del secolo: Balzac o Beyle, alias Stendhal, per esempio) che si attribuirono di sana pianta particelle aristocratiche.

    Degas, da vero snob, andò invece controcorrente. Avendo diritto alla particella nobiliare, come si evince dal nome del nonno e del padre, la abolì, riunendola al nome. Non era forse stato l’arbitro dell’eleganza, il dandy per eccellenza, George Bryan “Beau” (Beau, non Lord) Brummell, a trasformare in titolo di distinzione quell’epiteto “snob” che sulla porta di certe camere nei college di Oxford notificava che l’occupante non apparteneva ahilui a una famiglia aristocratica, era cioè s(ine) nob(ilitate)?
    Se non tutti, alcuni dei comportamenti di Degas, considerati dai conoscenti e dai posteri scostanti, potrebbero essere ricondotti al sistema culturale del dandy: non ultimo il valore sociale del lindore dell’abbigliamento del corpo. Non fu forse la peggiore umiliazione di Brummell, caduto in disgrazia presso il Reggente, quella di non potersi più permettere di cambiare la biancheria più di una volta al giorno?
    Da un punto di vista biografico il nonno di Degas era tutt’altro che un dandy. Il dandy, nel suo prototipo che fu Beau Brummell, o nella sua migliore incarnazione francese, quel miscuglio di italiano francese e inglese che fu il conte d’Orsay, dedicava tutte le sue energie a condurre un’esistenza elegante (d’Orsay in realtà disegnava, soprattutto ritratti di amici, ma sempre da dilettante, e a titolo gratuito). Hilaire de Gas invece lavorava sodo. Era fuggito giovanissimo dalla Francia, per sottrarsi al disordine della Rivoluzione, di cui non condivideva i principi, e si era stabilito a Napoli, dove era diventato un facoltoso banchiere. Degas lo ritrae a Capodimonte, durante un suo lungo soggiorno in Italia per studiare la pittura antica. Con la destra il vecchio gentiluomo tiene il bastone appoggiato in grembo. L’impugnatura dice che non si tratta di bastone da passeggio, quel complemento di abbigliamento che per tutto l’Ottocento e gran parte del Novecento gli uomini, privati del diritto di portare la spada, portano a passeggio, ciascuno con un pomolo congeniale che dichiara i gusti e le inclinazioni del proprietario, ciascuno di un materiale più o meno prezioso e di fattura più o meno artistica, a seconda sostanzialmente delle possibilità economiche. Quello di Hilaire de Gas è invece un vero bastone d’appoggio, un bastone che serve per aiutare la deambulazione: è la terza gamba, la gamba che all’animale uomo spunta alla sera della vita nell’enigma della Sfinge a Edipo. Ma il legno è ebano, e il manico è d’avorio: il bastone è bianco e nero, come il vestito del nonno. Hilaire ha l’espressione assorta del vecchio che non capisce più il mondo, che non vede il nipote che lo sta ritraendo. Il suo pensiero è altrove. Eppure l’atmosfera del quadro non è perfettamente triste. E’ l’eleganza da anziano dandy a riscattare l’umiliazione della vecchiaia. A illuminare la scena è il candido gilet con il collo a scialle, esattamente al centro del campo. E’ di una seta grossa, non brillante, come la bourette, oppure di una lana morbida come il cachemire? Qualunque sia il filato, si sente la “mano”, il peso di un tessuto consistente, ma docile a panneggiarsi con eleganza sul corpo. In questo ritratto giovanile e sentimentale sembra che Degas metta in pratica una lezione che gli può essere arrivata dai grandi ritrattisti del tardo Cinquecento, come un Giovan Battista Moroni, capace con le ombre e le luci create dal pennello di rendere la consistenza dei tessuti con cui sono fatti gli abiti, capace di rendere le diverse qualità di due colori non colori come il bianco e il nero.

