
Mr Ingroia, I presume
L’innocenza di Michael Morton è stata certificata con venticinque anni di ritardo, quando ormai i secondini della prigione del Texas in cui era rinchiuso dal 1986 avevano buttato la chiave. La pena prevista per aver massacrato con un oggetto contundente la moglie Christine nel sonno, tutt’al più nel dormiveglia, era il carcere a vita, senza appello. A parte i genitori di Morton e un collega al supermercato Safeway in quel sobborgo di Austin, nessuno credeva che fosse innocente.
L’innocenza di Michael Morton è stata certificata con venticinque anni di ritardo, quando ormai i secondini della prigione del Texas in cui era rinchiuso dal 1986 avevano buttato la chiave. La pena prevista per aver massacrato con un oggetto contundente la moglie Christine nel sonno, tutt’al più nel dormiveglia, era il carcere a vita, senza appello. A parte i genitori di Morton e un collega al supermercato Safeway in quel sobborgo di Austin, nessuno credeva che fosse innocente. Non tutti erano certi che fosse colpevole, ma i superstiti steli di ragionevole dubbio sono appassiti nel tempo. In assenza di altri sospetti a portata di mano, la storia che lui quella mattina era al lavoro puzzava a sufficienza per essere dichiarata falsa. La scomparsa della calibro quarantacinque di Michael, l’assenza di segni di effrazione, i gioielli di lei rimasti sul luogo del delitto, la ricostruzione di un litigio la sera precedente – lui voleva concludere la serata in bellezza e aveva noleggiato un film esplicito per creare l’atmosfera, lei si è addormentata sul tappeto mormorando soltanto “domani” – non hanno fatto che stringere le manette attorno ai polsi dell’unico imputato. Sono tornati subito alla mente dei conoscenti le discussioni famigliari a volume alto condotte anche in presenza di estranei, e l’offensivo “dammi una birra, troia” che qualcuno gli aveva sentito pronunciare non si sa bene quando. Nel rapporto fra i due c’era qualcosa che non andava, questo era il sentire comune dopo l’omicidio, e in assenza di piste alternative bastava coltivare a dovere la sensazione per trasformarla in una certezza adamantina. Certo, c’era il furgone verde notato da un vicino in un sobborgo, Georgetown, dove non passano spesso macchine sconosciute; e c’era anche la bandana insanguinata trovata a un centinaio di metri da casa Morton. Erano dettagli che non tornavano, ma bastava che la squadra del procuratore Ken Anderson trovasse il modo di eliderli dalla scena o di ridurli a quisquilie irrilevanti per far quadrare di nuovo la vicenda.
Morton ha perso da subito il lavoro, la credibilità, l’onore, la reputazione, gli amici, la famiglia; con il passare degli anni ha perso anche Eric, il figlio che aveva tre anni quando ha assistito al massacro della madre. Aveva addosso soltanto una maglietta e il pannolino quando una vicina di casa ha notato che il bimbo se ne andava in giro solo e in lacrime nel cortile di casa. Il giudice lo aveva affidato alla cognata di Morton, anche lei convinta della colpevolezza di Michael; per una dozzina d’anni ha accettato controvoglia di accompagnare il bambino, poi l’adolescente, in carcere per visitare il padre due volte l’anno. Lei se ne stava in un angolo, disapprovando in silenzio il dialogo fra l’innocente e il mostro; lui si faceva più silenzioso a ogni visita, chiamava con fiducia “mamma” la madre putativa e nei suoi occhi il padre leggeva ogni volta con più chiarezza la versione della tragedia familiare promossa fra le mura domestiche, innanzitutto dai nonni di lui. Nessuno gli aveva mai parlato dell’omicidio – c’erano voluti anni e centinaia di ore di analisi per rimuovere il trauma – ma per far capire certe cose non c’è bisogno di scendere nei dettagli. A quindici anni le due ore di conversazione con l’assassino della madre sembravano decisamente fuori luogo, e un giorno Eric lo ha detto a chiare lettere: “Non voglio più venire qui”. Una volta compiuti i diciotto anni ha scelto di strapparsi di dosso il cognome del padre e di prendere quello del marito della “mamma”, il padre di fatto.
A uccidere Christine non era stato Morton ma Mark Alan Norwood, un tizio con una lista di precedenti in cui manca soltanto il concorso esterno in associazione mafiosa. Lo hanno scoperto ricavando il Dna dal sangue sulla bandana, e confrontando l’identità di quell’uomo con le impronte digitali rimaste sulla porta di vetro rimasta aperta per tutta la notte. La ragionevole certezza emersa dal verdetto si è frantumata sotto le evidenze scientifiche indisponibili all’epoca dei fatti e Michael è stato scarcerato.
