
Tutti contro Rushdie
Di “Joseph Anton” è difficile parlare male. Si tratta dell’autobiografia di Salman Rushdie sulla fatwa di Khomeini che ha colpito i suoi “Versetti satanici” e una peregrinazione lunga vent’anni. Un coro unanime dunque anche da parte dei benpensanti, se non fosse per quei radical chic della New York Review of Books, la rivista venerata dagli intellettuali progressisti e sulle cui colonne hanno firmato Edmund Wilson e Mary McCarthy, Hannah Arendt e Jean-Paul Sartre, che lì sfogò molti malumori senili.
Leggi La prima fatwa di Giulio Meotti - Leggi Rushdie à rebours di Mariarosa Mancuso
Di “Joseph Anton” è difficile parlare male. Si tratta dell’autobiografia di Salman Rushdie sulla fatwa di Khomeini che ha colpito i suoi “Versetti satanici” e una peregrinazione lunga vent’anni. Un coro unanime dunque anche da parte dei benpensanti, se non fosse per quei radical chic della New York Review of Books, la rivista venerata dagli intellettuali progressisti e sulle cui colonne hanno firmato Edmund Wilson e Mary McCarthy, Hannah Arendt e Jean-Paul Sartre, che lì sfogò molti malumori senili. Intellettuale mondano, globale e comunitarista, Rushdie è diventato parte della vita pubblica, è comparso persino in un cameo nel “Diario di Bridget Jones” e in un video dell’attrice Scarlett Johansson. Per i conservatori non ci sarebbe nulla di male, se Rushdie non si fosse consegnato a un certo multiculturalismo naïf e da paladino della libertà non fosse diventato l’idolo di Democracy Now e delle chattering classes. Rushdie, ha scritto un columnist americano, è diventato “goscismo fashion”.
Il Guardian scrive che non si ricorda un simile attacco portato dai liberal contro Rushdie come quello della New York Review of Books. La scrittrice inglese Zoë Heller, che ha firmato la recensione-killer, definisce Rushdie “un superbo pieno di amor proprio”: “Per Rushdie uno dei maggiori dispiaceri della fatwa – che lo avrebbe agitato più dell’assalto alla libertà di parola o le minacce alla sua vita – è aver scoperto che un gran numero di persone erano incapaci di prendere sul serio il suo ‘intento artistico’”. Si attacca “la nonchalance con cui Rushdie pone se stesso al fianco di Lawrence e Joyce”. Si accusa lo scrittore di ingratitudine rispetto alla protezione che gli ha accordato l’Inghilterra: “Margaret Thatcher, che nei ‘Versetti satanici’ è chiamata ‘Mrs. Torture’, non era una fan di Rushdie, ma il suo governo ha riconosciuto il dovere di proteggere la libertà di parola”. E Rushdie sarebbe stato ingeneroso anche con gli editori e i traduttori che hanno rischiato la pelle per portarlo in libreria. Poi l’accusa di essere diventato un personaggio del jet set: “Rushdie è un uomo che spende gran parte delle memorie a ricordare gli incontri con le pop star e le conigliette di Playboy”.
Moralismo. Ma la New York Review of Books non è la sola a criticarlo con questi argomenti. Lo ha fatto anche il New York Times, che racconta il Rushdie “presenza indefessa della vita notturna di New York”. Rushdie ospite d’onore alla presentazione di app per iPad, delle gallerie d’arte a Chelsea, dei ristoranti indiani di cui è socio e delle prime cinematografiche. “In pubblico è sempre attorniato da due o tre donne bellissime”, ha detto Graydon Carter, editor di Vanity Fair. Il New York Times non gli risparmia la compulsione sulla rete: “A differenza degli intellettuali della sua generazione, Rushdie usa i social media con il vigore di un ragazzino”. Anche il Telegraph ha la mano pesante contro la sua egolatria: “Rushdie si paragona a Re Carlo e a Voltaire. L’inferno di vivere all’ombra della fatwa è sommerso da una frivolezza letteraria fatta di party e dal sentimento tossico dello scrittore come celebrità”. La New York Review of Books è certamente ingenerosa verso uno scrittore che ha pagato un prezzo alto. Ma anche fra quanti hanno elevato la sua storia a esempio e pegno della libertà di parola minacciata dall’islamismo, esiste la sensazione che a forza di personalizzare la fatwa, Rushdie abbia finito per renderla un tantino ridicola.
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