    Il gioco del bianco e nero ritorna con un’intonazione diversa in un altro quadro italiano di Degas, la grande tela (due metri per due metri e mezzo) che ritrae la famiglia Bellelli. Il quadro è il risultato di una lunga elaborazione. Degas è ancora l’artista che non ha bisogno di vendere le sue opere, che non ha bisogno del consenso del pubblico, che può vivere del suo, che si dedica alla pittura per una vocazione esclusiva. Anche se così stravolto da renderlo irriconoscibile a prima vista, non è poi così difficile individuare il genere al quale “La famiglia Bellelli” appartiene: è la conversation piece, ovvero la rappresentazione di un gruppo di persone che condividono una situazione, una passione, una attività. Della conversation piece il più comune dei sotto generi è il quadretto familiare, in cui è rappresentato un momento intimo e felice della famiglia, in cui anche l’imperatore d’Austria, per spietato e tiranno che possa apparire ai suoi sudditi alloglotti, e la sua consorte, per fredda e altera che sia considerata persino dalle sue dame di compagnia, sono inteneriti dai trastulli del principino che gioca al piccolo imperatore brandendo una sciaboletta a cavallo di un cavalluccio a dondolo. L’idea di famiglia di Degas non è però quella ottimistica del gusto Biedermeier. Degas, ossequioso a parole della tradizione, non riesce a toccare genere senza stravolgerlo, senza rovesciarlo. Della sua famiglia ristretta non dà molte rappresentazioni: la madre gli è morta quando era ancora bambino, nelle opere rimaste il padre compare una sola volta, con il tipico sguardo perso di famiglia, con le mani intrecciate, in secondo piano, mentre ascolta il chitarrista Lorenzo Pagans, in una tela in cui ancora domina il nero.
    “La famiglia Bellelli” è parte della famiglia di Degas. La signora Bellelli è nata de Gas: è la zia del pittore, è la figlia di Hilaire. Il nonno è la figura che incombe con la sua assenza nella conversation piece. Il nero assoluto del vestito della signora è un nero di lutto, senza luce. Il nonno è morto. La seconda metà dell’Ottocento è l’età del lutto, delle onoranze funebri. Modello è l’arcilutto di Vittoria, sovrana del Regno Unito. Per la morte (1861) di Alberto di Sassonia Coburgo, il principe consorte, tutta una nazione entra in lutto, dando un significato epico a una parola così privata come condoglianze. Perfino l’esposizione del 1862, la creatura che nelle intenzioni di Alberto avrebbe dovuto rinnovare l’idea del ruolo di guida economica, politica e morale della Gran Bretagna nel mondo, fallisce nei suoi intenti, per l’abulia della sovrana soffocata dal pianto. In nero intanto vengono tinti filati pregiati e i gioiellieri scoprono l’eleganza del giaietto, una lignite molto dura, che può essere tagliata e montata in un metallo tanto prezioso quanto poco vistoso come il platino.

    Ma il nero della signora de Gas in Bellelli non è alla moda, è opaco, non rialzato da colpi di luce. Il nonno è presente in effigie, in un disegno a sanguigna appeso alla parete in una cornice dorata. E’ il disegno preliminare del bozzetto (“Hilaire de Gas” 25,7 x 20,5 cm), in catalogo al numero 22 della mostra torinese. Ma nel quadro c’è di più della tristezza del lutto. Nella geometria degli sguardi, nella prossemica tra i quattro componenti della famiglia si legge un dissidio, forse un rancore, insanabile. Delle due sorelline, per esempio, Giovanna guarda dritta fuori del quadro, secondo un’antica convenzione del ritratto, in quegli anni confermata dalla impetuosa diffusione dei ritratti fotografici che rendono inevitabile la fissità delle lunghe pose. Con le mani incrociate sul ventre sembra fiera che la mamma le posi la sua mano senza energia sulla spalla. Mentre Giulia, senza voltarle davvero le spalle, gira la testa dalla parte del padre. Potrebbe essere un’istantanea ante litteram, una dimostrazione della superiorità della pittura rispetto alla fotografia, non ancora capace, per motivi tecnici, di fermare l’attimo. Ma perché allora nel doppio ritratto del County Museum of Art di Los Angeles, le sorelle Bellelli, ormai giovanette e non più in lutto, continuano a darsi le spalle? Perché Giovanna insiste a fingere di guardare in macchina, incapace di svegliarsi dai suoi pensieri neri, e Giulia a fingere di guardare verso destra, come se ancora ci fosse il padre che le parla come nel vecchio ritratto?
