L'agenda Monti per smantellare (ancora) il consociativismo italico

Marco Valerio Lo Prete

Non sul fisco e non sulle liberalizzazioni, forse, ma su un punto a Mario Monti viene riconosciuto – soprattutto dagli avversari – di aver dimostrato coerenza liberal-liberista: nella sfida alla concertazione che aveva finora caratterizzato le relazioni tra potere ed economia in Italia. Dopo la riforma delle pensioni (con i sindacati convocati per sole due ore), è venuta la riforma del mercato del lavoro (con cui l’esecutivo si vanta di aver scontentato sia i sindacati sia la Confindustria), poi infine il tavolo sulla competitività.

    Non sul fisco e non sulle liberalizzazioni, forse, ma su un punto a Mario Monti viene riconosciuto – soprattutto dagli avversari – di aver dimostrato coerenza liberal-liberista: nella sfida alla concertazione che aveva finora caratterizzato le relazioni tra potere ed economia in Italia. Dopo la riforma delle pensioni (con i sindacati convocati per sole due ore), è venuta la riforma del mercato del lavoro (con cui l’esecutivo si vanta di aver scontentato sia i sindacati sia la Confindustria), poi infine il tavolo sulla competitività. E su questo dossier il governo dei tecnici ha prima respinto ogni accordo “non di alto profilo”, poi mercoledì sera ha accolto un avviso comune delle parti sociali ed è andato avanti nonostante il veto della Cgil. Non è finita qui. Ora, con approccio simile e sicuramente non gradito a tutti gli attori in gioco, Monti pensa di regolamentare le “lobby”.

    Da 48 ore, infatti, sul sito web del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf), è disponibile l’“Elenco dei portatori di interessi particolari”. Si tratta di un elenco pubblico che raccoglie “i soggetti che intendono partecipare, attraverso attività di rappresentanza di interessi, ai processi decisionali pubblici di competenza dell’Amministrazione sottoposti all’Air (Analisi di impatto della regolamentazione)”. Chi si iscriverà gratuitamente al registro dovrà rispettare obblighi di trasparenza (i dati anagrafici, il domicilio professionale, gli interessi rappresentati, le spese sostenute per il lobbying, il tipo di modifiche proposte a disegni di legge governativi e schemi di regolamenti), in cambio di alcuni vantaggi (l’informazione tempestiva sui provvedimenti in preparazione del governo, la possibilità di esprimere valutazioni prima della decisione finale, infine il diritto a vedere prese in considerazione e giudicate davanti all’opinione pubblica le proprie proposte di modifica).

    Non è un addio agli incontri segreti in stanze altrettanto segrete, ma un filtro robusto sì. Per la prima volta dal 1948 a oggi viene regolamentato a livello nazionale il rapporto tra lobby e decisore pubblico, dopo che decine di progetti di legge erano stati insabbiati in Parlamento: “In questo modo abbandoniamo un sistema di norme disorganiche e con un andamento schizofrenico – dice al Foglio il professore Pier Luigi Petrillo, coordinatore a titolo gratuito dell’Unità di trasparenza presso il Mipaaf – e perseguiamo un duplice obiettivo, già ben presente al legislatore europeo e a quello statunitense. Da una parte garantiamo trasparenza del processo decisionale, dall’altra tuteliamo il diritto per i portatori d’interesse di partecipare in maniera trasparente alla scrittura delle norme”. La maggioranza delle società di lobbying è favorevole: “Era una norma ‘dovuta’ dal punto di vista legale. Inoltre è giusta perché pone su un piano di parità tutti gli operatori veramente attendibili”, spiegano i vertici del Chiostro, associazione italiana di lobbisti. Meno felici, secondo la ricostruzione del Foglio, sarebbero gli studi legali che sempre più offrono attività di consulenza ai loro clienti, oltre ad alcune storiche associazioni di categoria che perderanno così il monopolio dei rapporti privilegiati con la politica.

    Sergio Marini, presidente di Coldiretti, ribadisce al Foglio che “la rappresentanza spetta a chi è portatore di interessi diffusi in cui sia sempre riconducibile l’interesse particolare a quello generale della società”. Vade retro lobby, dunque? “Lobby è quella forma di pressione che rappresenta esclusivamente l’interesse particolare e che pertanto non dovrebbe trovare spazio, a prescindere, nell’interlocuzione con le istituzioni. Le Lobby ‘all’italiana’ hanno già fatto sufficientemente del male al paese per poterle legittimare in qualsivoglia forma”. Il governo la pensa diversamente, preferisce “un approccio trasparente, figlio di una cultura europea maturata a Bruxelles da molti membri dell’esecutivo”, spiega al Foglio Gianluca Sgueo, coordinatore per Palazzo Chigi dei rapporti con i cittadini e che ha collaborato con Petrillo a uno studio in materia per il dipartimento Politiche comunitarie di Enzo Moavero Milanesi. Anche questa volta, insomma, Monti sembra deciso a dare qualche dispiacere agli attori tradizionali del consociativismo (non solo sindacal-imprenditoriale) italiano. Da Palazzo Chigi infatti fanno capire che quello del ministro dell’Agricoltura, Mario Catania, è – con l’esplicita benedizione del premier – un “progetto pilota”, in vista magari di un registro centrale dei lobbisti da tenere a Palazzo Chigi.