Ci sono centinaia di errori giudiziari riparati tardivamente con la prova del Dna, non è colpa dei magistrati né dei pregiudizi se la tecnologia avanza e mette a disposizione modi per guardare a posteriori alcuni casi più in profondità. Il libro “Actual Innocence” di Jim Dwyer, cronista del New York Times, si limita a narrare i quarantatré errori giudiziari più madornali della recente storia americana, ma se si dovesse tenere dietro al ritmo con cui la giustizia viene riabilitata dopo pene decennali bisognerebbe pubblicare una nuova edizione ogni mese. Uno dei casi raccontati da Dwyer è quello di un uomo scagionato con un test del Dna cinque giorni prima dell’esecuzione.
Sulla vicenda di Morton, Pamela Colloff ha scritto sul Texas Monthly una storia in due puntate così minuziosa e letteraria che nell’altro mondo Truman Capote s’è levato il cappello. Ci sono le voci dei testimoni, degli amici, dei giudici, ci sono i giurati che percorrono a ritroso il corso dei loro pensieri in quei sei giorni di processo che hanno portato Morton alla condanna; ci sono i dati, un’infinità di dati, e c’è una ricostruzione più sottile fatta di carne, sangue e pensiero, la ricostruzione dell’ambiente umano e degli umani pregiudizi che hanno circondato la vicenda. Soprattutto c’è Ken Anderson, il procuratore distrettuale che aveva 33 anni quando Christine è stata uccisa sul suo materasso ad acqua. Era stato nominato da poco più di un anno. L’errore giudiziario è solo il primo tempo del film, il secondo è la vicenda di Anderson. Le evidenze accumulate negli anni dall’avvocato di Morton, aiutato dai legali di Innocence Project – un’iniziativa di due avvocati newyorchesi stanchi di vedere processi costruiti appositamente per soddisfare la fregola della gogna – dicono che Anderson in questa storia non è la vittima di circostanze indecifrabili. Non ha umanamente sbagliato la lettura degli indizi, ha più semplicemente voluto leggere negli indizi quello che gli andava. Le interminabili indagini postume riassunte da Colloff mettono in fila una lunghissima serie di omissioni volontarie, prove occultate, circostanze valorizzate con foga manettara e altre accantonate. La bandana insanguinata, la prova decisiva per la definitiva assoluzione, non è mai stata ammessa al rango di prova accettabile. Era troppo lontana dal luogo del delitto, diceva lo sceriffo ancora più giustizialista del procuratore; la verità è che la bandana non s’accordava con il teorema dell’omicidio in famiglia. Ci sono intere deposizioni non conformi al pregiudizio della procura che sono state buttate nel cestino, testimoni mai sentiti, un vicesceriffo che dopo avere raccolto evidenze chiama i suoi superiori per stabilire se vadano distrutte oppure conservate. E’ lo stesso che ha deliberatamente ignorato quello che il piccolo Eric ha detto alla zia: ha parlato di un uomo nella doccia vestito, aveva i baffi come suo padre ma non era suo padre. Poi ha descritto la scena del delitto, la borsa blu ritrovata sul corpo della madre da cui ha tirato fuori un tronco, arma mai rinvenuta che spiega le schegge di legno trovate sulla scena. Ha detto che l’assassino aveva i guanti rossi. Ora, un bambino di tre anni non può testimoniare in aula, ma sa riconoscere suo padre. E quel tizio era un altro.
I testimoni raccontano degli sforzi di Anderson di influenzare chi stava intorno a casa Morton: quando il procuratore inquadrava un soggetto debole o per qualunque motivo incline a vedere il sospettato come un tipo losco mandava i suoi scagnozzi a interrogarlo. Nulla di intimidatorio o minaccioso, non era necessario. Bastava aggiungere una parola in più, fare un’allusione, suggerire una pista fasulla, esagerare aspetti irrilevanti e omettere fattori che corroboravano l’ipotesi di innocenza per fare di uno scettico in buona fede un giustizialista a sua insaputa. Ha logorato l’unico sospettato con domande ossessive, ha gettato il seme del sospetto nella famiglia della moglie fin dai primi giorni, così che gli unici potenziali difensori del diritto dell’uomo a difendersi sono diventati alleati dell’accusa con il rito abbreviato. Davanti al giudice, Anderson ha messo in piedi scene da tragedia greca, ha catturato la giuria, che, del resto, navigava nella stessa direzione del sentimento popolare scientificamente creato dalla procura. L’atteggiamento stoico di Morton in aula non l’ha aiutato: voleva mostrarsi forte, è risultato insensibile, proprio come un uomo che uccide la moglie a sangue freddo. Il procuratore istrione urlava, si dimenava, teneva in pugno ogni coscienza perché a quel punto della storia il clima era tale che essere contro Anderson significava stare dalla parte dei cattivi.
