Il lavoro che c'è e non si vede

Redazione

 Il tasso di disoccupazione in Italia ha superato l’11 per cento. Dietro la tendenza al rialzo degli ultimi anni c’è la crisi economica (globale), ma non solo questa. Come va spiegando da mesi il giuslavorista e senatore del Pd Pietro Ichino, infatti, il paradosso è che alcuni aspetti del nostro attuale sistema di “tutela sociale” aggravano la disoccupazione. Si prendano i numeri presentati ieri da Ichino a un seminario milanese (e disponibili stamattina su www.pietroichino.it).

     Il tasso di disoccupazione in Italia ha superato l’11 per cento. Dietro la tendenza al rialzo degli ultimi anni c’è la crisi economica (globale), ma non solo questa. Come va spiegando da mesi il giuslavorista e senatore del Pd Pietro Ichino, infatti, il paradosso è che alcuni aspetti del nostro attuale sistema di “tutela sociale” aggravano la disoccupazione.
    Si prendano i numeri presentati ieri da Ichino a un seminario milanese (e disponibili stamattina su www.pietroichino.it). Impressionante il fatto che pure in questi anni di recessione grave, in Italia siano stati stipulati due milioni di contratti a tempo indeterminato ogni anno. Nel solo Veneto, nel 2011, sono stati stipulati 625.850 contratti di lavoro (di ogni tipo), mentre il totale dei licenziamenti in regione non arriva alle 35 mila unità. Inoltre otto persone su dieci che hanno perso il posto l’hanno ritrovato entro un anno.

    Di lavoro, insomma, ce n’è più di quanto si pensi, e non solo in Veneto. Allo stesso tempo, però, i disoccupati italiani non hanno praticamente possibilità di accedere a questi posti, soprattutto se confrontiamo le loro chance rispetto a quelle dei cittadini americani, svedesi e francesi nelle stesse condizioni. Le occasioni di lavoro sono infatti riservate alla mobilità diretta da posto a posto.
    Il problema è che, per riflesso condizionato (dagli interessi dei sindacati e di certa politica), diamo spesso per scontata una prospettiva di lunghi anni di cassa integrazione per chi perde il lavoro. Piuttosto che, invece, fornire percorsi quanto più personalizzati di riqualificazione in base alle esigenze professionali e geografiche. O magari preferiamo inseguire la chimera dei diritti perfetti per gli “insider” (già assunti), a costo di rendere incomprensibile il nostro codice del lavoro a quegli imprenditori stranieri che dall’Italia si tengono alla larga.