Guardare le Polaroid di Moro. Da sordi

Guido Vitiello

Sacrificare senza uccidere, liberare la vittima senza versarne il sangue, che stranezza è mai questa? Eppure, si racconta, i Tatari della regione di Minussink usavano sacrificare al dio del tuono un cavallo vivo: radunati in preghiera sul luogo del rito, gli toglievano le briglie e lo lasciavano correre via. Sarà che la “frezza bianca” evoca a suo modo l’immagine di una criniera, ma l’antico costume menzionato da Calasso nella “Rovina di Kasch” sembra illuminare la sequenza finale di “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio: Aldo Moro sciolto dalle briglie nel sogno catartico della sua carceriera-immolatrice.

    Sacrificare senza uccidere, liberare la vittima senza versarne il sangue, che stranezza è mai questa? Eppure, si racconta, i Tatari della regione di Minussink usavano sacrificare al dio del tuono un cavallo vivo: radunati in preghiera sul luogo del rito, gli toglievano le briglie e lo lasciavano correre via. Sarà che la “frezza bianca” evoca a suo modo l’immagine di una criniera, ma l’antico costume menzionato da Calasso nella “Rovina di Kasch” sembra illuminare la sequenza finale di “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio: Aldo Moro sciolto dalle briglie nel sogno catartico della sua carceriera-immolatrice. “Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate Rosse” (Guanda) di Marco Belpoliti si chiude appunto sulla visione di Bellocchio, a segno che il fantasma del presidente cammina ancora tra noi: “Moro indossa sul pigiama da prigioniero il proprio cappotto e va a passeggiare indisturbato per la città aperta seguito passo dopo passo dalla musica dell’Aida verdiana”. A voler fare i pignoli, non è l’Aida, sono i Pink Floyd, nonché il Momento musicale n° 3 in Fa minore di Schubert, lo stesso che in “E la nave va” di Fellini era eseguito con dei bicchieri. Ma al di là delle pedanterie, il libro di Belpoliti va a comporre – accanto a “Il corpo del capo” e “La canottiera di Bossi” – un’ideale trilogia delle occasioni sciupate.  Gli ingredienti erano di prima scelta, attinti a un repertorio iconografico che farebbe gola a qualunque saggista: le mille immagini del mutante Berlusconi, quelle di Bossi in canottiera e dito medio alzato, ora le Polaroid di Aldo Moro scattate dai suoi carcerieri. E anche la ricetta, se non nuova, era sapiente: scrutare la storia intima dell’Italia non già dal buco della serratura, frugando nel doppio fondo del doppio stato, ma badando a quel che è esposto in bella vista, come Dupin nella “Lettera rubata”. Il guaio è che il cuoco è frettoloso, o indeciso, e tenta svogliatamente tutti gli attrezzi di cucina senza che l’impasto prenda forma. Era vero per “Il corpo del capo”, dove si flirtava un po’ con Kantorowicz (maltrattandolo) e un po’ con Baudrillard, un po’ con Jung e molto con Luzzatto, ed è vero per “Da quella prigione”, che usa frammenti delle teorie più disparate – Sontag, Barthes, Berger – per lanciare suggestioni tra l’improbabile e l’indimostrabile.

    Le Polaroid di Moro evocano quelle scattate da Warhol, dove l’iperrealismo protegge dall’impatto traumatico con la realtà? Si può rispondere solo con un abissale “mah”. I brigatisti erano “distratti allievi del Dams” dediti alla “guerriglia semiologica”, tanto che la seconda Polaroid di Moro, quella in cui tiene in mano la Repubblica, va letta come una meta-fotografia o un manifesto pubblicitario? Fosse stata la Baader-Meinhof, piena di artisti e aspiranti registi, avremmo capito, ma i funzionari senza estro delle Br il massimo che hanno prodotto è il filmino casalingo del processo a Roberto Peci. O ancora: dopo le foto di Moro, il corpo è tornato al centro della politica? Ma i digiuni di Pannella cominciano molto prima, e tra Moro e Berlusconi passano quindici anni. Da qualunque lato la si guardi, i conti non tornano.
    C’è una sola cosa che torna, come un revenant, ed è lo sguardo interpellante di Moro nelle Polaroid, l’Ecce homo spaurito dietro la maschera del potente democristiano. Leonardo Sciascia colse questo aspetto nelle lettere di Moro ma, nota Belpoliti, “stranamente non ha mai indugiato sulla sua immagine”. Sciascia invero qualche parola sulle Polaroid l’aveva detta (in un’intervista a Repubblica), ma forse aveva intuito che Moro non ci avrebbe tormentato come il fantasma di un’immagine – un gatto del Cheshire dal sorriso patito – bensì come il fantasma di una voce. E’ quel che ci suggeriscono le incarnazioni di Moro al cinema, da Bellocchio al Giordana di “Romanzo di una strage”: non usa mai il linguaggio che usava da vivo e potente – quello evasivo e cerimonioso del Volonté di “Todo Modo” – ma parla, immancabilmente, come le sue stesse lettere dalla prigionia, recitate dall’oltretomba.