In sei giorni è tutto finito, Morton è andato in carcere senza prospettiva di uscirne. La storia del condannato va avanti, ma qui la vicenda fondamentale riguarda Anderson, uno che sul caso Morton ha costruito una carriera: è stato nominato “procuratore dell’anno” nel 1995 dall’associazione dei magistrati e nel 2002 il governatore del Texas, Rick Perry, lo ha scelto per fare il giudice. La separazione delle carriere non va forte nemmeno in Texas. Nel frattempo è diventato un’autorità conclamata, ha scritto testi non soltanto giuridici ma anche rievocazioni storiche con molte connessioni nel presente. Il suo capolavoro porta un titolo ineffabile: “Crusader for Justice”, il crociato della giustizia, la storia del governatore texano Dan Moody che negli anni Venti ha iniziato a mettere sotto processo i capi del Ku Klux Klan. Nei suoi testi non manca mai di citare il caso Morton, la stelletta più scintillante nell’enorme carnet delle condanne, inizio di una perfetta carriera da cacciatore di streghe. Da una parte onori e fama pubblica, dall’altra indagini fatte un tanto al braccio, con prove che scompaiono e teoremi fatti in casa per arrivare a una condanna. Tutto circondato da una visione del mondo dove i buoni e i cattivi non si incontrano mai, c’è la luce della giustizia o l’ombra della colpa, nessuno spazio per la penombra.
Cosa succede in Texas, oppure in Italia, a un magistrato che, tanto per fare un esempio, si affida a testimoni che fabbricano prove farlocche, omette sistematicamente dati fondamentali, fa comizi politici, tende a vedere smentiti suoi teoremi dai giudici, si avvale di testimoni pronti a dire qualunque cosa, fa indagini a strascico per poi selezionare con calma i pesci, enuncia visioni del mondo apocalittiche in cui lui, guarda caso, fa la parte del messaggero della giustizia? Cosa accade a un magistrato che per tutta la carriera insegue imputati che poi vengono assolti? Di solito niente. Né in Texas né in Italia. Ce la si cava tutt’al più con un “ci dispiace”, come quello che ha detto Anderson dopo che Morton è stato scarcerato. Ha ammesso l’errore, non il dolo. Per quanto riguarda le sanzioni, invece, nulla. Sospensione? Macché. Incriminazione? Di rado. Declassamento? Mai. In Texas non si dice scurdammoce ‘o passato, ma il senso è quello. Il caso Morton però è troppo clamoroso per non avere conseguenze, e per una coincidenza il Texas è l’unico stato americano ad avere una “court of inquiry”, un vecchio istituto usato (molto di rado) per riaprire vecchi casi di malagiustizia. Un’indagine disciplinare dell’associazione dei magistrati, la stessa che lo ha premiato 17 anni fa, ha concluso che Anderson ha volontariamente omesso o occultato alcune prove decisive per il processo. Un giudice speciale nominato dalla corte suprema dello stato deciderà qual è la sanzione disciplinare congrua per le sue reiterate malefatte. Ma innanzitutto il 10 dicembre comparirà in un’aula del palazzo di giustizia di Georgetown a due passi da quella in cui ha sottoposto Morton alla devastante requisitoria che 25 anni fa ha convinto la giuria popolare della sua colpevolezza. Quell’aula dove un sostituto procuratore ha bisbigliato fra i banchi qualcosa del tipo “se la giuria avesse a disposizione tutte le prove cambierebbe idea”, frase che qualcuno ha captato ma – ironicamente – non c’erano prove che fosse stata effettivamente pronunciata. In aula ci sarà anche Morton, questa volta non alla sbarra degli imputati. La “court of inquiry” ripercorrerà le 13 mila pagine messe insieme in venticinque anni dagli avvocati dell’uomo condannato ingiustamente, scaverà dentro ogni omissione e occultamento, e a prescindere dalla sentenza farà un elementare gesto di civiltà non soltanto nei confronti di Morton ma di tutti gli intossicati dal fumus persecutionis. Quando sono arrivati gli esiti dell’esame del Dna sulla bandana che lo scagionavano, gli ex amici di Morton hanno preso a scrivergli lettere di scuse. In una delle risposte, generalmente sobrie, si legge: “Ancora oggi mi chiedo quali fossero e quali sono ancora le loro motivazioni. Mi chiedo, perché? Carriera? Pressione della categoria? Hybris? Malinteso senso del dovere? Una perversa brama di catturare i cattivi? Non lo so. So soltanto quello che hanno fatto”.
Nella supercorte che giudicherà Anderson ci sono i giudici più smagati del Texas. Se non fosse l’imputato, l’aspirante crociato della giustizia sarebbe certamente fra i candidati per entrare nella squadra. Lui può opporre un team di avvocati altrettanto navigato, e dalle dichiarazioni dei legali si evince la linea dura che vorrà tenere: nessuna concessione, nessuna ammissione di colpa. Tanto meno ci si aspetta che Anderson provi a rispondere alla domanda di Morton: perché? Perché quella irrefrenabile voglia di graticola travestita da giustizia? La consolazione è sapere che c’è un giudice in Texas. La condanna è che questo giudice si dà da fare soltanto quando la deliberata persecuzione è a tal punto manifesta che nemmeno il più forcaiolo dei teoremi riesce a farla apparire come un esercizio della giustizia.


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