    Il padre è l’unico dei quattro non vestito a lutto, giacché in casa, in giacca da camera, il lutto non si porta. Nella tavolozza del quadro la sua giacca beige ha la stessa funzione dei calzoni grigi nel ritratto del nonno. Giulia ha la testa voltata verso destra, da dove arriva la sua voce, ma non lo sta guardando, e neppure lo sta ascoltando, il suo sguardo è perso nel vuoto, insegue suoi pensieri. Lo fissa invece la moglie, con le labbra serrate e uno sguardo di disapprovazione, se non d’odio, che è difficile da non vedere, da sopportare. Forse le parole che sente non le piacciono, forse non le piace quell’uomo di cui porta il nome, allontanato come indesiderabile da Napoli, dove il padre era una figura stimata e riverita. I colori dell’arredo del salotto borghese sono smorti, non basta l’oro fioco delle cornici, né l’azzurro polveroso della tappezzeria a fiori bianchi a ravvivare l’atmosfera. Ancora una volta è il bianco a rischiarare la scena. Bianchi sono i grembiuli che coprono i vestiti neri da lutto delle due bambine, ma è un bianco molto diverso dal famoso gilet del nonno. E’ un bianco che non sa illuminare, non sa nemmeno coprire, un bianco che non si perita di lasciare trasparire tutto il nero che c’è sotto. Un bianco da sepolcri imbiancati, per dirla con le Scritture.

    Il bianco torna vivo, vivace, quasi spumeggiante nel più importante dei quadri dipinti da Degas in occasione del viaggio in Louisiana per fare visita ai parenti che si sono fatti americani. Poiché non appartiene al d’Orsay, ma al Musée des Beaux Arts di Pau, la tela non è in mostra a Torino.
    E’ un’opera straordinaria per più di una qualità. E’ straordinaria per il punto di vista, per esempio: la prospettiva sembra stravolta. Si direbbe che la scena sia stata colta attraverso la lente di un obiettivo a grandangolo, se l’arte fotografica avesse già inventato una diavoleria del genere. E’ inconsueta per la distribuzione insolita delle figure nello spazio, come se si trattasse di un’istantanea casuale. E’ ammirevole per la capacità di mettere in primo piano particolari apparentemente insignificanti, capaci però di concentrare nella loro irrilevanza il momento storico. Non c’è forse opera migliore per illustrare una famosa dichiarazione di Degas: “Non c’è arte meno spontanea della mia. Quello che faccio è il risultato della riflessione e dello studio dei grandi maestri; di ispirazione, spontaneità, temperamento… non so nulla”. Un esempio solo: in basso a destra, dal margine inferiore spunta visto dall’alto un cestino della carta straccia. Prima di gridare al precursore dell’arte povera, guardiamoci dentro. Un cestino di carta straccia non può che essere pieno di carta straccia. Infatti. Ma è carta straccia che già al suo tempo avrebbe fatto la felicità di un collezionista di francobolli. Il cestino sembra pieno di buste affrancate. In secondo piano, almeno rispetto al cestino, un impiegato in maniche di camicia (camicia bianca, di candido cotone) sembra evadere la corrispondenza. E’ in piedi accanto a uno di quei banconi troppo alti per lavorare seduti. Il titolo, “Ritratti in un ufficio di New Orleans”, è pertinente. Infatti in un ufficio siamo, e tutte le figure sono presumibilmente ritratte dal vero. Di due che portano in testa l’haut-de-forme, il cilindro, possiamo essere sicuri. Seduto in primo piano, tagliato alle ginocchia, in quello che si direbbe un piano americano, se il cinematografo non fosse di là da venire, lo zio acquisito di Degas, ovvero lo zio Michel Musson, correttamente vestito in nero, sta esaminando e saggiando con l’unghia qualcosa proveniente da una scatola posata sulla seduta di una poltroncina d’ufficio. Appoggiato alla finestra di un divisorio, accanto al margine destro della tela Achille, il fratello di Degas, contempla la scena, come dall’esterno, come se la stesse osservando da un punto vista antitetico rispetto al pittore. Nella composizione c’è tutta la maestria delle “Meninas” di Velázquez, un altro dei maestri prediletti da Degas. Gli altri personaggi portano il popolare chapeau melon, la bombetta (i raggi x ci hanno svelato che anche zio e nipote portavano la bombetta, prima di un ripensamento di Degas, ma il cilindro nei ritratti fa un gran bell’effetto). Alcuni impiegati di bassa forza, tra cui quello che sbriga la corrispondenza sono a capo scoperto. Non tutti sono vestiti di nero.

