Israele pensa a difendersi con nuove case. Furiosi pure gli alleati

Giulio Meotti

Non era mai successo che Francia e Gran Bretagna minacciassero di ritirare gli ambasciatori da Israele, un passo definito “senza precedenti”, per protestare contro la decisione del governo di Benjamin Netanyahu di costruire tremila alloggi fra Gerusalemme e la Cisgiordania. “Questa volta non ci sarà una formale protesta, ci sarà una concreta reazione contro Israele”, scrive il quotidiano Haaretz citando un diplomatico europeo anonimo.

    Non era mai successo che Francia e Gran Bretagna minacciassero di ritirare gli ambasciatori da Israele, un passo definito “senza precedenti”, per protestare contro la decisione del governo di Benjamin Netanyahu di costruire tremila alloggi fra Gerusalemme e la Cisgiordania. “Questa volta non ci sarà una formale protesta, ci sarà una concreta reazione contro Israele”, scrive il quotidiano Haaretz citando un diplomatico europeo anonimo. E’ iniziato il “day after” dell’iniziativa dell’Autorità palestinese alle Nazioni Unite, che ha conferito a Ramallah l’upgrade diplomatico a osservatore non membro, iniziativa che il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha definito “terrorismo diplomatico”. Dopo il voto all’Onu, Israele si ritrova più solo. Al Palazzo di vetro ha potuto contare sull’amicizia di Stati Uniti, Canada, Repubblica Ceca, Panama, isole Marshall, Micronesia, Nauru e Palau. Non molto. Adesso a suscitare le ire della comunità internazionale, compresa la Casa Bianca che si è detta “scioccata”, è il più controverso progetto di insediamento nei territori contesi dal 1967. 

    Si tratta dell’ambizioso progetto edile volto a collegare Gerusalemme all’insediamento ebraico di Maale Adumim. Il progetto in questione – noto come “E1” o anche “La porta d’oriente” – prevede la costruzione di un capillare tessuto urbano fra l’insediamento e i quartieri orientali di Gerusalemme. La nuova zona sarebbe la continuazione del rione ebraico di Har Homa, la cui costruzione da parte di Netanyahu, a partire dal marzo 1997, aveva già provocato il congelamento del processo negoziale in medio oriente. “Londra è furiosa sul progetto E1”, ha detto un diplomatico europeo. “Non sono semplicemente altre case in una collina della West Bank”, ha detto Daniel Kurtzer, ex ambasciatore a Tel Aviv. “E’ una delle aree più sensibili”.

    Ma Israele ritiene strategico costruire lì. Maale Adumim è uno di quegli insediamenti a cui neppure i centristi o la sinistra dicono di poter rinunciare in un ipotetico scambio di territori con i palestinesi. Per questo ieri la leader laburista Shelly Yachimovich, pur contestando la tempistica del governo, ha detto che “costruire nei quartieri ebraici di Gerusalemme non è controverso”. E infatti Maale Adumim è uno dei soli quattro insediamenti, su più di centoventi esistenti in Cisgiordania, a cui Israele ha  conferito lo status di città. Fondata nel 1975 da venti famiglie, la città conta oggi quarantamila abitanti, negozi, scuole e centri commerciali. L’insediamento guarda avidamente a un’area di dodici chilometri quadrati, la “E1”, che gli permetterebbe di congiungersi a Gerusalemme. Ma per i palestinesi, costruire lì significa tagliare in due la Cisgiordania, spezzando ogni continuità territoriale del futuro stato. Ramallah e Betlemme sarebbero tagliate da Gerusalemme e i quartieri arabi di Abu Dis, Eizariya, Anata e Zaim non avrebbero legami con il nord dei territori.

    Il progetto israeliano è teso a rafforzare quella che la sinistra chiama la “Grande Gerusalemme”, in particolare Har Homa, che sorge a meno di un chilometro da Betlemme. Prima del 1997, quando con Netanyahu il quartiere iniziò a prendere forma, a Har Homa si poteva trovare una sola cosa: il vento e qualche nuraghe. Per entrambe le parti possedere quella zona è oggi strategico: se ci costruiscono gli israeliani, allargano il confine della città a sud, impedendo l’accerchiamento di Gerusalemme da parte dell’Autorità palestinese, che a sua volta godrebbe di una continuità geografica fino al quartiere di Talpiot, praticamente in centro città, nel caso contrario. Come oggi, Netanyahu anche allora disse che se Har Homa non fosse stata costruita, “la battaglia di Gerusalemme sarebbe perduta per sempre”. I coloni israeliani commentavano ieri che se Netanyahu va avanti col progetto “varcherà il Rubicone”, ma dubitano che riuscirà a resistere alla pressione interna e internazionale.

    Agli occhi dei palestinesi e degli alleati d’Israele è “drammatica” l’espansione di Givat Hamatos, che l’organizzazione Peace Now chiama “silent killer”. Oggi è un ghetto di roulotte ingiallite abitate da ebrei yemeniti in cima a una collina che si affaccia su Gerusalemme. Il governo Netanyahu vuole farci duemila case. Sarebbe la prima comunità ebraica costruita ex novo in venticinque anni nei territori contesi dal 1967 (quelle attualmente in costruzione sono estensioni di colonie esistenti). Israele andrà a edificare su terra demaniale, appartenuta ai turchi, agli inglesi, ai giordani e infine agli israeliani. Netanyahu assicura che andrà a studiare ogni centimetro e che le case saranno disponibili anche per i palestinesi. Sul Jerusalem Post, Lenny Ben-David, già diplomatico a Washington, ha spiegato l’importanza di questi quartieri: “Sorgono a un chilometro da Betlemme e a cinque dalla città vecchia di Gerusalemme. Non stupisce che i palestinesi attacchino. Ma questi quartieri ospitano un terzo della popolazione della capitale e proteggono la città”. Nel progetto E1 ci sono ragioni demografiche. Israele vuole mantenere sul 70 a 30 la percentuale di ebrei e arabi nella capitale. C’è bisogno di costruire cinquemila case ogni anno, centomila in venticinque.

    Nel maggio del 2009, Netanyahu aveva promesso all’Amministrazione Obama che non avrebbe costruito in quel corridoio di terra. Ma questo era prima del “bid” palestinese all’Onu. Ieri, parlando al magazine on line al Monitor, ufficiali israeliani hanno detto che “l’accordo con gli americani sulla E1 non è più rilevante”. E sempre ieri Netanyahu ha spiegato che anche l’ex premier, Yitzhak Rabin, incluse Maale Adumim nel municipio di Gerusalemme. E infatti il comandante militare dell’area, Gadi Shamni, ha firmato il via libera per la costruzione di questa “lifeline”. Il sindaco di Maale Adumim, Benny Kashriel, mostra i documenti che portano la firma di Rabin su quella che l’ex premier definì “opzione nucleare”, tanto per capire la sua importanza e sensibilità.

    L’espansione nella E1 rientra in quello che Netanyahu chiama “piano Allon plus”, che ricalca i principi di quello presentato dall’ex leader laburista Yigal Allon. In sostanza, Israele annette la regione di Gerusalemme, le aree con la più alta densità di colonie ebraiche, le fonti idriche e quattro strade principali. Nel piano di Netanyahu ci sono le “zone di difesa irrinunciabili”, ovvero l’area di Gerusalemme, che per assicurarsi il destino di capitale d’Israele deve inglobare le città satelliti che pareggino la forza degli arabi dentro e nei dintorni, e i “Green line settlement”, ovvero gli insediamenti a ridosso della linea del 1967 e a pochi minuti di auto da Tel Aviv.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.