    Degas usa spesso i grigi e i beige per alleggerire la tavolozza. Grigi sono i pantaloni di nonno Hilaire, beige è la giacca da camera dello zio Bellelli. L’ufficio sembra molto animato. Tutti sono in piedi, tutti si muovono. Seduti sono quasi solo lo zio e un altro personaggio che proprio al centro del quadro è assorto nella lettura del giornale. E’ il ricco contenuto del cestino della carta straccia a spiegare il perché. Gli ordini piovono da tutto il mondo. E’ necessario tenere d’occhio sul giornale il corso del cotone sulle due sponde dell’Atlantico e l’arrivo e la partenza dei navigli. Per New Orleans è un grande momento. Il quadro è stato dipinto nel 1873. Solo due anni prima, in città è stata inaugurata la Borsa del cotone, per sottrarre a New York il controllo del mercato. Poiché al momento il cotone è il bene agricolo più importante del mondo, New Orleans è diventata, dopo New York e Liverpool, il terzo mercato di future del mondo. E per non lasciare dubbi su cosa si tratta nell’ufficio, su un lungo tavolo esplode il bianco dei fiocchi di cotone, al solito in costrasto con il nero delle redingote dei personaggi. Ed è un fiocco di cotone che zio Musson sta esaminando con cura. “Ritratti in un ufficio”, oltre a un capolavoro d’arte, è un documento storico di un passato prospero della città: se non altro per scaramanzia, New Orleans avrebbe dovuto fare carte false per acquistarlo, quand’era ancora in tempo.
    Il nero poi si stinge e il bianco si sporca come nel caso della camicetta di lei e della giacca e del cappello di lui, nella coppia abbruttita dalla miseria e dall’assenzio a un tavolino di un caffè intitolato appunto “L’assenzio”. Sarà realismo, ma è anche letteratura. Quel poveraccio potrebbe essere un presunto artista fallito, come il protagonista di “Un bon petit diable” di Alphonse Allais, come Bibi-la-Purée, che sopravvive spacciando false reliquie del suo amico Verlaine. Quella poveretta potrebbe essere una prostituta in disarmo uscita da un racconto di Guy de Maupassant. Se la vita e la letteratura stesse non sanno mai distinguere bene cosa è arte e cosa è vita, perché mai dovrebbe farlo la pittura?
    Il bianco torna a brillare vivificato dalle luci sotto la cupola del circo Fernando, nella guaina di seta a rubans dell’acrobata di colore La La, nel quadro (posso dire magnifico?) di proprietà della National Gallery di Londra. Come altri circhi, stabili o stagionali di Parigi, il circo Fernando ebbe nell’ultimo quarto dell’Ottocento un grande successo di pubblico. Ma come nessuno dei concorrenti, il circo di Montmartre seppe incantare gli artisti. Si ispirarono ai suoi numeri movimentati George Seurat e, naturalmente più volte, Henri de Toulouse-Lautrec. Il bianco dei costumi delle sorelline acrobate Wartenberg non mancò di sedurre Auguste Renoir, il pittore contemporaneo forse più lontano per concezione dell’arte e della vita da Degas. Ma nessuno immaginò un’inquadratura tanto ardita, come quella dell’acrobata sollevata per aria appesa per i denti. Tale è la tensione emotiva che emana dal quadro che può capitare che chi cerca di descriverlo a memoria parli della tensione spasmodica del pubblico. Proietti il proprio sentimento su un pubblico immaginario, che non può essere teso e in ansia, semplicemente perché non si vede, perché il pittore non lo ha dipinto, e in pittura tutto ciò che è fuori dalla cornice non esiste.

    Si sarebbe compiaciuto il razionale Degas di tanto coinvolgimento? Forse più di ogni altro pittore Degas coglie l’essenza della lezione che arriva dal Giappone. Il commodoro della marina degli Stati Uniti Matthew Perry non è entrato da molto tempo (1853) nella baia di Edo (l’attuale Tokyo) per forzare l’imperatore ad aprire il suo regno al commercio con gli Stati Uniti, che già l’America e l’Europa sono invase da una quantità di magnifici prodotti del Sol Levante. Le silografie colorate note con il nome di ukiyo-e, ovvero immagini del mondo fluttuante sono tra i più belli. Anche in Giappone non hanno un’origine antica. Nella cultura per secoli immobile dell’impero del Sol Levante, fondata sul sentimento del dovere, rappresentano una rivoluzione culturale. Così il romanziere Asai Ryoi descrive l’ukiyo-e: “Vivere solo per l’attimo, prestare tutta la nostra attenzione ai piaceri della luna, della neve, dei fiori di ciliegio e delle foglie di acero; cantare canzoni, bere vino, lasciarsi andare a galleggiare… questo è quello che chiamiamo mondo fluttuante”. Le stampe dell’ukiyo-e conquistarono gli artisti. Ci fu chi fu attratto dalla campitura dei colori, come Toulouse-Lautrec, chi dal fascino dei giardini, come Monet, che un po’ a nord di Parigi si fece un giardino giapponese per ritrarlo infinite volte. Ci fu chi come Van Gogh si limitò a copiare in maniera goffa certe stampe già di bassa qualità. A Degas l’esempio dei giapponesi confortò, se non gli suggerì, una nuova impaginazione che liberava l’artista dalla convenzione di collocare il soggetto principale al centro del quadro. Nella pittura europea esistevano pochi esempi di quella pratica, forse solo uno, ma troppo estremo per poter servire da esempio. Era la “Caduta di Icaro” di Pieter Bruegel il vecchio, (ai Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles), oggi considerata piuttosto un copia precoce. Nel quadro si vede di tutto. Un uomo che guida l’aratro tirato da un cavallo, un pastore con il suo gregge di pecore, una bella baia assolata con le onde appena increspate, una città sullo sfondo, un’isola misteriosa nel centro, qualche naviglio, qualche creatura marina, ma Icaro dov’è? Bisogna cercarlo bene, per scoprirlo mentre affonda nel mare, con le gambe all’aria, a destra in basso. Degas, grazie all’esempio giapponese, ha raccolto dopo secoli il testimone. Non è il fratello Achille, sentimentalmente per Degas il personaggio più importante dell’Ufficio di New Orleans, relegato come un osservatore al margine? Chi si accorgerebbe di lui se non portasse il cilindro?

    Non sempre la situazione finanziaria fu abbastanza solida per permettere a Degas di dipingere senza preoccuparsi di vendere. Un dissesto familiare lo condannò a lavorare per vivere. Nipote di suo nonno, se la cavò egregiamente. Ma dovette rivedere i soggetti. Il paesaggio, che andava per la maggiore, non gli diceva granché e i quadri di storia, particolarmente graditi ai ricchi committenti, non erano esattamente il suo forte, anche se vi si era cimentato. Di nuovo gli vennero in soccorso le stampe giapponesi, suggerendogli l’idea di serie. Quanto alla tecnica, scelse in prevalenza il pastello, più adatto ai piccoli formati, più rapido da eseguire. Le serie che adottò furono tre. Due erano di soggetto tipicamente occidentale e mondano, le corse al galoppo, di cui condivideva la passione con il suo amico Manet, e le ballerine. In entrambi si distinse per originalità dei punti di vista, delle inquadrature. Per la terza, le bagnanti, i modelli furono le donne di Yoshiwara, il quartiere dei postriboli di Edo, come le aveva colte il grande Utamaro, intente alle abluzioni quotidiane. Ma i fogli di Degas sul tema del bagno e della tinozza furono davvero molti. A Degas non mancava la capacità di sviluppare in modo autonomo il tema. Ma probabilmente non rinunciò a rifarsi a certi fogli giapponesi, più tardi, più popolari, più economici, più “seriali” in cui decine di donne, in fila come in un foglio di soldatini di carta da ritagliare, si lavavano e si asciugavano in uno stabilimento pubblico.